25 ottobre 2013

J.CLAIR SULL'ARTE CONTEMPORANEA


L’opera contemporanea tra tecniche seriali e mercato impazzito. Autenticità impossibile da stabilire. Prezzi a livelli assurdi e ingiustificabili. La provocazione del famoso critico. Il testo di Jean Clair qui anticipato è parte del suo intervento alla giornata di studi “Il falso, specchio della realtà” che si svolge domani a Bologna alla fondazione Federico Zeri a cura di Anna Ottani Cavina
Jean Clair - L'arte è un falso
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Ci sono due professioni che hanno sempre rifiutato di lasciarsi inquadrare: gli psicanalisti e gli esperti d’arte. Chiunque può dirsi psicanalista o esperto e appendere alla propria porta una targa di ottone con la menzione della propria autorità. L’oggetto o la persona di cui le due professioni si occupano rilevano della categoria dell’unico, che appunto non è soggetta alla regola comune. Ogni caso sottoposto all’attenzione fluttuante dello psicanalista è irriducibile alla norma, come il quadro sotto lo sguardo dell’esperto. Ma vi sono casi in cui l’esercizio della perizia artistica o della maieutica psicanalitica somiglia piuttosto ad una pratica sofistica o alla logica falsata di un ragionamento fallace, fondato sull’emotività dell’amatore o del nevrotico, e sull’argomento d’autorità di uno specialista autoproclamato. Al paziente rimane il compito di districare, è proprio il caso di dirlo, il vero dal falso.
Per secoli e secoli, l’opera d’arte è stata un prototipo, di cui la perfezione formale e il rigore iconografico permettevano appunto la riproduzione e la diffusione. L’opera era realizzata il più delle volte a più mani, e non da una sola mano, unica e inimitabile; era inoltre diffusa, copiata, riprodotta, adattata, attraverso lavori di atelier, che mettevano in circolo il modello in regioni o paesi interi. Parlare di prototipo significa usare deliberatamente un vocabolario religioso che risale a Bisanzio e alla controversia delle immagini: il prototipo, che si fonda su un Cristo che è a immagine e somiglianza (eikon) di Dio, permette la ri-produzione all’infinito dell’immagine che ne è al tempo stesso l’idea e la forma. La somiglianza è identità. L’adorazione dell’immagine è rivolta al prototipo. Non siamo qui nel campo del gusto (delectare) né del sapere (docere), ma nel campo della credenza religiosa. L’arte moderna è una fede.
Da qualche anno, questa fede vacilla, si fa meno forte, e la moltiplicazione delle dispute sui falsi e sugli originali è il sintomo di questa crisi, per vari aspetti analoga a quelle che hanno scosso il mondo cristiano, al tempo degli iconclasmi, da Bisanzio alla Rivoluzione francese.
Nel mezzo di queste querele di esperti ci troviamo in piena fantasmagoria, analoga e parallela alla fantasmagoria dell’arte contemporanea che ci induce ad accettare che delle pastiglie multicolori siano vendute a qualche centinaia di migliaia di euro purché siano della mano di Damien Hirst. La fede cieca si muta in magia nera. Magia della mano. Magia della credenza in un genio incomparabile, fascino del “fare” singolare, lavori interminabili degli specialisti sulla mano, mano unica, quadri dipinti a due mani, a più mani, lavori d’atelier, di scuola, copie…
L’ultimo, l’estremo stadio è stato raggiunto quando la presenza dell’artista moderno, l’artista posseduto dal furor divinus, non è più richiesta solamente nella sua “mano” ma nella forma ancora più diretta: simile al Dio che offre il proprio corpo agli umani, l’artista offre in dono gli scarti, le scorie del proprio corpo sotto il nome di “opere d’arte”, scorie che saranno venerate come reliquie. Cosi gli umori, le secrezioni purulente, i sudori, lo sperma, il sangue, i peli, i capelli, le unghie, l’urina, e infine gli escrementi saranno proposti all’adorazione di quei nuovi fedeli che sono gli amatori dell’arte contemporaneo. Per citare qualche nome: Marcel Duchamp, Salvador Dall, Piero Manzoni, per la sua “Merda d’artista”, Kurt Schwitters, Louise Bourgeois, Gina Pane, Günter Brus, Hermann Nitsch, André Serrano, Wim Delvoye… la lista è senza fine.
