24 ottobre 2013

SAUL BELLOW RACCONTATO DA PIPERNO





Questa mattina riprendiamo dal sito http://www.minimaetmoralia.it/wp/saul-bellow/ un bel pezzo di Alessandro Piperno dedicato al grande scrittore Saul Bellow:


Prendete i soldi. Un tempo c’erano i soldi. Non facevi a tempo ad aprire un romanzo senza essere letteralmente sommerso da montagne di quattrini. Balzac ci informa pedissequamente sulla solvibilità di ciascun personaggio. Lo stesso Tolstoj, con tutto il suo aristocratico riserbo, è molto sollecito nel rivelare la situazione patrimoniale dei suoi eroi. I soldi, nel cosiddetto romanzo borghese, hanno un ruolo così determinante che molto spesso offuscano le faccende romantiche; o quanto meno le affiancano: come nel caso della Signora Bovary.
Dire che la povera Emma si ammazzi perché oberata dai debiti è un’imprecisione. Ai debiti bisogna aggiungere il senso di delusione e di beffa suscitato in lei dal contegno pusillanime dei suoi amanti (entrambi spilorci). Ma è comunque un fatto che i soldi c’entrino. Così come c’entrano nel delitto compiuto da Raskolnikov e nel revanscismo amoroso di Jay Gatsby. Ma oggi? Chi è disposto a scrivere di soldi oggigiorno? Perché gli scrittori contemporanei nelle faccende pecuniarie si mostrano così avaramente reticenti? E perché nessuno gli rimprovera tale omissione? Basterebbe interrogare le nostre tasche sfibrate per capire che non c’è argomento più impellente. Dov’è finito il fantastico biglietto da un milione di sterline di Mark Twain, e le monete d’argento carezzate da un bieco usuraio dickensiano?
Il denaro, nella maggior parte dei romanzi contemporanei, appare solo per biasimare chi ne ha troppo, o per compatire chi non ne ha abbastanza. Ma la poesia del denaro, be’, quella è scomparsa. Sostituita da una specie di ascetismo puritano. È a questo che penso, in un’associazione di idee non proprio lineare, mentre mi arrovello sulla ragione per cui i lettori contemporanei snobbano uno scrittore del calibro di Saul Bellow. Lui era uno che credeva nella corsa all’oro. Lui che quella corsa all’oro l’aveva intrapresa con successo. Sono trascorsi pochi anni dalla sua morte: sembra passato un secolo. Non che venga ufficialmente disdegnato. Anzi, può ancora capitare di imbattersi in qualcuno che te ne parla con finta devozione.
Di solito lo fa per dirti che ama molto gli scrittori ebrei americani, di cui Bellow è una specie di santo patrono. Ma ti basta chiedere qualche dettaglio in più per capire che il volenteroso interlocutore, il sedicente lettore forte, ammesso che riesca a ricordare qualche titolo a caso, non ha mai letto Bellow. Forse ci ha provato, ma ha dovuto desistere. Non ce l’ha fatta ad andare avanti. Poi ti capita di fare un giretto in una libreria di Roma, di Parigi, di New York; di cercare fiducioso un capolavoro del vecchio Saul, tra i mucchi di libri in edizione tascabile, tra un piccolo principe e un amico ritrovato… E niente. Piazza pulita. Una strage. Perché? Cosa diavolo è successo in pochi anni? Cosa rende il lettore odierno meno ricettivo nei confronti della splendida prosa bellowiana?
