11 ottobre 2013

I DELINQUENTI DI CESARE LOMBROSO


Oggi vi invito a leggere questo gustoso articolo che, oltre alla casa, presenta con arguzia il pensiero del famoso criminologo "socialista" Cesare Lombroso. 
Domani vi mostrerò come giudicava Lombroso il dimenticato Antonio Gramsci.




Da “il Reportage”, n.16, ottobre-dicembre 2013
L’ultima casa del dottor Lombroso
di
Juan Terranova

traduzione di Maria Nicola
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1.
Il Museo di Antropologia Criminale Cesare Lombroso dell’Università di Torino si trova in via Pietro Giuria 15. Condivide l’edificio, noto come Palazzo degli Istituti Anatomici, con il Museo di Anatomia Umana Luigi Rolando e il meno prevedibile Museo della Frutta Francesco Garnier Valletti. Quest’ultimo presenta una collezione di “migliaia di frutti artificiali modellati dall’eccentrico Francesco Garnier Valletti”. Il pieghevole promette “un tuffo nel passato”, oltre che “un’occasione per riflettere sul tema, attualissimo, della biodiversità”. L’ingresso ai tre musei del Palazzo degli Istituti Anatomici – quello della frutta, quello dei corpi e quello di Lombroso – costa 10 euro. Ogni mercoledì l’accesso è gratuito e l’orario è dalle 10 alle 18 tutti i giorni, tranne la domenica che è giorno di chiusura.
2.
Con i suoi soffitti alti e i colori ocra, elegante e austero, il Palazzo degli Istituti Anatomici ripete il gesto architettonico generale della città. Gli eccellenti e saldi pavimenti di legno così come l’accurata lucentezza delle vetrine accentuano l’atmosfera da gabinetto scientifico dell’Ottocento. Nell’atrio già si vedono alcuni ritratti di criminali eseguiti a matita. Poco più avanti, pagato il biglietto, si entra nella prima sala intitolata “Motori, farmaci, telefono, lampadine”, dove si assiste alla proiezione simultanea di una serie di filmati. Dagli schermi, due personaggi discutono del progresso. Il giovane è enfatico e convinto; il vecchio, scettico. Astuzia del curatore: in pochi minuti i responsabili del museo ci avvertono che per capire Lombroso, per capire quell’entusiasmo, occorre risalire a un’epoca di intensi cambiamenti. Un’epoca in cui, nel giro di pochi anni, si scoprono o si inventano l’anestesia, la genetica, il motore elettrico, il motore a scoppio, la lampadina, la radio e il telegrafo senza fili. E ciascuna di queste scoperte o invenzioni genera a sua volta o perfeziona una disciplina destinata a percorrere tutto il Novecento.
La seconda sala ci presenta qualcosa di più “anatomico”. Uno scheletro completo ritto dietro un vetro saluta il nostro ingresso. Sono le ossa dello stesso Cesare Lombroso, esibite per sua volontà. Che cosa significa essere ricevuti dai resti ossei del padrone di casa organizzati come se ancora potesse camminare? Questo fantasma ci dà il benvenuto in un luogo di scienza che è anche una tomba collettiva e un testamento pubblico. La sua presenza dimostra molte cose, alcune delle quali di così difficile interpretazione da sfuggire al visitatore e forse anche ai curatori, agli studiosi e allo stesso criminologo. Primo dato oggettivo: Lombroso era basso. Lungo di braccia, il suo scheletro ricorda quello di un primate evoluto. E, con buona approssimazione, dalle fotografie come dai ritratti, si può dedurre che fosse un piccoletto grassoccio, non certo un atleta.
Che altro? Cesare Lombroso nasce nel 1835 nel Regno Lombardo-Veneto, governato in quel momento da Vienna. Studia medicina a Pavia. Nel 1859 si arruola come medico militare e presta servizio nella seconda Guerra d’Indipendenza. Nel 1870 elabora la sua teoria dell’”atavismo criminale”, che stabilisce un nesso tra l’inclinazione al crimine all’ereditarietà. Sei anni dopo pubblica la sua opera di riferimento, L’uomo delinquente, e diventa professore all’Università di Torino. Nel 1898 inaugura il suo museo di psichiatria e criminologia. Nel 1904 abbandona il seggio di consigliere comunale della città di Torino e lascia il Partito Socialista. Lombroso, socialista? Il museo insiste parecchio su questo punto. “Progresso” e “socialismo” sono concetti suggeriti persino dalla sottile ed efficace illuminazione delle sale. La seconda stanza si intitola “Misurare, misurare” e mostra gli strumenti meccanici di cui il dottore si serviva per esaminare i suoi pazienti. Lombroso li usava con metodicità ossessiva, ma non li aveva inventati. Il “craniografo”, per esempio, è opera del francese Paul Broca. Ciò dimostra che la sua mania non era solitaria e che nel momento in cui lui intraprende le sue indagini vi era già un’attiva tradizione antica e moderna alla quale rifarsi. Una citazione del dottore accompagna gli apparecchi: “Per molti il progresso si riduce a certe macchine meravigliose come il telegrafo e il vapore. Per me, invece, il vero carattere che distingue la nostra epoca dalle epoche antiche sta nel trionfo della cifra sulle opinioni vaghe, sui pregiudizi, sulle vane teorie”.
