28 ottobre 2013

CHE LA TERRA SIA LIEVE PER LOU REED






MICHELE SERRA - LOU REED. 

In quelle rughe c’è la storia del mondo



Lou Reed era nato a Brooklyn nel 1942, in piena Seconda guerra mondiale, quando il rock’n’roll non era ancora stato partorito dalboogie e dal blues.

La società in cui è cresciuto era, almeno in apparenza, molto più ordinata e regolata di quella in cui Reed ha concluso la sua lunga avventura di uomo e di artista poco dopo avere compiuto i settant’anni, un’età che vede molti suoi colleghi ancora dritti in mezzo a un palcoscenico.
C’è una sua foto da studente che pare quella di un nostro remoto antenato, come tutte o quasi le foto degli anni Cinquanta. È invece, anagraficamente, la foto di un nostro fratello maggiore o padre. Con i capelli corti, gli occhiali, l’aria per bene che avevano i ragazzi prima dello squasso politico-esistenziale degli anni Sessanta. Difficile perfino intuire, in quel viso, il volto segnato e i tratti scavati dell’artista “maledetto”, notturno, pallido e scuro, che ha conquistato la fascia più colta e irrequieta della scena musicale americana e — di riflesso — mondiale.

Tutti i volti invecchiano. Ma nella generazione di Lou Reed impressiona riconoscere in una sola persona, in una sola biografia, un passaggio d’epoca così sconvolgente. Dalla cravatta del college e dal decoro di una famiglia ebraica piccolo borghese (chissà se simile a quelle descritte da Philip Roth o Woody Allen) alla scena underground e al “chiodo” di pelle nera che ha indossato per il resto della sua vita il passo è stato, per chi lo ha fatto, vigoroso e istintivo. Ma a ripensarlo a distanza, quel passo, si capisce che in poche altre epoche il mondo è altrettanto cambiato; e che poche generazioni sono cambiate, cambiando il mondo, come quella che è cresciuta in Occidente dopo la seconda guerra mondiale.

Degli abusi di sé, delle droghe, dell’oltranzismo esistenziale, della coerenza espressiva (mai nemmeno mezza concessione alla “gradevolezza”) di Lou Reed dicono diffusamente i suoi biografi e i suoi critici, che sono quasi tutti, da sempre, meritatamente entusiasti. Difficile, del resto, non ammirare un artista così poco appagato, febbrile sperimentatore anche quando avrebbe potuto comodamente ripetere il suo canone, in continuo e cangiante sodalizio con star di calibro almeno pari al suo (John Cale e i Velvet Underground, Andy Warhol, David Bowie, Laurie Anderson), fotografo, cantante, chitarrista, compositore, attore, poeta, teatrante, scrittore (con Lorenzo Mattotti che illustra la sua rielaborazione del Corvo di Poe), multimediale da prima che la multimedialità prendesse piede fino da quando collaborava con la Factory di Wharol.

Quanto alla natura “nera” della sua musica (e soprattutto dei suoi testi), al suo mai edificante racconto di piaceri e desideri cercati ossessivamente, di vite estorte all’anonimato della società di massa, non è inutile riflettere su un pregresso che tutte le biografie di Lewis Allan Reed riportano.

A causa della sua “bisessualità”, vera o presunta, ancora adolescente venne sottoposto (dalla famiglia?) a un elettroshock che potesse “curarlo”, e rimetterlo in carreggiata... L’episodio, quanto a “noir”, surclassa l’immaginazione delle peggiori spelonche dell’underground. Rimanda a una società trucemente bigotta, maccartista in politica e sessuofoba nei costumi, che prepara con le proprie mani, per naturale reazione, l’esplosione libertaria degli anni successivi, con tutti i suoi eccessi, il mito delle droghe, la dissolutezza, l’abrogazione dei limiti (anche fisici) che porta all’autodistruzione.

La nomea “demoniaca” del rock, spesso tradotta in moda o vezzo, insomma in una facile ripetizione, è per paradosso alla luce del sole, perfettamente emersa, rivendicata. Quanto demoniache siano state — o siano ancora — le pratiche repressive, il perbenismo soffocante, il moralismo castrante, è invece materia meno evidente, e la biografia di Lou Reed aiuta a non trascurarla o dimenticarla.

Durante il suo ultimo tour europeo Reed era un anziano, gentile intellettuale della East Coast, il cui repertorio di tenebra, di suoni acidi, di voce poco melodica, poco concessiva, aveva ormai l’effetto familiare di tutti i classici. Leggendo la storia della sua vita, la sola pagina davvero devastante è quella che precede il rock.


(Da: La Repubblica del 28 ottobre 2013)

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