Racconta James Atlas che le settimane precedenti all’uscita di Herzog (il libro più celebre di Bellow) si respirava, nelle redazioni dei giornali, nei milieu intellettuali newyorchesi, un’aria strana e palpitante. C’era qualcosa di messianico nell’attesa dell’avvento di quel libro sulla scena editoriale americana. Le aspettative non furono tradite. Fu uno straordinario bestseller internazionale. Ok, erano gli anni ’60. Un decennio complicato. La gente amava le cose difficili. O quanto meno fingeva di amarle. Era disposta a leggere libri che non capiva, e a sobbarcarsi la visione di film in cui i protagonisti parlavano poco e per lo più a sproposito. Neppure nella Parigi dei simbolisti il disprezzo per il Mainstream aveva raggiunto tale popolarità. Herzog uscì al momento giusto. Incontrò il pubblico giusto. Proliferò nell’atmosfera giusta, e godette dello giusto riconoscimento.
Che altro c’è da capire? IL VELO DI OBLIO DICE MOLTO DELL’EPOCA IN CORSO Tanto più che di norma detesto chi si lamenta della mancata popolarità di uno scrittore. Su certe questioni ho un atteggiamento filosofico che mette insieme Hegel e Darwin: se una cosa resiste significa che meritava di resistere. Durare per un artista è un merito, e un dovere. Se la gente continua a leggere ancora Tolstoj, Flaubert e Kafka, ci sarà un motivo. Se Herman Broch viene compulsato solo dagli specialisti significa che qualcosa nella sua prosa non ha funzionato. E allora se la penso così perché sto qui a suonare la fanfara funebre per Bellow? Non perché voglia promuovere la lettura dei suoi libri (quale vantaggio trarrei dal sapere che molta altra gente condivide la mia ammirazione?).
Né perché mi ossessioni l’idea di ripristinare le giuste gerarchie estetiche: non c’è nulla che disprezzi di più dei comitati di salute pubblica e degli intellettuali in prima linea! E nemmeno perché sia particolarmente indispettito nei confronti del lettore contemporaneo, i cui gusti non condivido ma di cui ammiro la truce risolutezza… Diciamo che il velo di oblio che minaccia l’opera di Bellow dice molto dell’epoca in corso. E questo sì che è un argomento interessante. Cosa c’è di più bellowiano che mettersi lì a elucubrare sui tempi che corrono? Troppo complicato, troppo digressivo, troppo meditabondo, troppo antipatico, troppo ebreo, troppo xenofobo, troppo misogino, troppo puritano, troppo liberista, troppo conservatore, troppo verboso, troppo erudito, troppo elitario… Saul Bellow è la vittima illustre dell’ipocrisia liberal che infesta i nostri tempi. Su questo non ho dubbi.
Contro la scorrevolezza
Ne Lo scrittore fantasma, Philip Roth, sotto mentite spoglie, offre un magnifico ritratto di Bellow, sottolineando la passione bellowiana per individui «equivoci e vitali, non esclusi i truffatori d’ambo i sessi» e il suo interesse spasmodico per la «discordia umana». Roth mette il dito sulla piaga. Già, le specialità di Bellow sono i mascalzoni e i cinquantenni in crisi, ovvero due articoli piuttosto screditati. Di ben altro, infatti, ha bisogno l’odierno consumatore di romanzi. Bambini sensibili. Bambini geniali e dislessici, bambini abusati, bambini che guardano al mondo degli adulti con sgranati occhi stupefatti… Ecco i prodotti di moda nel mercato editoriale globale.

