31 ottobre 2013

M.FOUCAULT SULLA SCRITTURA




Tra l’estate e l’autunno del 1968 Michel Foucault e il critico letterario Claude Bonnefoy registrarono una serie d’incontri con l’idea di pubblicare, presso le edizioni Belfond, un volume di conversazioni in cui Foucault avrebbe parlato del proprio rapporto con la scrittura. Il progetto fu poi abbandonato. La trascrizione di questi colloqui è stata resa pubblica nel 2004 e Cronopio ne ha da poco pubblicato la versione italiana: Il bel rischio. Conversazione con Claude Bonnefoy, a cura di Antonella Moscati. Presentiamo alcuni brani del libro. I titoli dei paragrafi sono redazionali.



MICHEL FOUCAULT - La scrittura è la morte degli altri

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La scrittura e gli altri
Ciò che è chiaro, ciò che ho subito sentito, quando verso i miei trent’anni ho cominciato a provare il piacere di scrivere, è che questo piacere comunica sempre con la morte degli altri, con la morte in generale. Di questo rapporto fra la scrittura e la morte oso a stento parlare, perché so bene che uno come Blanchot ha detto a questo proposito cose molto più essenziali, generali, profonde, decisive di quanto possa dire io adesso. Parlo qui sul piano di quelle impressioni che sono come il “rovescio del ricamo”[1], e che cerco di seguire in questo momento, e mi sembra che l’altro lato del ricamo sia altrettanto logico e in fondo altrettanto ben disegnato, o comunque non peggio disegnato, del lato che mostro agli altri.
Con lei vorrei fermarmi un momento su questo “rovescio del ricamo”. E direi che per me la scrittura è legata alla morte, forse essenzialmente alla morte degli altri, ma questo non significa che scrivere sia come assassinare gli altri e compiere contro di loro, contro la loro esistenza, un gesto definitivamente assassino che li caccia dalla presenza aprendo davanti a me uno spazio sovrano e libero. Tutt’altro. Per me scrivere è sì avere a che fare con la morte degli altri, ma è essenzialmente avere a che fare con gli altri in quanto sono già morti. In un certo senso parlo sul cadavere degli altri. Lo confesso, postulo in qualche modo la loro morte. Parlando di loro, sono nella posizione dell’anatomista che fa un’autopsia. Con la mia scrittura percorro il corpo degli altri, lo incido, tolgo i tegumenti e la pelle, cerco di scoprire gli organi e, rendendo visibili gli organi, cerco di far apparire finalmente quel focolaio della lesione, del male, quel qualcosa che ha caratterizzato la loro vita, il loro pensiero e che, nella sua negatività, ha organizzato in fin dei conti tutto quello che sono stati. Quel cuore velenoso delle cose e degli esseri umani, ecco quello che ho sempre cercato di mettere in luce. Capisco, allora, perché la mia scrittura venga percepita dagli altri come un’aggressione. Si sente che in essa c’è qualcosa che li condanna a morte. In effetti io sono molto più ingenuo di così. Non li condanno a morte. Ipotizzo semplicemente che siano già morti. È per questo motivo che sono sorpreso quando li sento gridare. Rimango stupito come un anatomista che sentisse improvvisamente svegliarsi sotto il suo bisturi l’individuo sul quale voleva fare una dimostrazione. Improvvisamente gli occhi si aprono, la bocca si mette a urlare, il corpo si contorce e l’anatomista si stupisce: “Ah, quindi non era morto!”. È, credo, quel che mi accade con coloro che mi criticano e inveiscono contro di me dopo avermi letto. Mi è sempre difficile rispondere altrimenti che scusandomi, cosa che può forse essere presa come un’affermazione ironica, ma che invece è veramente l’espressione del mio stupore: “Ah, quindi non erano morti!”. [...]
 Non ho la pretesa di uccidere gli altri con la mia scrittura. Scrivo solo sul presupposto della morte già avvenuta degli altri. È perché sono già morti che posso scrivere come se la loro vita, finché c’erano, sorridevano, parlavano, mi avesse in qualche modo impedito di scrivere. E l’unico omaggio che la mia scrittura può rendere loro è scoprire contemporaneamente la verità della loro vita e della loro morte, il segreto morboso che spiega il passaggio dalla loro vita alla loro morte. Questo punto di vista sugli altri, in cui la loro vita è precipitata nella morte, è per me il luogo della possibilità della scrittura. [...].
 La scrittura e il presente
