30 ottobre 2013

REALTA' E POSSIBILITA' IN R. MUSIL

Chagall


Dal sito http://criticaimpura.wordpress.com/

riprendo questo bel saggio: 

 

Aldo Riccadonna - Musil e la dialettica irrisolta di realtà e possibilità. Una lettura di “Il compimento dell’amore”


Perché noi dovremmo dare il nostro assenso ed elargire l’ortodossia alle cose che si sono realizzate e non alle cose che sono rimaste solo nell’ambito del possibile? È un tema centrale in Musil, per il quale: “Le attuazioni mi attraggono sempre molto meno che le cose inattuate, e con ciò non intendo soltanto quelle del futuro ma altresì quelle passate, mancate” [1].
Nel racconto di Robert Musil Il compimento dell’amore si tocca infatti l’apice della dicotomia fra realtà e possibilità. Claudine e suo marito vivono in un’ unione perfetta, come in un tutto autosufficiente, ma sentono talvolta qualcosa che li divide. Per andare a trovare la figlia Lilli, nata da un precedente matrimonio e che ora per motivi di studio vive in un collegio, Claudine parte in treno. Durante il viaggio in treno e poi in slitta, lei si rammenta della sua vita precedente e ne viene incatenata con sgomento. L’allontanamento dal marito determina una cesura nella sua vita. Si sente estranea alla vita precedente e la persona che era, fino a poco prima, le appare come una sconosciuta: scopre così il passato, cioè uno spazio mentale morto. Ma cosa è mutato, si chiede?: “Eppure la risposta era semplice: era cambiata lei stessa; ma Claudine sentiva una strana ripugnanza ad ammettere quella possibilità […] Mentre ella ora non capiva l’agevolezza con cui si sentiva straniera a un passato che una volta le era stato vicino quanto il suo corpo stesso, e ora le sembrava inconcepibile che qualcosa fosse stato diverso da adesso. […] Oppure basta ricordare: ieri ho fatto questo o quest’altro: qualsiasi istante è sempre come un abisso e sull’orlo rimane un essere malato, che non si conosce e che a poco a poco impallidisce alla vista; solo che non ci si pensa. E di colpo come in una illuminazione improvvisa ella vide tutta la sua vita dominata da quell’incomprensibile, continuo tradimento che si commette ad ogni istante strappandosi via da se stessi senza sapere perché” [2].
Il passato si crea quando la nostra vita passata ci rimane sconosciuta ed estranea. Ora Claudine sente che quel passato non le appartiene, eppure quel passato era lei stessa, ma una lei stessa ormai morta e che ora non si riconosce. “Qualsiasi istante è sempre come un abisso”: in qualsiasi istante del presente noi viviamo in pieno, perché è l’unico istante che abbiamo, ma quell’istante è come un abisso perché subito rimpiazzato da un altro diverso, in quanto noi siamo sempre sul punto di mutare. Per cui all’orlo di quell’istante, una volta che sia trascorso, rimane il nostro Io malato o il nostro scheletro: quello che siamo stati è morto, sorpassato, effimero, impallidito. Abbiamo vissuto per un istante solo e subito dopo siamo morti. E ad ogni istante si ripete questa nascita-morte in un Io differente. Anche l’unione col marito viene dichiarata da Claudine effimera ed inconsistente, priva di alcuna necessità. Infatti pur essendo felice col marito “era assalita talora dalla consapevolezza di una nuda realtà, quasi di una casualità; a volte pensava che doveva esserle riservato un altro, lontano modo di vivere”[3]. Comincia così a definirsi il senso della causalità della realtà. Claudine sente che solo per un caso ha vissuto con quel marito, un altro caso l’avrebbe immessa in un’altra vita: nessuna necessità ha decretato la sua vita (come quella di qualsiasi altro), ed un lontano modo di vivere, lontano da quello realizzato, lei sente che le sarebbe stato concesso, se non fosse incappata nell’attuale marito.