Già la serigrafia di Andy Warhol cadeva in un vacuum semantico tale che solo l’abilità del critico d’arte poteva, in una rivista, o in un catalogo di esposizione, darle una forma, un nome, attribuirle delle qualità o delle essenze, far parlare l’opera insomma come la veggente fa parlare le carte. Ora, perché il critico d’arte diventi un personaggio essenziale, credibile, di questa manipolazione, occorre un’operazione singolare che farà della sua parola un dogma. L’effetto di “doxa” sarà ottenuto accostandogli due figure essenziali: lo storico d’arte e il mercante. Il mercante fornirà la merce, lo storico d’arte ne attesterà la provenienza e ne ricostruirà la storia.
Le operazioni intraprese per far montare il prezzo delle opere verso vette illimitate, il cui valore diventa indiscernibile agli occhi dell’onest’uomo, somiglieranno allora stranamente alle operazioni inaugurate dagli hedge funds nel campo bancario o fiduciario, attribuendo un prezzo a dei beni inesistenti, a dei prodotti fantasma, o più ancora al processo di titolarizzazione che trasforma un credito dubbio e che non sarà mai saldato in un titolo finanziario garantito e suscettibile di essere immesso nel mercato dei capitali.
Che cos’è allora un falso nell’arte se non un credito riposto in un oggetto detto “opera d’arte” e che si è riusciti, nonostante si tratti di un’opera miserabile o addirittura – come per le opere concettuali -inesistente, a far passare come dotato di valore? La scienza dello storico associata al rigore del funzionario statale, la dissertazione prolissa del critico ventriloquo, sono così diventate la parola d’ordine per fare accettare oggetti di varia natura, dal mucchio di vestiti buttati a terra nella navata del Grand Palais da Boltanski fino al dito medio eretto da Maurizio Cattelan davanti alla borsa di Milano. Sarà sempre possibile dimostrare che questi oggetti, che questi gesti hanno un’origine, uno sviluppo, una loro logica, che sono iscritti nella storia, al seguito di Marcel Duchamp e di Picasso per esempio, e quindi attestarne la legittimità.
Sono arrivato a pensare che l’arte contemporanea è interamente composta di falsi, che sono dichiarati capolavori da critici dall’autorità assai più dubbia del sapere eminente degli storici di un tempo, esperti dedicati all’autentificazione dei capolavori dei tempi passati, che esitavano e dibattevano lungamente prima di pronunciarsi sul vero e sul falso.
Se questi conflitti sulla veracità, l’originalità, la falsità, la provenienza delle opere sono in questi tempi di un’attualità fracassante, è evidentemente a causa dei prezzi astronomici delle opere sul mercato. I prezzi delle opere di Damien Hirst o Jeff Koons hanno raggiunto in pochi anni cifre tali che nessuna spiegazione razionale può renderne conto. Non siamo più nel registro del gusto (si tratta di opere francamente brutte o addirittura repellenti), e neppure trattasi di rarità: sono opere indefinitamente riproducibili. Non hanno in realtà alcuna esistenza, e non hanno un “valore” se non attraverso il mercato che le propone.
Come il mercato dell’arte, fondato da sempre sul lungo termine, abbia potuto incrociare il mercato della finanza fondato sul brevissimo termine, al punto da fondersi con esso, qui sta l’enigma dell’arte contemporanea.
