27 ottobre 2013

NON HO TEMPO...




Dal sito http://rebstein.wordpress.com/2013/10/27/non-ho-tempo/
riprendo un bel saggio inedito di GIANMARCO PINCIROLI


«Non ho tempo»

Sul progetto e sulla completezza

Parlando o scrivendo una lettera a qualcuno, non dire
spesso e senza una ragione stringente ‘Non ho tempo’
.
Marco Aurelio

«Io non ho tempo. Non ho più tempo». Che cosa questo significhi davvero non è affatto il prodotto di un sapere immediato, spontaneo e ovvio nel suo risolvere un problema e concludere. Eppure questa considerazione la sentiamo pronunciare quotidianamente nei più differenti contesti esistenziali, talché sembrerebbe non meritare affatto tutta questa attenzione. «Non ho tempo, io non ho più tempo». Ma se il suo significato autentico non corrisponde a ciò cui mediamente intendiamo riferirci quando pronunciamo o ascoltiamo questa dichiarazione, allora essa che cosa veramente significa, volendo o non volendo significare ciò che poi coscientemente essa finisce per significare per noi e per tutti?

Progettualità per tappe: completezza possibile
Il fatto è che non è affatto chiaro che cosa significhi, prima ancora di ‘non avere’ tempo, il fatto stesso di ‘avere tempo’, e non possiamo nemmeno dare per scontato che il tempo sia qualcosa che da noi possa essere ‘posseduto’, e infine – ma direttamente in relazione con queste due chiarezze mancate – facciamoci una domanda ad esse preliminare: che cosa intendiamo qui con la parola ‘tempo’ quando affermiamo di non averne, o di non averne più?
Quando affermo che non ho tempo, in prima istanza mi riferisco ad unprogetto la cui realizzazione mi si presenta, qualora volessi configurare una qualche completezza di un suo raggiungimento,impossibile, impossibile in relazione ai mezzi (dei quali il cosiddetto ‘tempo’ potrebbe rappresentare in ultima analisi una traduzione sotto forma di alibi oggettual-strumentale) necessari a quella completezza immaginata, e quindi impossibile come completezza da raggiungersi, ma anche impossibile in rapporto a colui che di tale progetto s’è fatto carico, come a colui che deve alla fine ammettere, affermando di non avere tempo, di non essere all’altezza del compito. Non avere tempo, dunque, significa in prima istanza molte cose, o meglio, molte presunte impossibilità: impossibilità di un progetto rispetto alla sua completezza, impossibilità degli strumenti necessari alla completezza di quel progetto, impossibilità del realizzante rispetto al progetto che lui stesso ha inteso realizzare nella sua completezza.
Ma facciamo allora il caso di un progetto che, consapevole della sua composizione in parti tra loro separate che il progetto stesso ha il compito di connettere in conclusiva unità, non ambisca a raggiungere altro che quello che raggiunge di volta in volta (di parte in parte, di tappa in tappa) come la completezza che gli è stata possibile, per quanto parziale essa possa sembrare in rapporto al tutto che intende configurare, o meglio, come il raggiungimento che, fino lì, gli è stato possibile e che, in questo suo essere comunque un raggiungimento e una possibilità gradatamente realizzatasi, ha raggiunto senz’altro questa sua completezza, per quanto parziale possa sembrare.
A rigore, non solo non saremmo più davanti ad un progetto la cui realizzazione mi si presenta, ricondotta ogni volta ad un certo punto ultimativo della sua attuazione e solo a quello, come impossibile, giacché ogni tappa (precedente l’ultima, o le ultime) di questo progetto sarebbe comunque completa in sé, avendo assunto il risultato del proprio essere tappa come il risultato tout court rispetto a se stessa; e inoltre anche i mezzi necessari (e il ‘tempo’ in essi incarnato come alibi di difesa) al raggiungimento di questo progetto non verrebbero scoperti ad un certo punto come inadeguati in senso assoluto, ma soltanto in relazione a tale necessità ultimativa, poiché ogni tappa (prima dell’ultima, o delle ultime) del processo evidenzierebbe invece la perfetta adeguazione (per quanto riguarda se stessa) dei mezzi ai fini, essendo ogni tappa, riuscita rispetto alla sua funzione, sempre completa in sé; e infine il soggetto realizzante, essendo stato prima un soggetto progettante tutte le tappe necessarie tali da configurare la perfetta corresponsione al progetto in divenire, ed essendo risultato bastante a se stesso, di tappa in tappa, rispetto al progetto cui intende metter capo, non sarebbe mai più colui che non è stato in grado di realizzarlo, ma colui che, ad un certo punto e soltanto a quello, non è risultato all’altezza del compito, essendolo invece stato felicemente fino lì.
Potrebbe allora tale soggetto affermare, in merito al suo progettare, di essere scontento di sé in assoluto (giacché rispetto ad ogni risultato che ha raggiunto in ogni scansione riuscita del suo processo, al contrario, non potrebbe dirlo), potrebbe dunque affermare, come conseguenza ontologica della sua presunta imperfezione operativa: «Io non ho tempo? non ho più tempo»?
Sembrerebbe di no, poiché il tempo, in quanto strumento utile (continuiamo ad assumerne questa immagine strumentale, avvallata in fin dei conti, inconsapevolmente, dal senso comune) al raggiungimento della piena realizzazione del progetto, sarebbesempre tempo bastante, tempo sufficiente, anzi, di più, tempo perfettamente adeguato, di tappa in tappa, alle necessità relative ad ogni tappa stessa che, in vista del progetto cui s’intende metter capo, s’è venuta di volta in volta a profilare nella sua necessità. Quindi, ancora, si potrebbe affermare esattamente il contrario di quanto quell’altro progettante sempre insoddisfatto del suo operare ha potuto invece affermare, e si potrebbe dire allora: «Io ho tempo, ho sempre tempo».