In questa nuova sensazione la sua unione col marito le appare inconsistente, anzi, tutto le appare come fluido, casuale, effimero, irreale, sospeso, senza alcuna necessità e vede realizzato negli oggetti quello che lei sente: le cose sono staccate da lei, cioè non appartengono più a un ambito definito, ma sono giustapposte senza alcun motivo. Vede cioè all’esterno lo specchio di ciò che avviene al suo interno. Sempre succede così: noi ammantiamo quello che sta fuori di noi col sentimento che sta in noi. “Ella provava una malinconia che non poteva essere quella del solito bisogno d’amore, ma quasi un desiderio di abbandonare quel grande amore che possedeva, come se intravvedesse vagamente la via di un’ultima concatenazione che non la conducesse più all’amato ma via da lui, inerme, indifesa verso il molle e arido avvizzimento di una dolorosa lontananza” [4]. Claudine intravede un’altra concatenazione di eventi, altri fili che la potrebbero condurre altrove. Ogni concatenazione è casuale, e quindi perché preferire l’una all’altra? Sono intercambiabili, non vi è alcuna necessità dell’una a scapito delle altre.
Dal treno, scorge dal finestrino alberi e case e prati che scivolano via veloci: questa visione la immerge nella sensazione di essere prigioniera del suo proprio essere, legata sempre a un dato posto, anno per anno. Si sente prigioniera della realtà casuale che l’ha costretta in quel luogo, con quel marito ecc. La sua felicità col marito era anch’essa quindi una realtà casuale, non necessaria e quindi poteva diventare cenere! Una cosa necessaria non può infatti annullarsi, ma una cosa proveniente dal caso può essere retrocessa al vuoto da cui è scaturita. “Il suo passato le sembrò a un tratto l’espressione imperfetta di qualcosa che doveva ancora accadere” [5]. Il passato è stato solo una delle infinite possibilità. Nella sua mente Claudine si rivolge al marito in questi termini: “Perché tu, laggiù, non possa mai più credere saldamente e semplicemente in me. Perché io diventi un riflesso inafferrabile che si dilegua appena tu mi lasci andare, solo un miraggio, cioè tu sappia che io sono soltanto qualcosa dentro di te e grazie a te, solo finché tu mi tieni stretta… e qualcosa di diverso se tu mi lasci andare, o mio amato e a me così stranamente unito” [6].
Claudine vuole staccarsi dalla realtà che attorno a lei le ha creato il marito: solo dentro la realtà creatale da lui, lei è reale, cioè staccata dalla possibilità. Lui l’ha creata e lei è tale solo nella mente di lui, ma questa è un’illusione di quell’uomo! Se lui lascia la presa, se lui la lascia andare altrove, se la lascia pensare a un mondo diverso da quello che le ha elargito, la sua creazione diventa fumo che svanisce. “La sua vita si scindeva in mille possibilità, si svolgeva come gli scenari arrotolati di molte vite diverse” [7]. Perduto il riferimento alla realtà, quella realtà che la chiudeva in una delle infinite possibilità, Claudine si affaccia sperduta e bramosa all’abisso vuoto di un’altra vita fluttuante.
Il regno della possibilità dà la vertigine di un vuoto, dove l’individualità si è dileguata. L’Io di Claudine, sedotto dalla possibilità, si rende opaco ed evanescente, e proietta il suo fantasma sugli altri viaggiatori del treno, che ora appaiono anch’essi senza contorni, lenti ed irreali. Si sente ormai lanciata fuori dal suo ambiente, dalle sue abitudini, dalla sua realtà di individuo dove tutto era predeterminato. È lanciata nel vuoto senza sponde, ed infatti solo l’individuo può avere sponde, mentre un ente senza contorni fluttua come fumo. La stessa sensazione la assale nella sala da pranzo dell’albergo: gli oggetti della stanza le sembrano come privi del loro posto; l’ordine delle cose, prima legato a una catena coordinata di impressioni, ora le sembra un incessante frastuono. La discordia fra lei e gli oggetti comincia a prendere possesso della scena mentale di Claudine, che perde il contatto con la realtà, con quegli oggetti che prima le sarebbero apparsi come immessi nella sua realtà di individuo che vive una vita determinata: “A poco a poco qualcosa nasceva in lei, come quando si cammina in riva al mare: la sensazione di non potersi opporre a quell’infuriare di onde che strappa via ogni azione e ogni pensiero non lasciando altro che il momento presente, e poi un’incertezza, una lenta impressione di oltrepassare i propri limiti, di smarrire la propria identità, di perdersi […] V’era una forza travolgente e devastatrice in quel senso di perdizione, in cui ogni attimo era come una solitudine selvaggia, irresponsabile, tagliata fuori da ogni cosa, che fissava il mondo con smemorato stupore” [8].