Acquisire un’opera d’arte, fino a qualche anno fa, voleva dire scoprirla, nelle sale discrete e silenziose di una galleria; vederla e rivederla prima di prendere una decisione. L’opera restava di proprietà del collezionista per lunghi anni. Se doveva essere venduta, capitava che la plusvalenza fosse considerevole, ma calcolata sul periodo di tempo in cui era stata nelle mani del proprietario, non era per nulla eccezionale. Acquistato negli anni Venti, un Picasso rivenduto negli anni 60 costituiva un capitale il cui rendimento restava modesto. Le opere d’arte contemporanee, proposte nelle sale rumorose e affollate delle case d’asta, sono apprezzate in funzione di una redditività elevata e quasi istantanea, e sono rivendute spesso dopo qualche mese o qualche settimana, giusto il tempo di cambiar di mano. Ubbidiscono dunque ad una logica che è quella dei mercati finanziari, che oggi funzionano sull’estrema rapidità delle transazioni, con l’aiuto di programmi informatici che permettono di effettuare gli scambi a grandissima velocità. Come ha potuto l’opera d’arte, un tempo «fatta per l’eternità», diventare un oggetto prodotto a gran velocità, moltiplicato a piacere, null’altro che il supporto indifferente di operazioni speculative fondate su algoritmi completamente sconnessi dal mondo reale?
Il Balloon Dog di Jeff Koons, in acciaio inossidabile di quattro metri di altezza, prodotto con un procedimento che esclude ogni intervento della mano dell’artista, che si è limitato a fornire il modello, il palloncino per bambini venduto nei luna park, è stato tirato in cinque esemplari, identici salvo per i colori, e ciascuno è stato venduto tra 35 e 55 milioni di dollari.
È evidente che in questo caso, come per le serigrafie di Warhol, le nozioni di originale e di copia sono prive di senso. Ma direi di più: è proprio l’assenza di senso che permette di proporre questi prodotti a dei prezzi che non hanno limite. La perfetta riproducibilità tecnica dell’opera, che esclude ogni incertezza della mano, permette una miracolosa ubiquità, ormai presente, identica a se stessa, in vari punti del globo.
Il procedimento di Jeff Koons è già stato utilizzato tuttavia, in modo più artigianale, da scultori più classici, e con materiali più tradizionali. Ancora oggi le fonderie di Pietrasanta sopravvivono al loro declino grazie agli ordini di Botero, animali anche in questo caso, ma gatti, ingranditi meccanica-mente per raggiungere dimensioni monumentali, a partire da piccoli bozzetti di cartone o di gesso.
Il carattere derisorio di tali produzioni è sottolineato dalla scelta della figura rappresentata. L’immagine acheiropoietica della Veronica ci tendeva il volto di un Dio che si era fatto uomo per noi. Koons ci propone l’immagine infantile e derisoria di animali da compagnia, di giocattoli da carnevale ingigantiti e smisurati, come erano le effigi degli imperatori romani della decadenza, e che propongono alle élite finanziarie che li acquistano il riflesso della loro vanità e della loro cupidità di “nouveaux riches”.
Ora, non resta nulla del corpo della pittura, di quel corpo un tempo adorato, venerato, ammirato, riprodotto, ricopiato, restaurato con amore. Non ci resta nulla. Nei prodotti che ci propone l’arte contemporanea non rimangono nemmeno dei residui, dei frammenti, delle reliquie. Nient’altro, nella sua assenza, nel suo vuoto, che quei feticci ridicoli, quei palloni gonfiati che ci propongono le Fiere dell’Arte e i palazzi veneziani. I loro prezzi crescono ogni giorno di più, e la loro crescita è all’altezza della nostra perdita senza oggetto.
Al feticismo sessuale come descritto da Freud, delle produzioni corporee, dei capelli, peli, e altre immondizie, segno del potere di un genio demoniaco che si è sostituito all’amore antico dell’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio, si aggiunge qui il feticismo della merce, come l’intendeva Marx: che porta al possesso non di un’opera preziosa ma di una merce svuotata di ogni valore proprio, una sorta di titolarizzazione del nulla.
Gli Ebrei adoravano il vitello d’oro. Noi adoriamo i cani e i gatti di Koons e Botero.
Chi sarà il Mosé che spezzerà davanti a loro le Tavole della legge, scendendo da un monte Sinai?

 Fonte: La Repubblica  23 ottobre 2013

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