11 ottobre 2013

LE DUE GERMANIE...




Dal sito leparolelecose questa mattina prendo un interessante articolo che analizza il modo in cui è avvenuta l'ultima unificazione tedesca:
L’unificazione della Germania ci viene raccontata come uno dei più grandi successi della nuova Europa sorta dal crollo del Muro di Berlino. Ma ancora oggi, a quasi 25 anni dal crollo del Muro, la distanza economica e sociale tra le due parti della Germania non accenna a diminuire, nonostante massicci trasferimenti di denaro pubblico dalle casse del governo federale tedesco e da quelle dell'Unione Europea. In Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa (Imprimatur editore, 2013), Vladimiro Giacché mostra come l’unione delle due Germanie abbia significato la quasi completa deindustrializzazione dell'ex Germania Est, la perdita di milioni di posti di lavoro e un'emigrazione di massa verso Ovest che perdura tuttora, ma anche la distruzione della cultura e dell’intera élite intellettuale di quel Paese. La storia di questa "unione che divide" è una storia che parla direttamente all’Europa dei nostri giorni: l’Europa della moneta unica, ma anche – e non per caso - un’Europa in cui le economie sono sempre di più divergenti tra loro, e in cui la solidarietà e la fiducia in un futuro comune sono sempre più minacciate.