 L’attimo presente è solitudine, in quanto non esiste più il concatenamento della realtà, ma domina l’infuriare di onde, cioè il regno della possibilità, che strappa le azioni dal loro rassicurante concatenamento e lascia solo l’attimo. Si smarrisce l’identità-individualità, si oltrepassano i limiti e ci si perde in una atmosfera rarefatta. Ogni attimo rimane quindi solitario, irresponsabile, in quanto non più correlato agli altri attimi, mentre la responsabilità si predica solo se c’è uno svolgimento fra i vari attimi, solo se esiste un ente conchiuso che agisce, cioè un Io. Quell’attimo fissa il mondo, fatto ormai solo di fantasmi irreali, con stupore, cioè non vi comprende più un ordine, un fine, uno scopo. “Ella pensò: si traccia una linea, una sola linea coerente, per trovare un appoggio fra le cose che torreggiano mute; questa è la nostra vita; qualcosa come parlare senza mai smettere e illudersi che ogni parola derivi dalla precedente e susciti la seguente, perché si ha paura, se il filo si strappa, di vacillare e di essere inghiottiti dal silenzio; ma è solo debolezza, solo terrore della tremenda, spalancata casualità di tutto quel che facciamo” [9].
Mentre le cose sono mute, siamo noi a creare tale linea coerente per paura del vuoto nulla-possibilità, che se ne sta silenzioso e indifferente. Ma è solo per terrore che si crea la linea, terrore del nulla.  Claudine si sorprende a vagare sola nelle strade della cittadina, sospinta dallo sgomento e dalla brama di affrontare titanicamente l’ignoto che lei stessa rinserra, osservando una vita che le appare stravolta “e dappertutto, come in largo fiume che accoglieva placidamente ogni cosa, c’erano piccoli vortici turbinanti attorno a un centro, un risucchio verso l’interno che improvvisamente era cieco e senza finestre, al limite dell’indifferenza; e dappertutto c’era quella sensazione di essere trattenuti dalla propria eco in uno spazio ristretto che afferra ogni parola e la prolunga fino alla successiva, perché non si senta ciò che sarebbe insopportabile: l’intervallo, l’abisso fra gli urti di due azioni, nel quale ci si allontana dal senso della propria identità, e si precipita nel silenzio fra due parole, che potrebbe il silenzio fra due parole di qualcun altro” [10].
I piccoli vortici, gli spazi ristretti, sono la realtà cieca, impregnata di se stessa senza aperture esterne: così è la realtà, un piccolo vortice che si ritaglia il suo piccolo regno nel mare della possibilità. E tale vortice sta al limite dell’indifferenza, cioè tutto è indifferenza attorno ad esso, dove si spalanca l’immenso vuoto. Lo spazio ristretto-realtà è creato dalla concatenazione degli eventi o delle parole. Ma fra ogni evento-parola e l’altro sta un intervallo terrificante, un abisso che li separa e che solo postulando arbitrariamente un ponte fra essi viene colmato. In questi intervalli sta la perdita dell’individualità, si precipita nell’inespresso della possibilità, nel silenzio nell’immobilità, nell’indifferenza: “E allora l’assalì il segreto pensiero: in qualche luogo fra costoro vive un uomo, un altro [uno qualsiasi], uno che non è adatto a me ma al quale tuttavia mi potrei adattare e in tal caso non saprei mai nulla di quella che io sono oggi. Giacché i sentimenti esistono solo in una lunga catena di altri sentimenti, reggendosi l’un l’altro; e quel che importa è che un punto della vita si attacca all’altro senza soluzione di continuità, e ciò può accadere in mille modi. Per la prima volta da quando amava le balenò l’idea che si trattava di un caso; per un caso qualcosa diventa realtà, e allora lo si tiene stretto. […] E fu allora come se dovesse lasciarsi andare di nuovo alla deriva, fra le cose non avverate, nella terra di nessuno” [11].
