18 ottobre 2013

LUOGHI COMUNI DI RITORNO SUL SUD











Francesco Erbani - Benvenuti al Sud. Viaggio di ritorno nei luoghi comuni



Non è semplice districarsi nell’ingorgo di parole rovesciate sul Mezzogiorno d’Italia e su chi vi abita. Si rincorrono denigrazioni e autocompiacimento. Fioccano stereotipi e antistereotipi che rumorosamente e poi stancamente si aggrovigliano. Ma il risultato paradossale è che questo vociare produce una forma di afasia: sullo stato delle regioni meridionali, salvo eccezioni (Gianfranco Viesti, Carlo Trigilia e Giovanni Valentini, autori rispettivamente di Il Sud vive sulle spalle del Nord che produce. Falso, Laterza, Non c’è Nord senza Sud, Il Mulino, e Brutti, sporchi e cattivi, Longanesi), negli ultimi tempi si ragiona e si indaga poco.

Vito Teti, antropologo dell’Università della Calabria, prova a rompere il cortocircuito e in Maledetto Sud (Einaudi, pagg. 131, euro 10) mette in fila i più diffusi fra quegli stereotipi, ne legge la storia e ne ribalta la scontata interpretazione. Prendiamo il sudiciume. L’immagine dei meridionali sporchi, che, giocando sull’ambivalenza del termine, vengono altrimenti detti “sudici”, risale all’immediato periodo postunitario. Una caratteristica che studiosi attenti come Napoleone Colajanni alla fine dell’Ottocento attribuivano alle condizioni di vita misere e alla malaria, in molta pubblicistica di matrice positivista diventa un’etichetta razziale, il sintomo di una inferiorità di tipo morale. Ma con l’emigrazione, annota Teti, cresce il rilievo attribuito alle condizioni igieniche. All’inizio del Novecento, chi torna dal Belgio, dalla Svizzera e dalla Germania costruisce quelli che chiamano “rioni degli americani”: casette intonacate di bianco, con i bagni e le fogne, costruzioni che si affiancano ai tuguri nei quali si vive a contatto con le mucche e i maiali. Sono «mutamenti di costume e di mentalità, prima che di ordine pratico, che comunque sfatano il luogo comune della sporcizia e del sudiciume delle popolazioni», annota Teti. Nel secondo dopoguerra verranno gli acquedotti costruiti dalla Cassa per il Mezzogiorno. Ma che nel Sud Italia abitino esseri umani luridi per destino naturale lo ribadisce il deputato leghista Matteo Salvini in un video che ha furoreggiato in rete: «Senti che puzza, scappano anche i cani. Sono arrivati i napoletani. Son colerosi e terremotati. Con il sapone non si sono mai lavati».

Il lavoro di Teti non si esaurisce nello smontaggio di un odioso stereotipo a carico dei meridionali, operazione condotta con il racconto, con la memoria, con esperienze di studioso e di camminatore e poi attingendo a una corposa letteratura (Corrado Alvaro ha un posto di rilievo). La decostruzione prosegue interrogandosi su come i meridionali fronteggino questi modelli che si vorrebbe applicare loro quasi fossero un marchio a fuoco. E la risposta è analitica e per niente assolutoria. Le montagne di rifiuti che hanno insozzato le strade di Napoli e del napoletano, per esempio, «hanno finito con il conferire verità a uno dei più noti stereotipi antimeridionali ». Una maledizione che si nutre di «una sporcizia da elevare a emblema di una psicologia primitiva». Come se al Sud si fosse deciso che lo stereotipo negativo andasse interiorizzato e ad esso ci si dovesse uniformare. Ci volete così? Eccoci qui, eccovi serviti.

La vicenda dei rifiuti è un dramma. La maledizione è dilunga durata. E ne sono responsabili gruppi dirigenti nazionali e locali. Le immondizie accatastate e bruciate a Napoli alimentano il furore leghista e però nascondono il traffico di rifiuti tossici che per anni dalle industrie del Nord sono stati sversati nel casertano ad opera della camorra. «L’incontro tra il peggiore Sud e il peggiore Nord», chiosa Teti. Il Sud e il Nord condannati a riconoscersi nel loro conflitto.

Accanto al sudiciume ecco l’ozio: ai meridionali non piace lavorare, si sente dire. Teti ritorna con la memoria al suo paese in Calabria, dove tutti i suoi compagni di classe appena potevano emigravano a Toronto (a Toronto c’era anche suo padre) e dove «le persone, condannate alla fatica e alla sobrietà, solo in occasioni eccezionali, per qualche ora, potevano abbandonarsi ai bagordi». Inoltre la critica dell’ozio figura fra i capisaldi polemici dell’illuminismo napoletano (Ferdinando Galiani, Giuseppe Maria Galanti...). E semmai oziosi lo diventavano quei meridionali affranti dalla disoccupazione. A un certo punto, però, per un complesso intreccio di politica e clientele, si è andata affermando «l’idea che convenisse oziare o fuggire e che il fare, in quelle situazioni, diventasse più improduttivo nel non fare». Tanto ci avrebbe pensato l’assistenzialismo. Anche in questo caso, fra falsi invalidi, eserciti di forestali e di dipendenti regionali, «lo stereotipo del meridionale ozioso diventa quasi una maledizione che si avvera».

Lo stereotipo genera in molti di coloro che lo subiscono «una psicologia da assediati». Si accentuano i localismi, i risentimenti, con tutti e due i piedi si finisce nelle trappole identitarie. Anche la malinconia diventa vizio rancoroso. Matura «un razzismo di rimessa». Tanta saggistica e tanto cattivo giornalismo, denuncia Teti, invece di rovesciare i luoghi comuni, creano pretesti per la formazione di autostereotipi. E così «il Sud e il Nord vengono privati della loro normalità e anche della loro vocazione all’apertura e alla complessità».

Una complessità che Teti rivendica anche quando decodifica gli stereotipi edulcorati, pittoreschi, folklorici. Il Mezzogiorno come luogo dell’esotismo opposto alla praticità del Settentrione. Il Mezzogiorno genuino, incontaminato, isola scampata alla modernità, spazio del mangiar sano. Il Mezzogiorno come deposito storico di quelle virtù dalla lentezza alla dieta mediterranea - che non si vuole celebrare solo come alternative a certa attualissima ingordigia consumista, ma che si immagina eredità di un passato del tutto fantasioso. In ogni caso, spiega Teti, quando si costruisce un’immagine del Mezzogiorno senza sfumature, senza contrasti, senza differenze al suo interno - una cosa sono i caotici agglomerati urbani della costa, un’altra i lindi paesi dell’interno appeninico -, un Mezzogiorno da scoprire come un atollo del Pacifico, si dà vita a un’architettura leggendaria, «quasi sempre incapace di fornire un’elaborazione che non sia di reazione allo sguardo esterno». Il tutto come se non ci fossero state, tanto per indicarne una, le indagini di un Ernesto De Martino.

La conclusione di Teti è altrettanto argomentata quanto la diagnosi. La denigrazione incrementata dal razzismo si può arginare raccontando a se stessi «le verità scomode, anziché negarle o farcele rinfacciare con cattiveria dagli altri». E assumendo un lucido abito intellettuale, come insegnano Dante e Machiavelli, Guicciardini e Leopardi. A quel punto si possono anche ribaltare gli stereotipi in positivo. Compresa la malinconia e persino l’ozio.



La Repubblica, 14 ottobre 2013


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