Esperienza della completezza: la Grande Metafora
Ed ecco che si apre, a questo punto, il problema relativo al fatto se sia possibile dire qualcosa come l’ ‘avere’ o il ‘non avere’ tempo. Noi ‘abbiamo’ tempo? e se l’abbiamo, possiamo anche, sotto determinate condizioni, ‘non averlo’? Noi, in verità, quando affermiamo di ‘avere’ o ‘non avere’ tempo, che cosa intendiamo realmente significare? In verità, intendiamo significare che a noi è possibile fare esperienza della completezza, della completezza di un progetto che, in quanto tale, necessariamente si distende in ciò che chiamiamo ‘tempo’ secondo la tripartizione classica (passato-presente-futuro), da esso viene scandito nelle sue tappe e grazie ad esso il suo inizio deve poter conoscere anche una fine. La completezza di un progetto, allora,esclude dall’ambito del progetto qualcosa che in esso non abbia trovato luogo, il progetto completo non lascia entrare più nessuno e afferma: «Altri progetti aprano i loro luoghi, qui è tutto completo, qui non c’è più posto».
Dio, per esempio, in sé è un progetto completo, mentre l’uomo, in sé, non è evidente come Dio in quanto progetto completo, lo può però diventare se si considera rispetto a sé, alla sua vita configurata in accadimenti (tappe, parti, sezioni) e non rispetto a quell’altro da sé che è Dio.
Si tratta, quindi, di trasportare la struttura ontologica delineata poco sopra relativa all’agire, sul piano esistenziale, impostando, grazie a questo metapherein, a questo ‘trasportare oltre’, il ragionamento appena fatto come la Grande Metafora del senso e della vita umani.
Un progetto completo non ha più bisogno di tempo, poiché lo ha esaurito tutto, però ha avuto bisogno di tempo, poiché la completezza è stata un raggiungimento, ed il raggiungimento si distende necessariamente nel tempo; cosicché si può dedurre quanto segue: un progetto completo ha avuto bisogno di tempo e, raggiunta la completezza, ha cessato di abbisognare di tempo. Il tempo è ora disponibile per altre adibizioni, e la completezza del progetto completo diventa la testimonianza pubblicamente esibita di un tempo che è stato in quanto è stato-utile e che ora, dopo aver deposto la propria utilità intesa come spazio progettuale risolto, appare di nuovo aperto alla progettualità, come spazio che apre un’altra volta la progettualità e ne consente il divenire fino alla completezza di un progetto che non si è esaurito, non poteva esaurirsi nella completezza parziale di quel raggiungimento: ora non è più quell’utilità, altrimenti finirebbe per incarnarsi ed identificarsi a quel progetto parziale giunto alla sua meta, diventerebbe quel progetto, talché si potrebbe affermare che soltanto ogni progetto completato è fatto di tempo, mentre non è così: giacché il tempo non è il progetto, ma è il divenire di ogni progetto.
Ma il tempo scorre; in un progetto completo, invece, il tempo non scorre affatto, al contrario, costituisce la permanenza come completezza di quel progetto, costituisce il raggiungimento della permanenza, del suo riposo in sé come progetto, da parte del progetto stesso. Un progetto completo, allora, è fatto di un tempo che non è più riconoscibile come tempo, se il tempo necessariamente scorre. E’ allora forse giusto dire che un progetto completo, non tanto ‘non ha più tempo’ (non avendone bisogno in quanto realizzata completezza), quanto che non ha il tempo, lo stesso tempo che invece pertiene ad un progetto incompleto o non ancora completo, e che quello stesso progetto (ora completo) possedeva prima di diventare un progetto completo.
