14 ottobre 2013

INTERVISTA ALLA FIGLIA DI ITALO CALVINO



Dal 25 ottobre al 31 gennaio 2014 presso la Biblioteca nazionale di Roma saranno esposti nell'ambito della mostra “Il lavoro editoriale di Italo Calvino” fotografie e documenti relativi alla vita e all'attività dello scrittore. In preparazione di quell'evento, che si annuncia di grande interesse, La Repubblica ha dedicato a Italo Calvino due pagine che riprendiamo.

Intervista di Antonio Monda alla figlia di Italo Calvino


Giovanna Calvino vive da più di vent’anni negli Stati Uniti, dopo aver trascorso la propria infanzia e adolescenza a Parigi. È una donna raffinata e spiritosa, e ha arredato con un’eleganza sobria l’appartamento su Central Park. Vi campeggia una stampa dell’Avana, città in cui il padre Italo è nato e dove ha sposato la madre, Esther Singer, da tutti detta Chichita. Nella grande libreria sono mescolati, senza ordine apparente, libri di ogni genere: le traduzioni dei romanzi del padre, molta letteratura inglese e i testi che sta leggendo in questi giorni: Karl Ove Knausgaard.
Dopo aver conseguito un Ph.D in letteratura comparata, ha insegnato a New York e oggi racconta che quegli anni di studio le hanno consentito di imparare meglio la lingua paterna. A cominciare dalle regole del congiuntivo che, scherza, ha di nuovo dimenticato.
Parla raramente del padre, al quale assomiglia in maniera impressionante, ma ha deciso di farlo per celebrarne il novantesimo anniversario della nascita e dopo avermi mostrato uno scatto nel quale lo scrittore la guarda con tenerezza. «È una foto scattata quando ci siamo trasferiti a Roma», racconta mentre si siede sul pavimento, «siamo in mezzo ai calcinacci, io in piena malinconia adolescenziale e lui con le basette lunghe, tipiche di quell’epoca».

Qual è la prima immagine di suo padre che le viene in mente?
«Un suo autoritratto, in una lettera che mi mandò quando avevo otto anni, in cui lui è alle prese coi ferri cercando di fare la calzamaglia».

E l’ultima?
«Chinato sul suo lavoro con la testa tra le mani. Stava lavorando alle Lezioni americane ed era pochi mesi prima dell’emorragia cerebrale che lo avrebbe ucciso».

Ha letto tutti i suoi libri?
«Quasi. E devo dire, con un certo sollievo, che mi piacciono molto. Ma per esempio Il Visconte dimezzato non l’ho letto tutto, anche se in pubblico faccio finta di conoscerlo. Quando insegnavo a Philadelphia mi era stato chiesto di fare una lezione proprio sul Visconte: ho avuto un blocco e ho chiesto a un collega di sostituirmi per quel giorno, poi non ho più ripreso in mano il libro».

Parlavate spesso di letteratura?
«Ricordo un’estate in Maremma insieme a mia madre: si erano appassionati alla scrittrice inglese Barbara Pym, che avevano scoperto tramite Carlo Fruttero. In seguito anch’io me ne innamorai».

Suo padre si è mai confrontato con lei mentre scriveva?
«Quando avevo quindici anni mi chiese se preferissi la leggerezza della piuma o quella dell’uccello. Era una riflessione di Paul Valéry che riprese nelle Lezioni americane. La risposta giusta è facile da intuire, ma ricordo che io non riuscii a spiegarne il perché».

C’è una sua frase che le è rimasta particolarmente impressa?
«Alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane».



Ultimamente si è cimentata anche lei nella scrittura.
«Ho scritto un libro per bambini intitolato La Strega dentro di me a quattro mani con l’illustratrice Marina Sagona. È una storia personale, anche se in chiave metaforica. Sentivo il peso del mio cognome, ma ho trovato un escamotage scrivendola prima in inglese, lingua nella quale mi sento più libera».

Come mai i romanzi di suo padre non sono diventati film?
«Moltissimi anni fa Dino De Laurentiis comprò i diritti del Barone rampante per farne un film con Jean-Paul Belmondo: non se ne fece nulla, ma con quei soldi i miei costruirono la casa in Maremma. In seguito si interessò al romanzo Louis Malle, però mio padre non diede seguito. Considerò anche una collaborazione con Fellini. Ma in fondo un romanzo riuscito è una cosa compiuta in sé: se l’adattamento non è geniale si può fare a meno del film».

Sua madre Chichita ha una personalità straordinaria: che importanza ha avuto nell’evoluzione artistica e nella carriera di suo padre?
«Avevano un rapporto intellettuale molto forte e lui diceva che mia madre era i suoi occhi: lei guardava il mondo e glielo raccontava. Va detto che senza occhiali mio padre non ci vedeva molto… Mi dispiace che mia madre non abbia scritto le sue memorie: ha un tesoro di ricordi di vicende e incontri con personaggi diversissimi, da Che Guevara a Roland Barthes».

Che ricordo ha degli amici scrittori di suo padre?
«Per esempio ricordo Mary Mc-Carthy, una donna splendida che per me rappresentava l’America. O anche Octavio Paz con sua moglie Marie-José. E Sonia Orwell, la vedova di George, che i miei amavano molto. E la traduttrice Aurora Bernardez, amica del cuore di mia madre, e prima moglie di Julio Cortazar. Lui alla mia nascita mi regalò una pecorella di peluche che ancora possiedo».

Ci sono alcune foto in cui lei gioca con lui sotto gli occhi di sua madre.
«Ci troviamo nello studio di mio padre a Parigi, all’ultimo piano della nostra casa nel quartiere allora operaio di Porte d’Orléans. Una casa stretta e lunga, di quattro piani, come certe case inglesi».

In un’altra immagine è ritratto suo nonno a caccia.
«Sì, in Somalia o Eritrea, e mi fa impressione per la quantità di animali che ha ucciso. Mio nonno Mario era un agronomo ed è stato colui che ha importato in Italia l’avocado e il pompelmo. In un'altra foto è ritratto con mia nonna Eva, la prima donna in Italia ad avere una cattedra di botanica».

Lei ora è diventata madre.
«Mia figlia ha già quattro anni, suo padre è americano con origini nel Belize e Suriname. Fa il biologo. La maternità mi ha piuttosto rincitrullita, ma è la più bella cosa del mondo».

Come mai ha scelto di vivere a New York?
«Avevo l’idea che l’America mi avrebbe salvato la vita, ed è stato proprio così».
Qual'è la prima definizione che le viene in mente, pensando a suo padre?
Penso che lui abbia lavorato al fine di non poter essere ridotto a una sola definizione e che ci sia riuscito.

(Da: La Repubblica del 13 ottobre 2013)

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