 Se Claudine avesse incontrato un altro uomo, uno qualsiasi dei milioni che esistono, e se con lui avesse formato una unità, ora non saprebbe nulla della vita che oggi ha con suo marito. Anche i sentimenti, anche l’amore, sono come tessere concatenate e si reggono l’un l’altro come storpi che non potrebbero avanzare da soli ma solo in quanto puntellati da un altro storpio. Ma tale protesi può avvenire in infiniti modi, solo per caso si concretizza quella catena e non un’altra. Le “cose non avverate, nella terra di nessuno”, stanno lì con le loro fauci immense a ricordare il senso effimero di ogni nostro istante.
Mentre Claudine sta parlando coi professori della figlia, viene assalita dal pensiero che lei è separata dagli altri solo in quanto individuo che si è creato la sua concatenazione di vita, concatenazione diversa da quella degli altri, ognuno dei quali appare nella realtà come un ente conchiuso, con le sue determinazioni, i suoi scopi, le sue giustificazioni. Le sopraggiunge il pensiero che, se l’atmosfera di uno qualunque di quegli uomini si chiudesse attorno a lei, se uno di essi divenisse il suo amante, ciò produrrebbe una realtà cristallizzata, staccandosi dalla possibilità. Però Claudine è ben conscia di dare a questo sogno il valore evanescente di un segno tracciato nell’acqua, come se tale realtà fosse senza significato, effimera, in quanto casualmente emersa dal vuoto-possibilità, mentre invece il suo Io naviga in realtà non nate, nella possibilità, che è al di fuori del mondo perché il mondo si basa sulle realtà nate. “La sua sicurezza, il suo aggrapparsi con angoscia amorosa all’amato [marito], le sembrò in quel momento qualcosa di arbitrario, d’irrilevante e puramente superficiale in confronto con la sensazione – che la ragione non riusciva quasi più ad afferrare – della fusione assoluta di due esseri in un’intimità suprema e senza eventi” [12].
Il duetto amoroso col marito appartiene alla realtà effimera, che ora lei dalla visuale vertiginosa del vuoto può dichiarare un mero surrogato della verità. La vera fusione non ha eventi, non ha concatenazioni, non emerge, non ha scopi né giustificazioni: la vera fusione avviene nel nulla? In treno e poi in slitta, Claudine aveva fatto conoscenza con un uomo che rimane sempre come ignoto, indefinito; non rappresenta per lei un ente determinato, ma le appare effimero, impalpabile, casuale. Egli è una possibilità, non una realtà. È un altro tassello del viaggio interiore di Claudine, la cui individualità si sta sfaldando compromettendo contemporaneamente ogni altrui individualità. E Claudine sentiva tutto ciò con un piacere indefinito, rincorso con sgomento e brama. L’uomo, nel tentativo di sedurla, le dice: “Mi creda, non si tratta che d’abitudine. Se lei a diciassette o diciotto anni – non so – avesse conosciuto e sposato un altro uomo, oggi lo sforzo d’immaginarsi moglie del suo attuale marito non le riuscirebbe meno difficile” [13]. Tradotto suona così: “Se lei fosse sposata con un altro, e non avesse mai conosciuto suo marito – oggi sarebbe per lei ben difficile o assurdo pensare al suo attuale marito, perché non lo avrebbe mai conosciuto; così avviene anche in questa presente occasione: lei ora ha di fronte me, un altro uomo, e la vicenda con suo marito le appare lontanissima ed assurda”. È solo per abitudine che abbiamo cristallizzato la nostra realtà. Abitudine è un sinonimo di concatenazione di eventi: la realtà si basa sull’abitudine, sulla concatenazione arbitraria di eventi, ma ogni abitudine è casuale, come aver sposato un uomo invece che un altro. È casuale perché l’incontro fra le persone è casuale e non vi è in esso alcuna necessità. L’uomo vuole farle intendere che la realtà è effimera e insignificante. Ovviamente lui lo dice per sfruttare l’occasione per fare un’avventura sessuale, e non certo in quanto filosofo! Infatti Claudine disprezza quell’uomo che ritiene una nullità, ma ciò non inficia la sua brama di prorompere nel regno della possibilità, in questo