 Partendo da qui è possibile spiegare un certo numero di cose. Innanzitutto il fatto che per me è sempre difficile parlare del presente. Mi sembra che potrei parlare delle cose che ci sono tuttavia molto vicine, ma a condizione che tra quelle cose molto vicine e il momento in cui scrivo ci sia quell’infimo intervallo, quella sottile pellicola attraverso la quale si è instaurata la morte. Comunque il tema che s’incontra così di frequente in tutte le giustificazioni della scrittura, scrivere per far rivivere, scrivere per ritrovare il segreto della vita, scrivere per attualizzare quella parola viva che è insieme la parola degli uomini e – probabilmente – quella di Dio, mi è profondamente estraneo. Per me la parola comincia dopo la morte, e una volta che c’è stata quella rottura. La scrittura è per me la deriva del dopo-morte e non il percorso verso la sorgente di vita. Forse è in questo che la mia forma di linguaggio è profondamente anticristiana, e lo è probabilmente più dei temi che continuo a sollevare.
 In un certo senso, probabilmente m’interesso al passato per questo motivo. Non m’interesso al passato per cercare di farlo rivivere, ma perché è morto. In questo non c’è nessuna teleologia di resurrezione, ma piuttosto la constatazione che quel passato è morto. È a partire da quella morte che del passato si possono dire cose assolutamente serene, completamente analitiche e anatomiche, mai dirette a una possibile ripetizione o resurrezione. Anche per questa ragione, niente è più lontano da me del desiderio di ritrovare nel passato il segreto dell’origine [...].
La scrittura contro la parola
 Scrivere è molto diverso dal parlare. Si scrive anche per non avere più volto, per nascondersi dietro la propria scrittura. Si scrive perché la vita che abbiamo intorno, accanto, fuori, lontano dal foglio di carta, questa vita che non è divertente ma noiosa e piena di preoccupazioni, che è esposta agli altri, si riduca in quel piccolo rettangolo di carta che abbiamo sotto gli occhi e di cui siamo padroni. Scrivere, in fondo, è tentare di far defluire, attraverso i canali misteriosi della penna e della scrittura, tutta la sostanza, non soltanto dell’esistenza ma anche del corpo, in quelle tracce minuscole che si depongono sulla carta. Non essere altro, in fatto di vita, che quegli scarabocchi, morti e ciarlieri a un tempo, che si depongono sulla carta: è questo che si sogna quando si scrive. Ma a questa riduzione della vita brulicante nel brulichio immobile delle lettere non si arriva mai. Sempre la vita riprende al di fuori del foglio di carta, sempre prolifera, continua, mai riesce a fissarsi in quel piccolo rettangolo, mai il volume pesante del corpo riesce a dispiegarsi sulla superficie della carta, mai si passa a quell’universo a due dimensioni, a quella linea pura del discorso, mai si riesce a diventare abbastanza fini, sottili per non essere altro che la linearità di un testo, e tuttavia è proprio a questo che vorremmo arrivare. Allora non si smette di tentare, di correggersi, sottrarsi, insinuarsi nell’imbuto della penna e della scrittura, compito infinito, compito cui ci si consacra. Ci sentiremmo perfettamente giustificati se non esistessimo più che in quel minuscolo fremito, in quell’infimo raschiare che si fissa e che, tra la punta del pennino e la superficie bianca del foglio, è il punto, il luogo fragile, il momento immediatamente scomparso in cui s’inscrive un segno finalmente fissato, definitivamente stabilito, leggibile soltanto per gli altri e che ha perso ogni possibilità di avere coscienza di se stesso. Questa specie di eliminazione, di mortificazione di sé nel passaggio ai segni, è anche questo, credo, che conferisce alla scrittura il suo carattere di obbligo. Obbligo privo di piacere, come vede, ma, in fin dei conti, se sfuggire a un obbligo consegna all’angoscia, se infrangere la legge lascia nella più grande inquietudine, nel più grande sgomento, obbedire a quella legge non è forse la maggiore forma di piacere? Obbedire a quell’obbligo che non si sa né da dove venga né come ci sia stato imposto, obbedire a quella legge, certamente narcisistica, che pesa e incombe da ogni parte, è questo, credo, il piacere di scrivere.

[1] Traduciamo così l’espressione idiomatica francese l’envers de la tapisserie (letteralmente il rovescio dell’arazzo), che indica ciò che si nasconde dietro le apparenze, il lato invisibile di qualcosa [N.d.T.].

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