Una voga disdicevole, certo, ma altamente remunerativa. Sembra passato un millennio dai tempi de Il signore delle mosche, i bei tempi andati in cui i bambini incarnavano, molto più verosimilmente, l’umana aberrazione. D’altro canto, non è difficile capire perché i personaggi-bambini scatenino un tale senso di identificazione. Sentimentalismo, vittimismo, irresponsabilità sono impulsi emotivi piuttosto diffusi. Chiedete ai romanzi un po’ di commozione a buon mercato? Non vedete l’ora di bagnare le pagine con lacrime di indignazione? Be’, i bambini disadattati di una famiglia disfunzionale fanno al caso vostro. Peraltro sono così carini. Lo scrittore che sforna un nuovo eroe-bambino passa subito per sensibile. Ma come ha fatto? ci si chiede. Ma quale incredibile freschezza! Che tenerezza! Si vede che non è stato guastato dalla società, ha ancora il cuore puro, l’ingenuità di una volta.
Se fossi un editore direi al mio scrittore di punta: dammi un nuovo trauma infantile, farò di te un uomo ricco! Ecco, Bellow di bambini se ne infischia. Il solo moccioso che goda di un qualche prestigio nella sua opera è il pestifero Augie March la cui idea di mondo è piuttosto matura: «Che magari non fosse necessario essere furbi era un’idea che nemmeno ci sfiorava; la nostra era una lotta». Una scaltrezza non proprio encomiabile. Che, tuttavia, è assai utile per avere un assaggio del cinismo bellowiano. Di norma gli eroi di Bellow sono uomini di mezza età, se non addirittura vegliardi. Sono pigri, bellocci, sensuali, nevrotici, intelligentissimi (ma di un’intelligenza un tantino congestionata). Amano vivere. Stravedono per le belle cose e le donne avvenenti (in quest’ordine).
Quando c’è da descrivere un bell’appartamento, o una giacca elegante, Bellow non si tira mai indietro: è generoso di dettagli. Il gusto puerile per la merce ricorda Balzac se non proprio Bret Easton Ellis. Ve l’ho già detto: per Bellow la vita è una corsa all’oro. In tal senso lui è completamente americano. La sua simpatia va ai farabutti, ai faccendieri, ai tycoon privi di scrupoli, ai gangster, molto più che ai rabbini o ai chierici della cultura. E ciò non di meno è il più intellettuale, il più accademico degli scrittori americani. La parodia di Hemingway che ci offre ne Il re della pioggia la dice lunga su ciò che Bellow pensa del tipo di scrittore americano tutto muscoli e bourbon: lo scribacchino di turno che non chiede di meglio che ubriacarsi e sparare a rinoceronti (in quest’ordine). Bellow è il contrario esatto dello scrittore auspicato dalle moderne scuole di scrittura creativa. Non teme di violentare la sintassi (e questo in inglese è un rischio ancor più pericoloso che in italiano).
Se la prende comoda, si perde in rivoli e rivoletti. Non offre appigli. Adora infilare parole preziose in mezzo a frasi corrive. Non ha alcun rispetto per le unità di tempo e di luogo. Non teme le situazioni implausibili e i personaggi eccessivi. E, a proposito di personaggi, i suoi non evolvono e non agiscono. Non imparano niente se non che la vita è beffa e fallimento. Stanno sempre lì, sedentari, a meditare sui massimi sistemi. Bellow disdegna plot accattivanti, e strutture narrative hollywoodiane. Una trasposizione cinematografica di un libro di Bellow non sarebbe meno insensata di un musical sulla vita di Kant. Una volta Bellow scrisse: «Forse Jung aveva ragione a dire che la psiche di ognuno di noi affonda le radici in epoche remote. Io penso talvolta che il mio senso del comico è più vicino al 1776 che al 1976».
Non solo per il gusto del comico Bellow è un uomo del Settecento, ma anche per l’attitudine alla divagazione. I romanzi di Sterne o di Diderot hanno influito su di lui molto più di quelli di Flaubert e Tolstoj. La libertà, l’estro, l’aforisma brillante sono il pane quotidiano di Bellow. Per questo non è obbligatorio leggere i suoi libri integralmente, ma anche a pezzi, saltando di qui e di là. Ed è sempre questa la ragione per cui non ti stanchi mai di rileggerli.
Al principio di Ravelstein, il suo ultimo libro, Bellow scrive: «Ho sempre avuto un debole per le note a piè di pagina. Più di un testo, secondo me, è stato riscattato da un intelligente o perfida nota a piè di pagina». Il che mi fa pensare che l’opera di Bellow non sia altro che un susseguirsi scostante di note a piè di pagina, tutte sullo stesso argomento: la natura umana. Ecco perché consiglio ai fan della scorrevolezza, ai nemici giurati degli avverbi e degli aggettivi, ai divoratori di romanzi di Simenon, ai fanatici dei colpi di scena, alle palpitanti Bovary a caccia dell’ultima storia d’amore di tenersi alla larga da Bellow.
La questione ebraica 
Il frequentatore seriale di festival letterari si aspetta dagli scrittori in scena un contegno impeccabile. Pretende da loro lezioni di civismo, intemerate sulla fine della cultura, una sdegnata presa di posizione sui Pacs, sull’ambiente, sul capitalismo selvaggio, sulla precarietà del lavoro, sul razzismo e sull’omofobia. E di solito lo scrittore medio non si tira indietro: dando al pubblico ciò che il pubblico chiede. Così il conformismo demagogico dilaga tra gli scrittori contemporanei.