caso di fare con lui un’avventura sessuale – anzi, il disprezzo che essa nutre per lui, è un punto a favore di quella brama: il regno della possibilità non permette alcun attaccamento a un ente, ma è immersione, perdita del proprio Io, e quindi le persone con cui ci accompagniamo devono essere amorfe, prive di qualsiasi qualità che ce le facciano preferire, altrimenti ricadiamo nella realtà: devono cioè essere enti intercambiabili, rappresentazioni o rappresentanti del vuoto amorfo ed indifferente: “E a poco a poco le parve che quello che l’uomo desiderava da lei, quell’atto in apparenza così grande e importante, fosse assolutamente impersonale; si riduceva a quell’essere contemplata così, con uno sguardo stupido e ottuso, come nell’aria si guardano l’un l’altro, estranei, i punti incomprensibilmente riuniti a formare un disegno casuale. Rabbrividì, oppressa dal pensiero di non essere lei stessa che uno di quei punti. Quell’idea le dava una strana sensazione di sé, non aveva più niente da fare con la spiritualità e la libera scelta dell’esser suo, eppure ogni cosa restava sempre la stessa. Di colpo ella perse la coscienza che l’uomo davanti a lei era di mentalità goffa e comune. E le sembrò di essere fuori all’aperto, e intorno a lei i suoni nell’aria e le nuvole in cielo stavano fermi, affondati nello spazio e nell’attimo, ed ella stessa non era diversa da loro, era un vapore, un’eco… credeva di capire l’amore degli animali… delle nuvole e dei suoni” [14].
Il tradimento, che lei si appresta a commettere, le appare impersonale, cioè non viene fatto da lei in quanto Claudine-realtà, ma viene fatto da Claudine-possibilità: quell’uomo che le chiede attenzione può essere uno qualsiasi, perché lei ha smesso i panni della realtà, è divenuta un ente impersonale, un ente che scruta le connessioni che fanno di un ponte la realtà, come a effimeri fumi che si disperdono senza lasciare traccia. Claudine, in quanto individuo della realtà, si è eclissata, e rimane un “disegno casuale” a connettere punti che si guardano estranei. Di lei si impossessa una nuova strana sensazione, quella della scomparsa di lei stessa come individuo e della sua coscienza individuale. Quando ci si immerge nella possibilità non c’è più un Io personale, ma qui l’Io è infinite possibilità, cioè nessuna possibilità reale, in quanto se quell’Io si cristallizza in una di esse e diventa reale, esso emerge dalla possibilità, cioè tradisce la possibilità. Insomma: il regno della possibilità (cioè di tutti i casi della realtà) non può essere che immobile e non può esprimere alcuna delle sue infinite possibilità.
Claudine sperimenta che questa vertigine è il proprio sgretolamento nel tutto immobile e fuori del tempo, dove lei non è diversa dalle nuvole, dall’aria e dagli animali. All’uomo, che la interroga in proposito, dice la bugia che lei non ama suo marito. Lo dice per aprire le porte alla possibilità. Claudine si sdoppia, la sua immersione nel regno della possibilità è un travaglio drammatico, che non abbandona il suo io reale, o meglio essa vive come scissa in due regni incommensurabili, e non decide per l’uno o per l’altro, ma nemmeno potrebbe fare questa scelta: ogni io è tale solo se è reale e la via verso il vuoto è solo una aspirazione, finché non si approda al misticismo; ma Claudine non è ancora approdata in questo lido. Da un parte, lei ama il marito (“la sorreggeva una certezza di essere ancora l’uno per l’altro la cosa suprema, di appartenersi senza parole, increduli”) [15] – dall’altra brama la possibilità, mentre sta aspettando l’uomo nella stanza dell’albergo. In questa stanza, abitata precedentemente da altre molte persone, sente la loro presenza e vi si identifica, cioè si identifica in queste persone che come lei hanno casualmente là soggiornato. Anche loro appartengono alla casualità e Claudine, ormai essere totalmente casuale, si scopre col pensiero a gettarsi sul tappeto ed annusare come un cane gli odori dei loro piedi e a baciarne le impronte eccitandosi.