3.
La terza sala del museo è ampia. Si intitola “Il mio museo” e occupa il centro indiscusso dell’esposizione. Vi si raccolgono tre tipi di materiali perfettamente esibiti. Da un lato ci sono “i corpi del reato”: una spaventosa collezione di pugnali, coltelli e strumenti perforanti; passepartout e grimaldelli; maschere e funi di diverse grossezze che furono usate per legare o per strangolare. Una grande stanga di legno biancastro, arma favolosa e primitiva insieme, presiede, eccezionale, la serie. Lombroso dice di voler combattere i pregiudizi e l’ignoranza. Di qui il valore dei “documenti”. Accompagnano queste prove materiali una trentina di maschere in cera che riproducono il volto di criminali morti in carcere. Donate a Lombroso da Lorenzo Tenchini, professore di anatomia all’Università di Parma, sono realistiche, volgari nel loro significato e raffinate nella fattura. Ciascuna accompagnata dalla sua etichetta – “Ladro italiano”, “Brigante”, “Stupratore”, “Assassino tedesco” –, riproducono nei particolari le fattezze di persone morte più di cent’anni fa e che pure non cessano di esistere in questa imperturbabile materia inerte. Che cosa direbbero queste copie se potessero parlare? Ma né le armi né le facce di lontani disadattati sociali possono rivaleggiare con le file di crani, un imponente monumento barocco fatto con le teste disseccate di, come minimo, trecento persone. Secondo una tradizione nella quale si inserì anche Leonardo da Vinci, che praticava autopsie alla luce delle candele e contro le leggi della Chiesa, Lombroso si spinse a depredare vecchi cimiteri abbandonati. Dall’azione delle armi alla mimesi statica della cera, per giungere, infine, alla sua biologica nudità, l’oggetto di studio del criminologo si moltiplica, soverchiante. Non sono cinque pugnali, sono trecento. Non sono dieci crani, sono seicento. Duplice brutalità, dunque, quella di questa sala centrale del Museo di Antropologia Criminale. In primo luogo, lungi dal denunciarla, essa accoglie l’evidenza di uomini e donne violenti capaci di uccidere servendosi di un lungo chiodo o di un coltello dalla lama finemente istoriata. In secondo luogo, la fredda scienza applicata a questi delinquenti li espone senza il beneficio di una santa sepoltura. Non c’è bisogno di pensare al mito, né ad Antigone. Qui è tutta un’altra cosa, ma che cosa? Qui la nostalgia per un mondo passato e saldo si mescola con la “sensibilità artistica” dell’esperto museografo addetto all’allestimento.
4.
Nella sala numero quattro si dà conto di un episodio centrale nella vita professionale di Lombroso. Intitolata “La rivelazione”, questa piccola stanza racconta la storia di una scoperta. Nell’agosto del 1864 il dottore esamina il cranio trapanato e vaporoso di Giuseppe Villella, un ladro condannato a sette anni di carcere e morto di scorbuto, solitario e maligno perfino nella sua reclusione. In quel momento, a cadavere ancora fresco, Lombroso non trova nulla. Ma sei anni dopo, “in una grigia e fredda mattina del dicembre 1870”, scopre nel suo cranio una fossetta occipitale mediana che aveva lo scopo di ospitare una parte del cervelletto. Così Villella – o per meglio dire il suo cranio – si trasforma nel paziente zero della nuova scienza che metterà fine al crimine. La microcefalia, che si riflette in quella cavità, era, secondo Lombroso, ciò che impediva ai delinquenti di sviluppare appieno le emozioni, togliendo loro la possibilità di lavorare e di vivere da onesti cittadini. Lì c’erano le prove. La scienza aveva parlato. E invece no. Un testo su un pannello si affretta a informarci che le misure e le forme del cervello sono variabili e che non esiste prova alcuna che possano determinare comportamenti delittuosi. Una frase fa da punto d’appoggio: “La scienza procede per errori”. Il senso di questa massima, la tranquillità che ci infonde, traballa un po’ quando scopriamo, subito dopo, tre modelli tridimensioni di piante carnivore. Nella sua ricerca di prove sull’atavismo, ovvero il ripresentarsi di caratteristiche evolutive superate, Lombroso giunse a collezionarle, quasi si trattasse di piante criminali, di esseri involuti, disfunzionali, sbagliati. I tre modelli aggiungono, da una teca, il giusto tocco fantascientifico al genere “giallo” cui il museo è consacrato. (…)
per continuare la visita si raccomanda vivamente la lettura su “il Reportage”

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