21 ottobre 2013

ALFONSO GATTO: UN POETA DIMENTICATO



Dal sito http://rebstein.wordpress.com/2013/10/21/note-di-lettura-viii-alfonso-gatto/   questa mattina mi piace prendere questa bella lettura di una poesia di Alfonso Gatto:


Antonio Scavone - Il divenire di un’alba

     Ci sono spettacoli della natura silenziosi e minimi, privi di effetti strabilianti, pacati e leggeri da passare per ovvi e irrilevanti. Ci sono poi osservatori attenti e frugali che assimilano quegli spettacoli come facendo finta di impossessarsene voracemente, lasciando agli occhi il compito di ispezionarli nella loro completezza e al respiro e al pensiero di stabilire una comunicazione, un bisogno di compiutezza.
     Alfonso Gatto (1909-76) scrisse questa poesia nella raccolta La memoria felice (1937-39):


Un’alba
Com’è spoglia la luna, è quasi l’alba.
Si staccano i convogli, nella piazza
bruna di terra il verde dei giardini
trema d’autunno nei cancelli.
È l’ora fioca in cui s’incide al freddo
la tua città deserta, appena un trotto
remoto di cavallo, l’attacchino
sposta dolce la scala lungo i muri
in un fruscìo di carta.
                             La tua stanza
leggera come il sonno sarà nuova
e in un parato da campagna al sole
roseo d’autunno s’aprirà.
                                 La fredda
banchina dei mercati odora d’erba.
La porta verde della chiesa è il mare.(1)
     Proviamo a immaginare il momento e il luogo dove si compie quest’evento: il momento non è quello di un verso – “è quasi l’alba” – ma, d’altra parte, neanche il titolo è assoluto, è relativo ad un insieme di altre occasioni, di altri pensieri, di tante altre albe. È indeterminata quest’alba che ci racconta e ci rappresenta Alfonso Gatto: è una fase del giorno che abitualmente ci perdiamo ancora dormendo a quell’ora, ma se lavoriamo di notte o abbiamo passato la notte insonni, riscopriamo quanto sia quieto e nuovo il far del giorno. Ogni alba annuncia un giorno diverso, ogni alba illumina o nasconde qualcosa in più e ogni alba si condensa e si confonde (stimola ed accentua) con il luogo dal quale assistiamo al suo farsi.
     L’alba ha fugato la notte, ha rischiarato l’altra natura (quella della terra e del mare e non solo quella del cielo), ha illuminato con la sua luce livida i colori che la notte aveva assoggettato in un’unica tonalità di nero, di grigio, di scuro. Non sono ancora i colori chiassosi del giorno ma sono come rianimati, risvegliati da un docile torpore. La luna è spoglia perché il suo candore d’argento si è sfaldato con il chiarore dell’alba, si è svestita del suo abbagliante lume notturno e impallidisce nel suo contorno ormai diafano. Questo è il momento dell’alba ma qual è il luogo dove avviene lo spettacolo? Dov’è Alfonso Gatto a guardare tutto ciò che avviene in un tempo così breve? Potrebbe essere nella natìa Salerno, a ridosso di una collina e da lì osservare giù in basso i treni di una ferrovia, oppure trovarsi alla marina di Orbetello (dove infelicemente morì) o ancora sulle terrazze coltivate della costa ligure. O, semplicemente, in un paesaggio mediterraneo dove si mescolano l’antico e il nuovo, il vecchio e il moderno: convogli ferroviari che vengono scomposti per ordinare altri treni, giardini che cominciano a risplendere di verde nella piazza che stempera lentamente il manto oscuro che ancora la incolora, mentre l’autunno si fa sentire, già di primo mattino, nel cigolìo dei cancelli che vengono aperti per le fabbriche, le case, i depositi.
     È un’ora intensa e breve quella dell’alba: si presenta piena di presagi e aspettative ma tutto si risolve e si consuma in pochi attimi. La luce da fioca diventa netta, i rumori non sono più sordi ma vibranti e basta un trotto di cavallo di un calesse solitario o del carretto degli ortaggi, lontano nel tempo e nello spazio, a far lievitare e precipitare la memoria di altri tempi, di spazi lontani. La città si risveglia ancora sparuta nelle sue figure mattiniere: l’attacchino che sparge la colla e stende i manifesti ai muri con dolcezza, come se stesse affrescando un tempio, operai e impiegati che attendono un autobus o rifare a piedi il percorso di ogni giorno per andare a lavorare. E tu, noialtri, che magari ci attardiamo a letto dopo una notte di pensieri e propositi, ci faremo sorprendere ancora una volta da un sonno tardivo nella nostra stanza inondata da questa luce leggera, che ci sembrerà via via più fervida, filtrando un sole roseo, quello di un autunno seduttivo e immaginario, con macchie di colore come di un disegno infantile di campagna.