Cosicché l’uomo, se pensiamo che in sé possa essere un progetto completo, e se pensiamo che questa sua completezza se la debba raggiungere col proprio lavoro di uomo, finché non afferma di sé: «Sono un progetto completo», avrà tempo a disposizione per completarsi in quanto uomo; quando invece ciò che fino lì non ha potuto affermare lo potrà affermare, allora non avrà più tempo a disposizione, il suo progetto di uomo, il suo diventare uomo saranno completi ed egli sarà fatto di un tempo che non sarà più riconoscibile come tempo, ossia come quel tempo che necessariamente scorre e che, nel suo scorrere, costruisce attimo dopo attimo la completezza dell’uomo che lo vive. Egli non sarà più un progetto incompleto, bensì sarà un progetto che ha realizzato la sua completezza e che non avrà lasciato fuori di sé nulla che possa ancora servire, in quanto mancante, a tale raggiungimento, egli non avrà più bisogno di un tempo da vivereper raggiungere se stesso come completezza in relazione a se stesso (e non in relazione a Dio, nei confronti del quale l’uomo è per essenzaincompleto); egli, insomma e una volta per tutte, sarà ciò che chiamiamo un uomo che ‘non ha più tempo’, non ha più tempo da vivere, non ne necessita avendo raggiunto i confini ultimi di se stesso, egli dunque sarà, come si deve dire di un uomo del genere, un uomo ‘morto’.
Dio, invece, è un progetto completo già da sempre. Infatti Dio non ha mai in alcun modo a che fare col tempo; non ha mai avuto tempo, non avendone mai avuto bisogno per realizzarsi ed essendo per essenza progetto completo fin da subito. Già, progetto completo, ma in relazione a che cosa? in relazione all’uomo? Ma è l’uomo ad essere per essenza incompleto in relazione alla completezza essenziale di Dio, o è Dio ad essere completo in relazione all’incompletezza essenziale dell’uomo? E in ogni caso: la completezza di Dio, misurata sul suo opposto umano, presuppone allora se stessa come misura; non è forse un circolo vizioso? Qualora lo fosse, verrebbe messa in discussione la possibilità di un’incompletezza qualsiasi, mancando un referente in grado di far da fondamento al confronto. E infatti l’uomo si considera spesso perfetto e completo in sé, senza bisogno di confrontarsi e raffrontarsi con alcunché d’altro che ne deprima la considerazione di completezza e perfezione, di cui dà dunque, e al tempo stesso, inconsapevole e consapevole testimonianza.
Ma sia data, invece, un’incompletezza essenziale dell’uomo, e non sia dato affatto il confronto con la completezza altrettanto essenziale di un Dio, sia, cioè, tale incompletezza, tutta da comprendere non essendo essa compresa dall’abbraccio referenziale di un Dio. Tale incompletezza sarebbe tale in relazione a chi, o a che cosa? Può l’uomo considerare una propria eventuale incompletezza esclusivamente riferendosi a sé? esiste, infine, la possibilità di un’incompletezza in sé, di un’incompletezza essenziale?
A tale incompletezza corrisponderebbe allora la temporalità essenziale dell’uomo, da intendersi nel senso che l”aver tempo’ a disposizione da parte dell’uomo sarebbe non più una possibilità che, una volta realizzatasi, non lo riguarderebbe più, ma una necessità del tutto sganciata dall’ipotesi di una realizzazione rispetto ad un possibile, rispetto ad un progetto. Al tempo stesso, però, la progettualità legata all’umano, legata com’è ad un’incompletezza essenziale, appare come un ‘non aver mai tempo’ a sufficienza, o anche un ‘non aver più tempo’ per ciò che s’intende realizzare, appare come una temporalità mancante per essenza, come l’essenza di una mancanza, come l’essenza mancante di ciò di cui Dio non è affatto mancante, come l’essenza valida solo in qualità di essenza dell’uomo, come l’essenza essenzialmente mancante dell’uomo. Cosicché il tempo, ed il suo eventuale possesso da parte dell’uomo, diventa il segno di una mancanza essenziale che fa dell’uomo l’ente mancante per definizione, anche se ciò di cui è mancante è poi anche ciò che, rendendolo uomo, lo fa ricco, ricco della sua mancanza.
