27 ottobre 2013

AL CINEMA LA VITA D' ADELE 1 e 2





La fedeltà all’amore. La vita d’Adele di Abdellatif Kechiche

  
di Pietro Bianchi
[E’ uscito in questi giorni in Italia La vita d’Adele (La Vie d’Adèle), di Abdellatif Kechiche, Palma d’oro al Festival di Cannes].
Sarà capitato a tutti. Quando si è innamorati i contorni del mondo sfumano, lo sfondo perde d’importanza così come tutti gli elementi di contesto. ‘Sei innamorato?’ si chiede per prenderle in giro, alle persone disattente. In realtà l’attenzione in amore non viene meno, è solo ripartita diversamente. Quando siamo in un luogo pubblico e il nostro oggetto d’amore è presente, tutti i nostri sguardi, attenzioni ed energie sono focalizzate in quel punto. La nostra attenzione in realtà è spasmodica perché siamo in grado di cogliere anche il più minimo dei dettagli. È come se tutto lo spazio circostante collassasse in un solo elemento. È per quello che ne La Vie d’Adèle, chapitre 1 & 2 (Palma d’oro al Festival Cannes), il nuovo capolavoro di Abdellatif Kechiche, lo sguardo della macchina da presa è appiccicato alla protagonista Adèle, è solo ed esclusivamente per lei. Come quello di un innamorato. Nelle più di tre ore di film non la perdiamo mai di vista, guardiamo ogni dettaglio del suo corpo, del suo modo di atteggiarsi, di mangiare, di tirare su il naso (come tutti gli adolescenti, non ha il fazzoletto), di aggiustarsi i capelli. La vediamo mentre dorme, mentre accarezza e bacia la sua innamorata, mentre ha un orgasmo, mentre si lava, mentre piange e si dispera, mentre è a scuola e poi mentre lavora. Insomma la vedremo crescere lungo circa dieci anni della sua vita e da adolescente diventare donna. La nostra vita, ma soprattutto il nostro sguardo, per la lunghezza di tre ore nel buio di una sala cinematografica sarà quella di chi è innamorato di Adèle. Questo è il gioco a cui ci chiede di giocare Kechiche. Prendere o lasciare. Se saremo disposti a innamorarci – ovvero di assumere su di noi quello sguardo – dipenderà da noi.
La Vie d’Adèle è tutto incentrato su questo raddoppiamento: è il racconto di una storia d’amore e lo sguardodi un innamorato. Kechiche in effetti ci ha sempre abituato a una macchina da presa che sta dentro all’immanenza del mondo, ma qui non si tratta solo di una preferenza per i dettagli rispetto ai campi totali. Il punto di vista dell’innamorato è legato all’oggetto che sta guardando perché lo desidera. Lo sguardo èdeviato dal desiderio. In una scena in cui vediamo Adèle dormire, la macchina da presa si sofferma sulla sua bocca, poi risale e quasi immediatamente ridiscende per riguardare nuovamente la bocca, come se a guardarla fosse qualcuno che quella bocca la sta desiderando. Raccontare una storia d’amore in questo modo vuol dire privilegiare la non-oggettività dell’amore: il fatto che non vi sia una buona norma (come vogliono i manuali di auto-aiuto) ma solo dei soggetti partecipi. Sta qui la distanza che separa La Vie d’Adèleda un’altra bellissima storia d’amore adolescenziale uscita nei cinema italiani l’anno scorso, Un amour de jeunesse di Mia Hansen-Løve, che invece prediligeva una narrazione onnisciente e distaccata. Ed è anche questo il motivo che rende le accuse che alcuni critici hanno mosso a Kechiche per il presunto voyeurismo delle molte scene di sesso presenti nel film assolutamente mal poste: la sessualità non può mai diventare un oggetto empirico, proprio perché, come insegna la psicoanalisi, non riguarda soltanto il momento del sesso propriamente detto, ma è già presente nello nostro stesso sguardo.
“Che cos’è il mondo quando lo sperimentiamo a partire dal due e non dall’uno? Che cos’è il mondo esaminato, praticato e vissuto a partire dalla differenza e non dall’unità?” si chiede Alain Badiou nel suo Éloge de l’amourLa Vie d’Adèle infatti non è solo un esercizio formale: è anche un racconto, di straordinaria intensità, del momento in cui questa differenza entra fragorosamente nel mondo di una persona e rende questo mondo irriconoscibile da come era prima. Definitivamente. “Cosa provate quando avete avuto per la prima volta un colpo di fulmine?” chiede il professore agli alunni della classe di Adèle mentre leggono La Vie de Marianne di Marivaux (ancora Marivaux, dopo L’Esquive!), “sentite che il cuore ha qualcosa in più o qualcosa in meno?”