     Oltre la stanza, giù per la strada, nella città che ripete i suoi ritmi, le panche dei mercati profumeranno dell’erba delle primizie, fredde e fresche, tra voci sparse, gesti consueti, clienti e ortolani che argomentano sui prezzi, le stagioni, i malanni.  L’alba si è consumata, i colori hanno ripreso le loro solite vivide tonalità ma la natura del cielo e della terra, degli uomini e dei pensieri, ha ancora un ultimo segnale da mandare, vuole ancora insistere sul suo spettacolo di approccio alla vita, prima di lasciare il passo alla consuetudine della vita. Le porte si aprono per far entrare la giornata con i suoi scenari abituali, con le sue rinnovate epifanie e la porta verde della chiesa altro non è che il mare, che invade placido e lussureggiante la vista e il ricordo, il senso più intimo e sconfinato di ciò che abbiamo visto cominciare di primo mattino.
     Ma era proprio questa l’alba che voleva rappresentarci Alfonso Gatto? Era proprio quel fenomeno naturale che la maggior parte di noi non vede e non segue mentre è di ordinaria compagnia per pescatori e marinai o per chi smonta da un turno di notte?
     L’ermetismo – questo raffinato approccio poetico per il quale il non-detto è inciso con vigile controllo nel detto-altrimenti e che anche Gatto perseguì – non può l’ermetismo, come richiamo e paradigma, spiegare se l’attenzione del poeta (tormento interiore o noia di vivere) è sempre e solo allusiva o è sempre e solo oggettiva. L’alba di Alfonso Gatto è percepita, nella sua naturalezza, come una componente, quasi un’aggravante della quotidiana e irrinunciabile necessità di ritrovarsi nelle cose e in se stessi, per ogni volta che le cose si ripetono uguali e per quella volta che cominciamo a intenderle diverse. Il significato di un’alba è ben diverso da quello di un tramonto e non perché siano opposti o si fondino su colori e suoni contrastanti. Il significato di un’alba si rivela nella casualità della scoperta e nella scoperta della sua trascurata profondità di senso.
     Un’alba – quest’alba di Alfonso Gatto – diventa lo scotto, il pegno che paghiamo alla nostra indolenza e si pone anche come specchio insidioso della nostra incostante voglia di capire, di assommare, di assumere desideri e rinunce.
     Il ritmo dei versi è fluido tra increspature e pause, tra contrasti di immagini e parole: solo un poeta come Alfonso Gatto può allineare in sequenze morbide e piane visioni e concetti tanto distanti tra loro. Le immagini hanno e promuovono insieme il senso dell’oggettività e il significato dell’astrazione, il passo della quotidianità e il tocco dell’alterazione. La retorica dell’arte poetica si fonde con la naturale tensione del dire altrove, nel cercare altrove i termini e i confini di un poetare che non concede nulla al lirismo meditato per stupire e non tralascia nulla che non possa liricamente essere trasportato altrove.
     Ma cos’è quest’altrove? È una dimensione della coscienza, un’intercapedine della memoria, la premonizione di una sofferenza, di un dolore? Si ha l’impressione di trovarsi in uno sfatto lirismo, di un’inguaribile tristezza: la verità è un’altra (l’alterità ormai ci ha condizionati): ci troviamo da quelle parti – tempo e spazio, memoria e coscienza, cuore e vita – dove tutto è da ricostruire e sentire, dove la conoscenza ha bisogno di ricominciare e il sentimento di riproporsi come liberazione.
     Come molti altri poeti del Novecento, anche Alfonso Gatto è un poeta dimenticato: lo ricordiamo per le numerose raccolte di versi (da Il capo sulla neve a La forza degli occhi, da Amore della vita a Osteria flegrea), come attore occasionale nei film di Pasolini e Francesco Rosi, come fondatore e redattore con Vasco Pratolini della rivista Campo di Marte, come correttore di bozze, come cronista dell’Unità, come “comunista dissidente” negli anni Cinquanta. Lo ricordiamo anche come poeta che più volte ha prediletto il tema delle albe, degli amici e familiari scomparsi, apprezzato fra gli altri da Montale (che scrisse il suo epitaffio), poeta persino dei bambini. Una vita travagliata quella di Alfonso Gatto, come di tutti i poeti che osservano la natura delle cose e degli uomini e sanno parlarne con distaccata passione, come se quelle cose appartenessero solo agli uomini ma gli uomini spesso lo ignorano e pensano ad altro, oppure non pensano per niente.


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(1) ALFONSO GATTO, Tutte le poesie, Mondadori Oscar, 2005-2011

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