Ritorna, dunque, il problema della relazione tra un’incompletezza umana essenziale ed una completezza divina che all’incompletezza serve come riferimento di confronto per potersi definire incompletezza, ma di cui, peraltro, non possiamo mai fare esperienza, se non esperienza di pensiero, nella misura in cui pensiamo alla nostra progettualità come ad un ‘che’ d’incompleto, cosicché in questo pensiero impossibile (di completezza divina a fronte dell’incompletezza umana) tale esperienza si esaurisce. Ma di che natura è, allora, il pensiero che pensa l’incompletezza umana a fronte della completezza divina? e in che misura un’esperienza di pensiero è in grado di essere ‘esperienza’ a tal punto da consentire l’attribuzione di una valutazione d’incompletezza all’intera esperienza umana, che non è mai soltanto esperienza di pensiero?
Il fatto è che l’esperienza di pensiero è sempre esperienza di senso, ed il senso che l’uomo produce in quanto pensiero si distende nel tempo, lo riguarda e lo assume come il vero riferimento del suo esser-senso; infatti, sia che esso intenda valere esclusivamente nell’hic et nunc, sia che intenda valere per tutta la serie possibile dei possibili hic et nunc, ovvero per ciò che chiamiamo, in apparente opposizione al tempo, ‘eternità’, il senso è comunque distensione nel tempo, ed eventualmente distingueremo tra un senso contingente ed un senso permanente, tra un senso accidentale ed un senso sostanziale, ipotizzando, peraltro, che il tempo come finitezza appoggi la propria finitezza sul tempo come infinità, ovvero come serie di hic et nunc che non cessa mai e non ha mai avuto inizio. L’incompletezza dell’umana progettualità di cui facciamo esperienza di pensiero ha a che fare, dunque, col tempo, col ‘non avere tempo’, col ‘non avere più tempo’, intendendo queste due formule come testimonianza di una <em<dissimmetria tra ciò che l’uomo, nella sua esperienza di pensiero, intende come progetto (appoggiato al riferimento d’infinità temporale che sola consentirebbe la completezza del progetto stesso) e ciò che nella sua esperienza complessiva esperimenta ogni volta che mette capo ad un progetto (connotato, a causa di quel riferimento, da una fatale insufficienza di raggiungimento).
Sembrerebbe, allora, da quanto detto sopra, che il tempo così inteso sia una possibilità umana regolarmente disattesa, o meglio: sia una configurazione tutta umana, una rappresentazione che intende descrivere in anticipo (ovvero: prima della sua realizzazione, comunque essa si ponga poi rispetto alla nozione di completezza) una mancanza essenziale, la cui esperienza di pensiero si chiama ‘mancanza di tempo’, ma la cui esperienza più generale si chiama ‘esistenza’.
La mancanza di tempo, allora, s’inscrive necessariamente nell’esistenza, se la vita è un progetto essenzialmente incompleto, la cui realizzazione non è di questa vita, ovvero di questo mondo. Ma, all’interno dell’ipotesi di una vita la cui progettualità è essenzialmente incompleta, il tempo, che non basta mai e rende la vita troppo breve, in quanto prodotto di un’esperienza di pensiero, come viene testimoniato? che cosa consente al pensiero di reputare sempre insufficiente il tempo per il progetto?
Dev’essere, così infatti parrebbe, un’esperienza generale all’insegna di una più globale mancanza, la cui generalità esperienziale sia fuori discussione. Il luogo di quest’esperienza è uno solo, ed è il corpo, il corpo comunque lo si voglia intendere, in ogni caso: il corpo come presenza incontrovertibile di qualcosa che è e che ci riguarda prima di tutto e per lo più nel suo essere per noi, nel suo essere noi. Il corpo èil luogo in cui la progettualità è sempre mancante nella misura in cui essa è necessariamente affidata al tempo; il tempo del corpo scrive con impercettibile trascorrere l’incompletezza della sua verità, la verità della sua incompletezza: il corpo è il luogo di questa scrittura ed è il corpo che non ‘basta’ mai; il senso, che questa scrittura custodisce e nasconde, si rivela, proprio nel tempo che sul corpo passa, che passa nel corpo, come quella custodia, quel nascondimento. Qui, nel corpo, il nascondimento è sempre rivelazione, e la rivelazione è sempremancanza, ovvero nascondimento di una rivelazione della totalità che la mancanza custodisce, che la mancanza nasconde. Ma che cosa custodisce, che cosa nasconde la mancanza di corpo e di tempo dell’uomo?