. Che sia in più o in meno, senz’altro il cuore di Adèle sarà da quel momento in dis-equilibrio, mai più pieno: o troppo o troppo poco. Ma se coi maschi della sua classe troverà al più il suo primo incontro sessuale, è solo con Emma, incrociata per la prima volta fugacemente in una strada di Lille, che il dis-equilibrio sarà vero, eccitante e irreparabile insieme. Kechiche ci accompagna in quel turbine dell’amore adolescenziale, dove la scoperta del corpo ma anche della cultura, dell’arte, della filosofia cresce come se fosse un tutto indistinto. E poco importa se l’alterità in questo caso avrà le fattezze di un corpo anatomicamente femminile e non maschile. Il film, pur senza ignorarla, non si sofferma sulla questione a cui la storie di amore omosessuale vengono sistematicamente condannate: ovvero il dramma della ricerca di legittimazione nello spazio pubblico (la società) e privato (la famiglia). La storia d’amore tra Emma e Adèle è in questo senso fino in fondo una storia universale di scoperta dell’alterità, e non della stessità. Come lo sono tutte le vere storie d’amore, indipendentemente dall’anatomia dei due che ne sono coinvolti.
Ma la scoperta di questa differenza è anche la scoperta di una ferita, perché nessuna storia d’amore può fino in fondo rimarginare il fatto che l’incontro con l’altro e col proprio desiderio è anche fatto di una violenza inaudita. L’amore di Adèle non è un amore irenico. Come dice in un scena dopo aver fatto l’amore con Emma “ci metterò tutta metta stessa”. E lo farà con la vera fedeltà – che è sempre eterna – che si deve dare a un amore. E quanto più questa dimensione di rischio e di azzardo, viene vissuta da Adèle in modo radicale con un coraggio inaudito, quanto più la sofferenza sarà grande nel momento in cui l’alterità si tramuterà in incomprensione, distanza e infine separazione. La sequenze strazianti del vuoto successivo alla fine, incomprensibile come non può che essere la fine di un amore, non si soffermano solo sulla disperazione, i pianti, il momento in cui la drammaticità si palesa esplicitamente. Kechiche ci fa vedere il vuoto che si aggira nella quotidianità quando riprende il proprio cammino. Così come prima tutto era popolato da quell’amore, ora è il mondo intero a palesare un vuoto di fondo che è ovunque e da nessuna parte.
La Vie d’Adèle però non è un cantico dell’amore fusionale e adolescenziale, quando è l’immagine dell’ideale a coltivare l’illusione d’eternità. L’amore è sempre dentro alla storia, alla contingenza, alle condizioni nella quali si viene a trovare. Adèle e Emma cominciano a vivere la loro distanza a partire dalla loro provenienza sociale. Emma è una studentessa di Belle Arti, viene da una famiglia colta e benestante; i suoi genitori sanno che la figlia è lesbica e alla loro tavola si mangiano ostriche, si bene vino, si parla d’arte e di bellezza. Adèle invece viene da una famiglia popolare, a casa sua si mangia in silenzio con la televisione accesa; i suoi genitori non si immaginano nemmeno che quella strana amica più grande che “le dà ripetizioni di filosofia” possa essere la sua amante, e si rivolgono a Emma dando per scontato che abbia un ragazzo. Maschio. Semmai a tavola si parla concretamente di quale lavoro possa dare una sicurezza economica. Ma Kechiche, come se seguisse la lezione di Bourdieu, non ci fa vedere le differenze di classe come se rimanessero sullo sfondo mentre l’individuo persiste nella sua unicità e nel suo amore fuori dal tempo. Le differenze di classe si insinuano nel profondo dei nostri atteggiamenti, sono iscritte nei nostri corpi, nei nostri desideri. Adèle è esclusa dalle discussioni colte dall’ambiente artistico di Emma, mentre il suo desiderio sarà solo quello – modesto agli occhi di Emma – di diventare una maestra d’asilo. I mondi pian piano si separano perché l’amore è anche fatto di queste cose, della contingenza crudele delle differenze sociali. E del fatto che l’ideale sociale a cui la nostra classe ci dice di dover appartenere a volte semplicemente non si accorda col nostro desiderio inconscio.
La grande lezione di Adèle però rimane la fedeltà al proprio amore, struggente e bellissima che va oltre a tutte queste separazioni. Perché la fedeltà all’amore non è la fedeltà alla fusione dell’Uno, ma la fedeltà alla differenza apertasi per la prima volta, dopo la quale il mondo non sarà mai più come prima. Imparare a vivere dopo quella ferita, vuol dire semplicemente imparare a vivere. Senza mai smettere di crederci. Seguendo sempre il proprio desiderio. I will follow, come canta Adèle ballando malinconica sulle note di Lykke Li.