Dopo che è avvenuto il tradimento, Claudine dice all’uomo: “sembra di scivolare attraverso un passaggio angusto: bestie, uomini, fiori, tutto è cambiato; noi stessi siamo diversi. Ci si chiede: se io fossi sempre vissuta qui, che cosa penserei di questo, come sentirei quello? È strano, non c’è che un solco, un solco da varcare. Vorrei lasciarla, e poi tornare al di qua del solco a guardare; e di nuovo tornare da Lei. E ogni volta che passo il confine lo dovrei sentire più intensamente. Diventerei sempre più pallida. La gente morirebbe, no, diventerebbe secca, rattrappita; e così gli alberi e gli animali. E alla fine non ci sarebbe più che un fumo sottile sottile… e poi ancora una melodia… fluttuante nell’aria… al di sopra di un vuoto…” [16]. Claudine intende quel solco come una cesura fra ciò che lei è e ciò potrebbe essere, se fosse sempre vissuta qui con lui. Lei vuole sentire in due maniere, si sdoppia e vuole assaporare le due diverse sensazioni: esse sono intercambiabili perché nessuna delle due è quella vera, essendo entrambe casuali. E lo farebbe molte volte per vedere le cose dalle rispettive prospettive, le quali determinano diverse vite. Ma ad ogni passaggio qualcosa si perderebbe e si diventerebbe sempre più pallidi, rattrappiti: ci si dileguerebbe in un fumo sottile, in una melodia, nel vuoto: si perderebbe la propria individualità, perché essa consiste solamente quando la prospettiva è una sola, quella della realtà. “E poi Claudine sentì con orrore che, nonostante tutto, il suo corpo si colmava di voluttà. E tuttavia in fondo alla sua memoria pensava a qualcosa che aveva sentito una volta in un giorno di primavera: come potersi dare a tutti, eppure appartenere a uno solo” [17].
Si chiude col dilemma irrisolto della dialettica tra realtà e possibilità. Claudine non può scegliere fra le due, le vive entrambe. Quando è nella dimensione della possibilità, si dà a tutti; quando è nella dimensione della realtà è di suo marito. Il suo darsi a quell’uomo non è dunque un tradimento perché le due dimensioni sono incommensurabili. Il marito appartiene alla realtà di Claudine, mentre l’altro uomo (che non è un uomo determinato, ma solo un simbolo di tutti gli altri uomini) appartiene alla possibilità. Claudine avrebbe tradito il marito se si fosse concessa a un altro uomo reale, a una nuova realtà. Musil proietta la dicotomia fra realtà e possibilità sullo sfondo di una vicenda sentimentale: il tradimento con uno sconosciuto, lontano da casa e dalla realtà, nel regno della possibilità: essere lontana da casa, nell’ignoto è infatti la metafora della possibilità. Claudine ha una morbosa attrazione verso il tradimento, metafora della possibilità, ma ne ha anche terrore, la realtà infatti fa valere il suo potere rassicurante. Claudine si sente sicura e protetta fra le braccia del marito, cioè nella realtà in cui l’individuo assume se stesso come scopo – eppure vi si ribella e lo tradisce, cioè assapora la dimensione delle possibilità, al di là della sua forma-Io effimera e casuale.   
Talvolta Musil introduce Dio: “Il possibile però non comprende soltanto i sogni delle persone nervose, ma anche le non ancor deste intenzioni di Dio”; “Dio fa il mondo e intanto pensa che potrebbe benissimo farlo diverso” [18]. Dio è in questa ottica il simbolo del regno della possibilità. Musil ha decretato l’illusorietà della realtà, la sua casualità e miseria; ha sondato la vertigine di una visione che frantumava ogni realtà al cospetto di una misteriosa e travolgente ondata di vuoto. Siamo lontani dalla lucente dialettica hegeliana: qui invece il connubio tra realtà e possibilità apre allo sgomento. La realtà, allorché si ritiene casuale, è già entrata nella possibilità: la realtà costituisce una delle infinite possibilità, senza alcuna necessità. Tale pensiero porta nell’alveo delle infinite possibilità, in quanto la realtà si prospetta le altre infinite alternative a se stessa.