Vladimiro Giacché - Annessione

La liquidazione del ceto intellettuale
Per avere un’idea concreta di cosa si intende quando si parla di “liquidazione della élite della Repubblica Democratica Tedesca” dagli incarichi direttivi dell’amministrazione pubblica della Germania unita, basteranno poche cifre rese pubbliche nel 2004 dalla trasmissione “Umschau” della televisione pubblica tedesca MDR. A quella data il 100% dei giudici federali veniva dall’ovest; lo stesso valeva per il 96,8% dei presidenti di cortedei Länder dell’Est, come pure per l’89,4% dei giudici ordinari in servizio presso quei Länder. Nell’esercito proveniva dall’Ovest il 100% dei generali, il 100% dei colonnelli e il 90,3% degli ufficiali di grado più elevato.
In generale, tra i dipendenti dello Stato e i militari si ebbero non meno di 800.000 licenziamenti. I licenziamenti e prepensionamenti di massa crearono ampi sbocchi professionali e opportunità di carriera per funzionari e dirigenti dell’Ovest, non di rado nominati – per ironia della sorte – in base alla loro fedeltà politica ai tre partiti maggiori dell’Ovest.
L’eliminazione di gran parte del ceto intellettuale della RDT, in particolare degli insegnanti nelle accademie, è stata giudicata “storicamente senza precedenti”. Si ebbe di fatto una “occidentalizzazione”, ottenuta importando dai vecchi Länder legioni di insegnanti, senza particolari accertamenti di merito e competenza. Dal 1991 alla metà del 1992, 1000 professori e docenti dell’Ovest occuparono le università e le accademie dell’Est. Secondo alcune stime il 90% dei professori e ricercatori universitari è stato rimosso dal suo posto di lavoro. Altri calcoli vedono l’eliminazione del 60% dei posti di lavoro negli istituti di educazione superiore e accademica, e la stessa percentuale negli istituti di ricerca accademica extrauniversitaria. L’elenco dei professori rimossi comprende nomi di veri e propri luminari nel proprio campo, come il nefrologo di fama mondiale Horst Klinkmann, che fu “liquidato” dall’università di Rostock e da allora ha insegnato nelle università di tutto il mondo collezionando onoreficenze (da ultimo la laurea honoris causa conferitagli nel 2011 dall’università di Bologna). Sta di fatto che nel 1997 in tutta la Germania nelle istituzioni scientifiche soltanto il 7,3% delle posizioni era ricoperto da personale dell’Est. Nel 2000, su 107 istituzioni scientifiche nei nuovi Länder soltanto 7 erano dirette da ex cittadini della Repubblica Democratica Tedesca.
Ma avvenne qualcosa di peggio della rimozione degli insegnanti e professori universitari dai loro posti: fu negata la validità di gran parte dei titoli di studio conseguiti nella RDT. Il banchiere Edgar Most racconta, tra l’amareggiato e il divertito, come apprese che il suo titolo di dottore in economia non valeva più (visto che la scuola di specializzazione di Gotha e l’accademia di economia di Berlino che aveva frequentato erano state inserite tra le “università rosse”) e come dovette inoltrare una richiesta formale di conferma del suo titolo di studio al presidente del Land della Turingia, Bernhard Vogel, e al sindaco di Berlino, Eberhard Diepgen; con successo, in quanto era ben noto ad entrambi. Ma la facile soluzione personale del problema non gli impedisce di osservare come questo “non riconoscimento della formazione ed esperienza lavorativa e dei titoli di studio accademici abbia contributo in misura decisiva alla svalorizzazione delle biografie dei tedeschi dell’Est”. (…)
Una moderna colonizzazione?
Di fatto, l’ingresso della RDT nella RFT fu un’annessione senza residui. Praticamente nessuna legge dell’Est fu recepita nell’ordinamento dell’Ovest. Più in generale, l’ordinamento della RDT fu considerato qualcosa da annientare senza eccezioni. E coloro che avevano contribuito ad esso, fossero essi alti funzionari o cittadini leali all’ordinamento dello Stato in cui vivevano, nemici da punire o comunque da emarginare. L’atteggiamento nei confronti della generalità della popolazione, coerentemente all’assunto (falso) secondo cui si sarebbe trattato di 17 milioni di vittime di un regime dittatoriale sostenuto da una cricca ristretta di criminali, fu inizialmente di solidarietà paternalistica. Ma non appena si manifestarono i problemi economici causati dalle modalità dell’unificazione, e un numero crescente di persone cominciò ad opporsi a decisioni assunte (di nuovo) sopra le loro teste e che adesso minavano le loro stesse basi materiali di esistenza, l’atteggiamento cominciò a cambiare. Per un verso la quasi totalità dei problemi fu addebitata alla situazione economica ereditata dalla RDT, d’altra parte cominciò a farsi largo nell’opinione pubblica tedesco-occidentale l’idea – raramente espressa esplicitamente in questi termini, ma serpeggiante non troppo nascostamente in articoli giornalistici e in interventi politici – che il problema consistesse negli stessi tedeschi dell’Est, “danneggiati mentalmente” dal “regime collettivistico” e quindi divenuti loro malgrado un “fattore frenante dal punto di vista sistemico”, che impediva e impedisce ai pregi dell’economia di mercato di manifestarsi nella loro benefica potenza. Si tratta di un punto di vista assolutamente ingiustificato, non privo di un retrogusto razzistico, e che finisce per attribuire alle vittime di processi economici innescati da altri la colpa dei loro stessi guai. È un modello ben noto in Occidente: si tratta infatti del comportamento riservato ai popoli colonizzati.
Conflitto interetnico tra culture. Papuasia? No, Berlino
“Degli stranieri avanzano nel territorio di una cultura indigena, si impossessano delle posizioni chiave di capitribù e stregoni, distruggono le tradizioni locali, annunciano nuovi articoli di fede, fondano nuovi riti. Il paradigma classico di un conflitto interetnico di culture, solo che suo teatro non è la Papuasia o la Nuova Guinea, ma è vicino in modo assolutamente antiesotico: Berlino, Unter den Linden”.
In questo modo l’etnologo Wolfgang Kaschuba della Humboldt-Universität di Berlino ha descritto nel 1993 quanto stava accadendo nella sua università: in cui in effetti oltre il 70% dei professori è stato sostituito con personale proveniente dall’Ovest. La metafora che ha avuto più fortuna nella descrizione di quanto accaduto nelle istituzioni e nella vita civile dell’ex Germania Est dopo l’unificazione, però, non è quella del confllitto tribale interetnico, ma un’altra, ancora più forte: quella della conquista da parte di un potere coloniale, della colonizzazione.
Nel diario scritto in carcere da Erich Honecker il concetto ricorre più volte: vi si parla di “colonizzatori” e – a proposito delle aggressioni naziste contro gli immigrati – si dice tra l’altro che “i colonizzatori che oggi dominano addebitano tutto questo al passato, addossano la colpa alla RDT”. E ancora, a proposito dei conti brillanti delle banche e delle grandi imprese tedesche, l’ex segretario generale della SED li spiega col fatto che “la ex-RDT è stata depredata come una colonia”. È comprensibile che Honecker vedesse le cose in questo modo. Ma nello stesso anno è anche il verde Eckhard Stratmann-Mertens, in un rapporto per il suo partito, a definire la Germania Est come una “colonia nel proprio Paese”. E anche questo si può capire: in fondo, proprio nei verdi era confluita la parte del movimento per i diritti civili della ex-RDT che aveva avversato l’incorporazione della RDT nella RFT attraverso l’articolo 23 della Legge Fondamentale.
Quando però anche il presidente della Treuhandanstalt – l’istituzione che privatizzò l’intera economia della RDT – Detlev Rohwedder afferma che “alcune imprese tedesco-occidentali si comportano come ufficiali di un esercito coloniale”, si ha qualche motivo in più per riflettere sul possibile contenuto di realtà di questa metafora. Tanto più che, per una strana ironia, il drammaturgo Rolf Hochhuth nel prologo del suo Wessis in Weimar fa rinfacciare proprio a Rohwedder questo giudizio sulla Treuhandanstalt: “Qualcosa di assolutamente nuovo nella storia universale,/ una variante del colonialismo,/ che è stato applicato come mai prima altrove / contro uomini del proprio popolo”.
E allora vale la pena di prendere sul serio il “chiarimento teorico preliminare” che Wolfgang Dümcke e Fritz Vilmar premettono al volume, da loro curato, dedicato appunto alla Colonizzazione della RDT. Il chiarimento verte precisamente sul significato di “colonizzazione” e sulla sua pertinenza in questo caso. Al riguardo gli autori argomentano: “se non si identifica la colonizzazione con l’irrompere di truppe coloniali e con massacri di indigeni, ma si tiene fermo agli aspetti essenziali, quali la distruzione di una struttura economica ‘indigena’, lo sfruttamento delle risorse economiche presenti, la liquidazione sociale non soltanto della élitepolitica, ma anche del ceto intellettuale di un paese, come pure la distruzione dell’identità acquisita (per quanto sempre problematica) di un popolo: in tal senso nell’ex-RDT si è effettivamente compiuto un processo di colonizzazione nel vero senso del termine”.
Gli aspetti del processo di unificazione economica, politica e sociale sin qui esaminati avvalorano l’argomentazione di Dümcke e Vilmar. E sembrano collimare con l’esperienza vissuta di una parte rilevante della popolazione dell’ex Germania Est. In effetti, secondo un sondaggio Emnid reso pubblico nel novembre 1992, con l’affermazione secondo cui “i tedeschi dell’Ovest hanno conquistato l’ex-RDT in stile coloniale” si diceva “pienamente e del tutto d’accordo” il 32% dei tedeschi dell’Est intervistati, “abbastanza d’accordo” il 28% e “un po’ d’accordo” un altro 21%. E ancora 13 anni dopo, secondo un sondaggio Forsa, il 47% degli abitanti del Brandeburgo e della parte orientale di Berlino conservava la convinzione di essere stato conquistato “in stile coloniale”.

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