*****

Ho voluto vedere coi miei occhi il film di cui si parla sopra in terrmini eccessivamente agiografici. Goffredo Fofi, nella recensione seguente, coglie meglio i pregi e i limiti del film:

«La vita di Adèle» non è un film sul lesbismo, ma sulla condizione aberrante di solitudine del nostro tempo. Tuttavia Kechiche ricerca troppo l’autorialità, diventando didascalico
.
  Goffredo Fofi - Sensualità insistita
. Suggerito per la prima parte, quella adolescenziale e scolastica, dal graphic novel di una giovane francese, Julie Maroh, bello e commosso, sulla difficoltà di accettare la propria diversità sessuale per una adolescente di oggi (Il blu è un color caldo, Rizzoli Lizard, pagg. 160, € 16,00), il nuovo film del cinquantenne Abdellatif Kechiche La vita di Adele ha vinto l’ultimo festival di Cannes e ha riaperto tra i pochi critici esigenti la controversia su un autore dei rari le cui scelte meritano davvero di venir discusse. Franco-tunisino che rivendica le sue origini e la sua cultura, Kechiche è, con Michael Hanecke, austriaco, il miglior regista francese d’oggi, a riprova della insufficienza delle culture nazionali di fronte alla nuova Europa – un discorso che la cultura italiana recepisce con molta fatica e con una colpevole assenza di curiosità e di entusiasmo.
Attentissimo nella comprensione e nella descrizione dei modi d’essere dei francesi e delle francesi di oggi, Kechiche non rinuncia alla sua parte di Arabia, e ne fa la chiave di lettura – fortemente critica – per le sue storie francesi, europee. Come in La schivata, il film che ce lo rivelò, questo è anche un confronto con la tradizione letteraria e cinematografica della Francia, e se in La schivata si partiva dai Giochi dell’amore e del caso di Marivaux qui si parte da La vita di Marianne dello stesso autore, di cui La vita di Adele evoca il titolo. Ma si direbbe che le ambizioni di Kechiche siano più vaste e azzardate, che egli voglia leggere la Francia contemporanea pensando perfino a un Balzac e per la minuziosità e l’eccesso dei particolari ai naturalisti di fine Ottocento, o perfino a Flaubert…
Agli ambienti odierni delle sue scene di vita parigina o provinciale contemporanea è sfuggito il suo film più arduo e temerario, Venere nera, che ci sembrò aggredisse la cultura positivista dell’ottocento con modi iper-positivisti, risultato di un accanimento misantropico che finiva per non salvare la stessa protagonista, vittima dell’ideologia colonialista e razzista sulla quale si è costruita l’Europa più forte. Il sospetto di misantropia che traspare da questo accanimento ci si ripropone anche dalla visione di questo possente affresco che non dimentica mai lo sfondo – e cerca in ogni capitolo o episodio i dettagli significativi: significativi, e molto spesso negativi, anche se dati sempre per oggettivi.
