Goffredo Fofi è stato uno dei primi collaboratori di Danilo Dolci. Ed è rimasto uno dei più fedeli e creativi interpreti del suo pensiero non violento. Lo dimostra anche in quest'ultimo suo libro Elogio della disobbedienza civile, appena pubblicato dall'editore Nottetempo, di cui riprendiamo qualche brano.
La cultura [...] è diventata la merce fondamentale della distrazione, e chi ne vive accetta molto tranquillamente il proprio stato di sudditanza, contento che lo si lasci scrivere e fare cose inoffensive nella sostanza – le seconde perfino più delle prime, senza rapporto, si direbbe, con le idee dichiarate. Peraltro, si viene eletti e si va al governo grazie alle diverse forme di pubblicità che il potere mette in campo, e di questo noi italiani dovremmo saperne molto, reduci da trent’anni prima craxiani e poi berlusconiani – con la sinistra che è andata assumendo gli stessi modelli e di fatto si è suicidata, divenendo né più né meno che una fiacca variante della destra.
La cultura, anche quella che si vuole migliore, perfino elitaria, è ridotta a merce, a intrattenimento e a mero consumo [...] La sua funzione emancipatrice è da tempo una mera finzione – così come quella della scuola nei suoi vari ordini.
La cultura non è mai stata super partes, tutt’altro – ci sono sempre state una cultura dei ricchi e una dei poveri, una di destra e una di sinistra, una religiosa e una laica, una maschile e una femminile, una bianca e una nera eccetera –, ma oggi lo è meno che mai, ed esiste una cultura iper-maggioritaria che è di fatto unica e servile, oppressa e negata dalla sua stessa superficiale varietà, dalla sua onnipresenza e, alla prova dei fatti (dei comportamenti di chi la consuma), dalla sua inconcludenza, ché un’idea vale l’altra, ed è ben raro che a un’idea buona consegua una qualche pratica “antagonista”. La cultura universitaria si morde la coda dentro a un suo limbo isolato, tra norme astruse e carriere esecrabili, e tutto fa fuorché emancipare i suoi studenti, anche se qualche professore riesce ancora a rispettarli e a proporre antidoti alla stupidità dilagante – favorita invece da pressoché tutta la cultura giornalistica, che ha finito, seguendo il modello offerto dalla televisione, per non depositare in nessuna coscienza la comprensione della gravità dei tempi e per fare invece di tutto, anche delle nostre paure, spettacolo e merce. E la televisione è, per lo meno in Italia, la fogna della cultura. È almeno dal trentennio in questione che non si vedono differenze sostanziali tra i suoi programmi, né si trovano tra i suoi dirigenti persone rispettabili e di libero pensiero, né tra i suoi dipendenti qualcuno che sembri rendersi conto delle proprie responsabilità, e tanto meno delle proprie colpe – anche se molti di loro sapevano una volta che uccidere le possibilità di intelligenza e di sensibilità presenti in ognuno non è meno grave che uccidere i corpi. Il giornalismo in genere (quotidiani e settimanali, mensili e riviste specializzate), assumendo gli stessi modelli della comunicazione televisiva, ha proposto al più nuovi divi e divetti della “cultura”, imbonitori del “popolo dei lettori” – e di quello degli spettatori e degli ascoltatori – la cui funzione è sempre di tranquillizzare e mai di inquietare.
Gli inizi
La disobbedienza civile è uno strumento a cui tutti i cittadini possono ricorrere. Nel 1946, Gandhi lesse Thoreau e individuò molto chiaramente quale dev’essere il fulcro di ogni azione di disobbedienza:
“Ogni violazione di una legge comporta una punizione. Una legge non diviene ingiusta semplicemente perché io lo affermo, tuttavia a mio parere essa rimane ingiusta. Lo stato ha il diritto di applicarla finché è contemplata nei codici, io devo resistere a essa in modo nonviolento. E lo faccio violando la legge e sottomettendomi pacificamente all’arresto e all’imprigionamento”.
