17 ottobre 2013

LA LATTAIA DI VERMEER



Conosciuto soprattutto per La ragazza con l'orecchino di perla, Vermeer ha ritratto l'Olanda borghese (ricca e triste) di Spinoza.

Melania Mazzucco - Con il gesto epico di una lattaia Vermeer riesce a fermare il tempo

In Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust, lo scrittore Bergotte, al Jeu de Paume per una mostra di Vermeer, muore d’infarto mentre ammira la Veduta di Delft.Il minuscolo lembo di muro giallo, «dipinto così bene da far pensare a una preziosa opera d’arte cinese», gli sembra migliore di ogni sua frase: quella materia ricca di strati di colore l’unica bellezza per cui vale la pena vivere. Ma per me il più bel muro del mondo è quello che chiude insieme la cucina e il quadro nella Lattaia.Una superficie rivestita di intonaco bianco crema – grezza e nuda come una pagina, o una tela.

La lattaia apparteneva al principale committente e mecenate di Vermeer, Peter Claeszoon van Ruijven. Finì all’asta ad Amsterdam, nel 1696. Nel catalogo era descritta come «una cameriera che travasa il latte, eseguita alla perfezione, fiorini 175». Una cifra elevata ma non eccezionale. L’autore era stimato dai contemporanei, un bravo maestro, come tanti altri. Però solo la Veduta di Delft fu valutata di più.

Veduta di Delft (1660)


Vermeer ha dipinto poco. In 22 anni (morì giovane, a 43), 28 quadri certi, più 7 discussi. Nemmeno 2 all’anno, mentre i suoi colleghi arrivavano a 50. Non sappiamo se la parsimonia era dovuta a pigrizia di invenzione, nostalgia della perfezione, o alla malinconia. Ha dipinto quasi sempre giovani in un interno. Mai vecchi, neonati, animali, fiori. Ha raffigurato donne intente a scrivere o leggere lettere, ma non ne ha lasciata una. Di lui conosciamo quanto forma la trama di una vita – famiglia d’origine e propria, debiti, relazioni, malattia e morte – ma ci sfugge l’essenziale. In questa esistenza elusiva un’unica data conta: il 1653. Quell’anno, ventenne, Vermeer sposò Catharina Bolnes, giovane cattolica benestante che gli offrì le rendite della madre e l’agio della casa di lei sull’Oude Langendijk, e si iscrisse alla corporazione di san Luca, divenendo maestro pittore. Gli eventi della sua biografia – la nascita dei moltissimi figli, i rapporti coi colleghi, i successi, la crisi economica, perfino la guerra – non trovano spazio nella sua pittura, come accidenti senza eco. Separando la sua persona dall’opera, Vermeer si è annullato in essa.

La lattaia ha braccia sode e corpo robusto. Non somiglia alle bambole di porcellana degli altri suoi dipinti, e neanche alle loro affettate cameriere. Indossa abiti da poco, il corpetto di camoscio giallo limone cucito grossolanamente, il tessuto logoro delle maniche rimboccate, la stoffa ruvida del grembiule blu, la cuffia sgualcita. Vermeer non ha mai più dipinto una donna di bassa estrazione sociale come lei. Solo donne e ragazze della borghesia (gli uomini gli divennero presto superflui) in occupazioni frivole – bere, suonare, provarsi gioielli. Forse usò come modella Tanneke Everpoel, la domestica della moglie, per anni al servizio dei Vermeer e a loro legata da non banale devozione: nel 1663, durante una lite, si lanciò sul fratello della signora (pazzo violento che finì i suoi giorni in una casa di correzione per delinquenti) impedendogli di piantarle la punta di ferro del bastone nel grembo. La moglie di Vermeer era incinta.