La vita di Adele è costruito per blocchi, e se ellissi vi sono esse riguardano il tempo -ora brevissimo ora lungo – che tra loro intercorre, ma ogni blocco deve mostrare tutto o quasi tutto, tutto vi è considerato importante, e tutto deve concorrere a un’impressione di realtà che ha la sua forza nelle espressioni dei volti, nei primi e primissimi piani, in quanto essi esprimono di intimo e di coscienza. Ma tutto è ogni volta troppo, come se non si volesse scegliere, non si credesse nella virtù della scelta… Le scene d’insieme – cene, festicciole, nella prima parte gruppi scolastici (le manifestazioni si fermano al tempo della scuola, dell’adolescenza) e nella seconda un vernissage…-sono quelle in cui Kechiche presenta di più, con distante freddezza catalogatrice, dimostratrice, né più né meno che la povertà culturale del contesto, culturale in senso antropologico ma anche, impossibile dubitarne, in senso esattamente «culturale», la sua visione critica dei modi di vivere e di pensare e di creare del nostro tempo, frigido, limitante, modaiolo.
L’importanza dei corpi è riservata anzitutto alle scene erotiche, insistite anch’esse fino alla saturazione. Il puntiglio – in verità, un eccesso di zelo – non serve ad accostarci di più ai desideri e tormenti delle due protagoniste Adèle (Adèle Exarchopoulos) ed Emma (Léa Seydoux), ma a ribadire le scelte autoriali del regista, che sembra essere spinto dal demone del dire tutto, mostrare tutto, entrare in tal modo nel cuore di una cultura e di una civiltà, e non solo di una psicologia o di un sentimento. Quest’operazione finisce, ci sembra, per dire meno di quanto ci si potrebbe aspettare, perché le manca alla fin fine quel tanto di sopra e di oltre che non basta la malinconia delle scene finali ad accennare, perché anch’esse dentro la logica di un privato non riscattato da alcuna socialità. Scene peraltro bellissime per la scoperta del fallimento inerente a ogni scelta, in quest’epoca e quantomeno nel contesto affrontato, che è poi quello medio europeo dominante.
Qui Kechiche sembra infine farsi partecipe della solitudine che è il punto di arrivo delle esperienze di vita che egli mostra e di milioni di altre vite parallele. L’essere o scegliersi etero o omo o il muoversi tra le due opzioni e tentazioni non risolve il problema di fondo della solitudine dell’individuo contemporaneo, della miseria delle proposte di liberazione e di affermazione piena e profonda di sé che quest’epoca mette a disposizione. La malinconia del finale è esemplare, ed è un esito perfettamente guidato di un percorso che invece, per le parti dell’adolescenza, è vitale e catturante, nella storia della scoperta di sé da parte di Adèle nel confronto con il gruppo, con il maschio, con Emma.
Non si tratta dunque di un film sul lesbismo e le sue difficoltà, ma di un film sulla condizione umana nel secondo decennio del 2000, nella società europea e nel suo ceto medio dominante, di un film che conferma la bravura di un autore e ne mostra nel modo più pieno le aspirazioni e le ossessioni e ne dimostra i grandissimi pregi, ma anche la fatica o il rifiuto di sollevare il suo sguardo oltre ciò che appare. Ci sono dei modi possibili di andare oltre, di mirare più in alto, di volare più alto? Ci sono, si tratta solo di cercarli.
La fotografia pur densa e amara del mondo così com’esso oggi è, non può più bastare, e si tratta insomma di cercare i modi di guardare dietro, oltre, sopra. Il cinema e le altre arti non riescono più a farlo, sono rarissimi gli autori che vi si cimentano e che hanno la forza di dirci qualcosa di nuovo, che ci dia qualche appiglio per uscire dalla melma di questo presente; ma se non fanno questo, che fanno?

Goffredo Fofi in
Il Sole 24 Ore – Domenica 27 ottobre 2013

 
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