La possibilità irretisce nell’immobilità, perché da quell’ambito non è più possibile scegliere una delle sue realtà, altrimenti si ricade nella realtà stessa. La possibilità rimane un regno oscuro di sgomento e di perdizione, in quanto predica l’avvio di infinite realtà, sembra stia eternamente per dare l’impulso al suo prorompente bagaglio – ma questo multiforme magma rimane eternamente immobile, come un otre pieno d’aria che non riesce mai a trovare lo spiraglio per uscire.
L’approdo di Musil concerne la messa a tacere sia della realtà che della possibilità. Egli dice che “sembra che l’intera storia dell’umanità sia percorsa dalla divisione in due stati dello spirito. Essi, certo, si sono influenzati in vario modo, hanno anche accettato dei compromessi, ma in realtà non si sono mai veramente mescolati”.[19] Il primo stato pertiene all’attività umana per dominare il mondo con misure e calcoli, con cause e scopi; è l’uomo manipolatore che intende imporsi alla natura, che lotta per la vita sfoderando tutte le sue qualità più violente e sopraffattrici. Di fronte a questo stato dello spirito, ne esiste un altro, chiamato in vari popoli “stato dell’amore, della bontà, del distacco dal mondo, della contemplazione, della visione, dell’avvicinamento a Dio, dell’estasi, dell’assenza di volontà, della meditazione” [20].
Il punto di arrivo di Musil è dunque il misticismo: realtà e possibilità sono i regni dell’individuo, ovvero del principium individuationis. L’altro stato è quello dell’annientamento dell’individuo. Ecco che allora scompare la sgomentante dialettica fra realtà e possibilità, laddove non esistono né realtà né possibilità, le quali hanno nell’individuo il loro ambito. Nella possibilità si è ancora individui, anche se immobilizzati nel regno infinito di infinite alternative. La possibilità si paralizza nell’immobilità, ma è una immobilità che sgomenta perché è ancora l’individuo a sentirsi immobilizzato. Mentre nella realtà l’individuo è formato a tutto tondo, nella possibilità egli è come sfuocato, sfumato, autorepresso ma non è in procinto di dileguarsi, anzi, soffre per non potersi esprimere. Nello sgomento di realtà e possibilità regna l’individuo casuale e infinito.
Talvolta per Musil l’inabissarsi nel tutto è l’altra faccia dell’amore ma non è l’amore degli individui, in quanto quest’ultimo soggiace alle qualità solipsistiche dell’attivismo, del potere, del calcolo. Ulrich, riferendosi ai mistici, dice: “Essi parlano di un chiarore che inonda. Di una vastità infinita, di un’infinita ricchezza di luce. Di una ‘unità’ fluttuante di tutte le cose e di tutte le forze dell’anima. Di un meraviglioso e indescrivibile slancio del cuore. Di rivelazioni così fulminee, che tutto è allo stesso tempo, e simili a gocce di fuoco che cadono sul mondo. E d’altra parte parlano di un dimenticare e di un non più capire e perfino di un tramontare delle cose. Parlano di una pace immensa, inaccessibile alle passioni. Di un ammutolire, di uno scomparire dei pensieri e delle intenzioni. Di una cecità in cui vedono chiaro, di uno splendore in cui essi sono morti e sovrumanamente vivi [morti in quanto individui, vivi come sovrumani, cioè non come individui]. Lo chiamano ‘annientarsi’ eppure sostengono di vivere più pienamente di prima” [21]
Qui si prospetta di dimenticare la propria individualità, di non più capire, perché la ragione si dilegua, essendo essa patrimonio dell’individuo; di un tramontare delle cose, cioè della loro individualità; di una pace inaccessibile alle passioni, cioè all’individuo; dello scomparire dei pensieri e delle azioni. Cioè si prospetta l’annientamento dell’individuo; le cose non esistono in questo stato mistico, e non si può quindi nemmeno parlare di un loro connubio o contatto simpatetico: semplicemente non può più esistere tale contatto perché l’individuo è scomparso.    