Ma Vermeer spersonalizza la lattaia, come tutti i suoi modelli, privi di identità e inespressivi come maschere. Malraux paragonò i loro volti enigmatici a quelli dei kouroi della Grecia arcaica. La lattaia deriva da altri quadri, perché Vermeer – idolatrato per la minuzia del dettaglio naturalistico – inventava invece non dalla realtà ma dall’arte. Commercianti, birrai, fornai e mercanti di Delft apprezzavano la pittura di genere: scenette ambientate in bordelli, cucine e salotti, che col pretesto di moralizzare descrivevano i costu-mi contemporanei. Esisteva una Lattaia di Gerrit Dou, “fine pittore” di Leida. Ma Vermeer andò a cercarsi il modello in una Regina Artemisia dell’italiano Domenico Fiasella: un quadro di storia. Era ancora giovane e non limitato dall’ambizione di essere considerato un gentiluomo: fece qualcosa di inaudito (e irripetibile). Diede alla sua serva la dignità di una regina.

La lattaia è sola, nella cucina spoglia. Nella finestra a sinistra, da cui entra la luce del giorno, uno dei vetri è rotto. Gli arredi sono modesti: sul pavimento uno scaldino, sulla parete d’angolo un cesto di vimini e un secchio di rame. E la cornice scura di uno specchio. Che non riflette nulla: la pittura non è copia della realtà. In basso, il battiscopa è una fila di piastrelle quadrate di ceramica decorate con disegni azzurri: artigianato di qualità, sfornato dalle fabbriche di Delft. Vi si riconoscono dei Cupido. Forse alludono all’amore. Cosa pensa la serva mentre, le palpebre basse, assorta, lavora?

Sul tavolo, una caraffa, una cesta, forme di pane e la ciotola di terracotta in cui lei fa colare un filo di latte. Il pittore la inquadra dal basso. Forse perché dipingeva seduto, e quello era il suo punto di vista. Forse perché così la figura acquistava monumentalità. Vermeer, noto nel ’600 per l’abilità nella prospettiva, costruì attentamente quella di questa tela, in cui si vede ancora il foro dello spillo in corrispondenza del punto di fuga. Sulla mano destra della lattaia. Perché è il suo gesto che deve catturare lo sguardo. La luce batte sulla cuffia, sulla fronte della ragazza, e sul muro dietro di lei.



L’effetto del chiaroscuro ritaglia la figura (evidenziata sulla spalla e sul lato sinistro dalla linea di contorno bianca), che sembra sospinta in avanti, verso lo spettatore. Ma il tavolo ingombro di masserizie lo tiene a distanza – di qua dalla soglia. Gocce di colore picchiettate con la punta tonda del pennello (è la tecnica del “puntinato”) riflettono la luce: il manico della cesta e la crosta del pane barbagliano. Il fiotto del latte e la ragazza acquistano una forza epica. Il tempo si ferma, un attimo insignificante si dilata all’infinito e racchiude il segreto della vita.

Ma il muro? Non serve solo da sfondo. Vi affiorano minime tracce. Un chiodo, e la sua ombra: il buco di un altro chiodo che, quando è stato estratto, ha scrostato l’intonaco. Sono tracce reali e insieme metaforiche. In quella cucina era appesa una carta geografica, e Vermeer l’aveva dipinta.

Non eseguiva disegni preparatori e si concedeva molti ripensamenti: correggeva, eliminava, copriva. E così poi ha cancellato la carta geografica (suggeriva il mondo esterno, che lui voleva invece escludere dal quadro). Il mondo è tutto qui: esistono solo la donna e il latte che sgorga dalla brocca. Il chiodo però si vede, come i buchi. L’arte raffigura ciò che resta. La pittura può solo colorare le tracce, registrare con la massima cura e amore (la perfezione cinese di Proust) gli istanti della nostra vita – le assenze, le ferite, lo sbriciolamento di ogni superficie su cui la luce (il tempo) si posa. Vermeer non svelerà mai a cosa sta pensando la lattaia. Il silenzio che impone ai personaggi è il suo. Lascia che parli il muro. Cioè la pittura stessa.


(Da: La Repubblica del 13 ottobre 2013)

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