Con il tempo hanno affinato l’arte predicatoria, a scapito della destrezza nel girare le frasi e dell’originalità espressiva. Non stupisce, allora, che una categoria molto apprezzata dal frequentatore seriale di festival letterari sia quella dello scrittore ebreo che critica la condotta dello stato d’Israele. Che grandezza di spirito! Che magnanimità! Che libertà di pensiero! Ecco gli ebrei che ci piacciono, quelli intellettualmente emancipati. Noi ci indigniamo tutti i 27 gennaio per le porcate che i nazisti hanno fatto agli ebrei, e in cambio loro si indignano per le porcate commesse dagli israeliani in Palestina. Anche in questo Bellow è uno scrittore inattuale.
La sua simpatia per Israele, così teneramente faziosa, lo spinge a diffidare degli intellettuali europei e americani che non vedono l’ora di stigmatizzare il comportamento imperialista degli israeliani: «Mi domando tante volte perché non debba essere possibile agli intellettuali dell’Occidente tenere agli arabi questo discorso: «Dobbiamo pretendere di più anche da voi. Anche voi – e i marxisti fra voi, soprattutto – dovrete far qualcosa per la fratellanza, e per la pace con gli ebrei, poiché essi hanno sofferto pene mostruose nell’Europa cristiana e nell’Islam. Israele occupa lo 0,6 percento delle terre che voi dite arabe. Non è possibile correggere le tradizioni islamiche, reinterpretarle, apportarvi quelle modifiche che rendano possibile l’accettazione di un tale piccolo possedimento.
Una grande civiltà dovrebbe essere aperta a soluzioni umanitarie e generose. La distruzione di Israele non vi arrecherebbe alcun bene. Lasciate gli ebrei vivere, nel loro piccolissimo paese». Bellow scriveva queste parole nel 1976. Un sacco di tempo fa. Da allora ancora nessun intellettuale in Occidente ha avuto il coraggio di fare un discorsetto del genere agli arabi. E sono certo che se qualcuno oggi provasse a farlo, dovrebbe prepararsi a non vivere giorni tranquilli. È molto più comodo affermare che gli israeliani sono terroristi e i palestinesi vittime sacrificali. E, infatti, è quello che gli scrittori, dai loro confortevoli scranni, non smettono di ripetere.
Per Bellow l’ebraismo è una cosa troppo seria che non può essere in alcun modo svenduta. Uno dei suoi personaggi più riusciti è Mr Sammler, un ebreo polacco scampato alla furia nazista che si è trasferito a New York. I nazisti hanno ammazzato tutti i parenti di Mr Sammler. Lui si è salvato per il rotto della cuffia. Il destino gli ha offerto la possibilità di rifarsi quasi immediatamente, donandogli un’arma e un nazista disarmato che chiede pietà. Mr Sammler senza neppure pensarci spara: «Uccidere quell’uomo gli aveva fatto piacere. Si trattava di piacere soltanto? Era di più. Era gioia. La chiamereste un’azione tenebrosa? Al contrario, era anche un’azione luminosa. Era soprattutto luminosa. Quando sparò il fucile, Sammler scoppiò di vita. Il suo cuore si sentì rivestito di raso scintillante, voluttuoso. Uccidere l’uomo e ucciderlo senza pietà, poiché lui era dispensato dalla pietà.
Ci fu un bagliore, una saetta di bianco infuocato. Quando sparò di nuovo fu meno per assicurarsi che l’uomo fosse morto che per provare ancora una volta quella beatitudine. Per bere più fiamme. Avrebbe ringraziato Iddio per quell’occasione se avesse avuto un Dio. A quel tempo non lo aveva. Per molti anni nella sua mente non c’era stato altro giudice che se stesso». Conoscete uno scrittore in circolazione che potrebbe descrivere la gioia di un omicidio – la giustizia riparatoria di un omicidio – con altrettanto spregiudicato fervore? Io non ne conosco. E apprezzo che, tempo fa, il sindaco di Chicago si sia opposto all’idea di dedicare una piazza a Saul Bellow. L’intento del sindaco era impedire la postuma celebrazione di un noto razzista. Ma l’effetto è stato di preservare il vecchio caro Saul dalla patina polverosa della pompa istituzionale.

Alessandro Piperno

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