Come aveva accettato di fare Thoreau nella sua breve esperienza, molti decenni prima.
Il nodo della questione è tutto qui, ieri come oggi. Riguarda sia Thoreau che Gandhi ed è un nodo di civiltà che il ’900 ha voluto disattendere nella duplice convinzione – infine unificata sotto il dominio della seconda – dell’“assoluto dello Stato” e dell’“assoluto del benessere”, secondo la distinzione di Capitini, e che il 2000 sembra semplicemente ignorare, nelle ideologie unificanti e nello stesso sistema “globale” di dominio che caratterizzano i nostri anni, cui si contrappongono soltanto fondamentalismi non meno oppressivi.
È il nodo, in definitiva, del rapporto dell’individuo con lo Stato, che, oltre alla presenza di Stati particolarmente oppressivi, contempla la contemporanea importanza delle ragioni di Antigone e di quelle di Creonte: della irrinunciabilità, contro lo Stato che non li rispettasse, dei diritti-doveri che appartengono alla sfera della morale e dell’umanità e di cui ogni individuo dovrebbe essere partecipe e difensore; e dell’adesione dell’individuo a quelle leggi che, riguardando tutti, permettono nei fatti un’armonica convivenza, nel rispetto di regole comuni stabilite con il concorso delle maggioranze pensanti e non manipolate, per il rispetto e la difesa degli interessi comuni. Anche se una “minoranza di uno” può e deve, se così ritiene, ribellarsi a una legge particolare.
Una soluzione definitiva a questo dilemma non esiste. In uno Stato che si rispetti, il conflitto tra Antigone e Creonte non può che ripetersi all’infinito, ma un modo di avvicinarsi a una soluzione dovrebbe poter stare proprio nel rigore morale con cui Antigone e Creonte assumono i propri ruoli, si assumono le proprie diverse responsabilità.
Si può scegliere la parte di Antigone o la parte di Creonte, a seconda delle proprie più profonde convinzioni morali ma, appunto, esse devono essere davvero morali. E rispettare il diverso punto di vista, la diversa scelta e convinzione. Diceva Guido Calogero richiamandosi a Socrate (su un numero del Mondo del 1960) che si tratta di “scegliere fra il dovere di obbedire e il dovere di insorgere”, e che questa scelta è sempre “grave e perenne”. Non è detto che ciò non sia avvenuto, o non possa avvenire, in un deciso confronto tra le ragioni dell’obbedienza e quelle della rivolta, anche se è certamente difficile, ed e` oggi più difficile che mai, per due opposte constatazioni:
1) la crescente miseria morale dello Stato, sempre più, sia pure con forme diverse, un terreno occupato dai grandi potentati economici. In quasi tutti i paesi e anche nel nostro.
2) la crescente miseria intellettuale e morale dei popoli, trasformati in generici consumatori dai potentati economici e dai loro servitori (la politica e i media).
Gandhi
L’insegnamento politico di Gandhi – metodi di lotta assolutamente limpidi; rispetto per il nemico, secondo una lezione che è stata di tanti, dai cristiani migliori agli anarchici migliori (si combatte il peccato e non il peccatore, le idee e le pratiche che ne conseguono e non i loro singoli portatori) – è stato di individuare un metodo che mettesse radicalmente in discussione le idee e le pratiche correnti e che, basato su convinzioni etiche o religiose, chiedesse al ribelle e al militante di trasformarsi in persuaso. Fini e mezzi: la stessa cosa. Nelle grandi lotte come nelle piccole, nella vita quotidiana come in quella associativa, nel villaggio come nella grande nazione, come in tutto il pianeta. Solo così, intuisce e afferma Gandhi, e con lui altri profeti, si può cambiare il mondo non accettandone la china discendente, la caduta nella barbarie, la tentazione della fine.
Da Elogio della disobbedienza civile di Goffredo Fofi.
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