Musil si inserisce nella visione di Eckhart, secondo il quale nel tutto, che è silenzio ed abisso, non c’erano individui ma si era nel tutto: là io volevo il tutto e lo ero. Là nemmeno Dio c’era perché anche lui è un ente individuale. Là invece tutto era uguale, che fosse angelo mosca o anima, ma nemmeno c’erano angeli mosche e anime perché tutto era uguale e silenzio immobile. “Esso è lontananza e deserto, senza nome piuttosto di avere un nome, sconosciuto piuttosto che conosciuto” [22]. Là tu non sei separato dalle cose, e quindi tu sei Dio e tutte le cose, perché non esiste un Dio separato da te. “[Dio] è un puro, limpido, chiaro Uno, separato da ogni dualità. E in questo Uno dobbiamo eternamente sprofondare dal qualcosa al nulla” [23]. Privo del proprio essere individuale, come lo era prima di nascere, l’uomo-tutto è qui lontano da tutto quel che è molteplicità e numero.
Anche un filone della filosofia indiana prospetta la negazione dell’esperienza umana, nel superamento della condizione umana. Secondo l’induismo di Śankara (788-820 d.C.), la mente deve essere abolita, perché essa evoca un oggetto esterno come fosse reale. Ma se si abbandona il mondo duale, nulla viene evocato come cosa da desiderare o da evitare. Si sta immobili senza mente. “Quando, per mancanza di predisposizioni, la mente non pensa mai, allora sorge lo stato non mentale, che dà la quiete suprema” [24].  “Egli rimane là dove non vi è non-essere né nulla che sia, né io né non-io, isolatamente, estinto il pensiero, libero da dualità e da unità” [25]. Qui non c’è né dualità né unità, né finito né infinito, né essere né non-essere, in quanto tutto ciò fa parte della dualità, del pensiero e del mondo, cioè dell’illusione. A differenza degli occidentali, sia nell’Induismo (nella visione di Śankara) che nel Buddhismo (nella visione di Nāgārjuna), l’ignoranza è causa del dolore e del mondo duale: solo per ignoranza noi non sappiamo di essere nel tutto dell’eternità immobile, mentre il divenire e il tempo appartengono all’illusione della vita individuale. Dunque sia ad Oriente che ad Occidente del mondo rimane però un mistero: come sia possibile che esista l’ignoranza di credersi individui e come al tempo stesso sia possibile che esista la creazione dell’individualità, se essa è un ente da annientare e da dimenticare, per entrare nel tutto da cui non ci siamo mai mossi o a cui dovremo tornare.


[1] R. Musil, L’uomo senza qualità (1931-33), CDE, Milano 1994, p. 265.
[2] R. Musil, Il compimento dell’amore (1911), in Tre donne, Einaudi, Torino 1960, p. 147.
[3] Ivi, p. 126.
[4] Ivi, p. 127.
[5] Ivi, p. 130.
[6] Ivi, p. 149.
[7] Ivi, p. 148.
[8] Ivi, pp. 154-155.
[9] Ivi, p. 156.
[10] Ivi, pp. 159-160.
[11] Ivi, p. 160.
[12] Ivi, p. 148.
[13] Ivi, p. 151.
[14] Ivi, pp. 152-153.
[15] Ivi, p. 157.
[16] Ivi, p. 168.
[17] Ivi, pp. 168-169.
[18] R. Musil, L’uomo senza qualità, cit., pp. 12 e 14-15. 
[19] R. Musil, Spunti per una nuova estetica. Osservazioni su una drammaturgia del film (1925), in Saggi e lettere, Einaudi, Torino 1995, p. 96.
[20] Ivi, p. 97. 
[21] R. Musil, L’uomo senza qualità, cit., p. 729.
[22] Meister Eckhart, Sermoni tedeschi, Adelphi, Milano 2001, p. 93.
[23] Ivi, p. 258.
[24] Vidyāranya, Jīvanmuktiviveka. La liberazione in vita, Adelphi, Milano 1995, p. 213. Vidyāranya è un seguace di Śamkara, vissuto nel XIV sec.
[25] Ivi, p. 274.

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