Custodisce e nasconde il vuoto: il fiore della mancanza ha le sue radici nel vuoto. Ma dicendo questo, a dire il vero, diciamo poco, o diciamo molto ma in modo poco chiaro; è un po’ come se dicessimo: il corpo è il luogo dove sta custodito e nascosto il vuoto, e la vita del corpo costituisce un progressivo emergere di tale radice custodita e nascosta da ogni colmatura di senso, che la progettualità essenzialmente incompleta dell’uomo produce di tempo in tempo, dentro un’essenziale mancanza di tempo. Il corpo, quindi, è il luogo dellosvuotamento del corpo vuoto, vuoto in essenza ma non mai di fatto, finché è vivente, poiché il fatto della vita custodisce e nasconde nella corporalità il vuoto essenziale del corpo, cosicché la rivelazione piena e completa di tale radice è demandata a ciò che chiamiamo morte. E ancora: alla progettualità essenzialmente incompleta della vita corrisponde la progettualità completa della morte, che, nel suo corrispondere, ricopre quella stessa funzione che ricopre Dio, ovvero: vale come riferimento di completezza affinché la vita possa dirsi progetto incompleto.
La morte, dunque, come progetto completo? la morte come Dio? o addirittura: la morte è Dio, cosicché la formula ‘Dio è morto’ possa significare qualcosa di abissalmente diverso da ciò che essa significa da quando Nietzsche la formulò la prima volta?
Infatti, Dio muore se vuole essere completezza progettuale, se vuole non avere bisogno di tempo e, in questo suo non abbisognare di tempo, essere altro dall’uomo, ed essendo altro dall’uomo consentire all’uomo di valutare la propria essenziale incompletezza facendo riferimento alla completezza che il Dio morto rappresenta ai suoi occhi mortali. Certo che Dio è morto, ed è morto per salvarci dall’abisso di un pieno d’immanenza nel quale non potremmo più produrre senso, in quanto mancanti essenzialmente di nulla. Occorre la coscienza della mancanza, occorre fare l’esperienza di pensiero del tempo che manca, che manca sempre al raggiungimento della completezza, per render conto di quella più generale esperienza che è l’esistenza, il cui permanente sta nascosto e custodito e ha nome ‘vuoto’, radice del vuoto.
Noi, infatti, non facciamo mai, a livello di esperienza generale, esperienza del permanente; noi il permanente lo sperimentiamo solo col pensiero, il permanente è un concetto, il prodotto di un pensare che ha preso le distanze dall’esperienza generale. L’esperienza generale fa solo esperienza della mobilità, del tempo mancante che mette capo alla vita e ai suoi pieni provvisori, ai suoi sensi che istituiscono una durata di valore, alle sue colmature che scandiscono la storia dell’uomo e del suo lavoro di senso. D’altra parte, il permanente non è altro dalla mobilità, né la mobilità è altro dal permanente: la loro alterità reciproca riposa soltanto nella nostraintenzione di pensiero; come già la morte in quanto completezza e la vita in quanto incompletezza, anche il permanente e la mobilità intrattengono relazioni necessarie e reciprocamente coinvolgenti. L’uno non sussiste senza l’altro, e soltanto la loro storia depositata nelle molte scritture e la descrizione strutturale delle loro relazioni reciproche sono in grado di render conto della produzione dell’umano da parte dell’uomo.

Gianmarco Pinciroli

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