07 maggio 2015

L'ELOGIO DELLA DISOBBEDIENZA DI GOFFREDO FOFI



Goffredo Fofi è stato uno dei primi collaboratori di Danilo Dolci. Ed è rimasto uno dei più fedeli e creativi interpreti del suo pensiero non violento. Lo dimostra anche in quest'ultimo suo libro Elogio della disobbedienza civile, appena pubblicato dall'editore Nottetempo, di cui  riprendiamo qualche brano.




La cultura
La cultura [...] è diventata la merce fondamentale della distrazione, e chi ne vive accetta molto tranquillamente il proprio stato di sudditanza, contento che lo si lasci scrivere e fare cose inoffensive nella sostanza – le seconde perfino più delle prime, senza rapporto, si direbbe, con le idee dichiarate. Peraltro, si viene eletti e si va al governo grazie alle diverse forme di pubblicità che il potere mette in campo, e di questo noi italiani dovremmo saperne molto, reduci da trent’anni prima craxiani e poi berlusconiani – con la sinistra che è andata assumendo gli stessi modelli e di fatto si è suicidata, divenendo né più né meno che una fiacca variante della destra.
La cultura, anche quella che si vuole migliore, perfino elitaria, è ridotta a merce, a intrattenimento e a mero consumo [...] La sua funzione emancipatrice è da tempo una mera finzione – così come quella della scuola nei suoi vari ordini.
La cultura non è mai stata super partes, tutt’altro – ci sono sempre state una cultura dei ricchi e una dei poveri, una di destra e una di sinistra, una religiosa e una laica, una maschile e una femminile, una bianca e una nera eccetera –, ma oggi lo è meno che mai, ed esiste una cultura iper-maggioritaria che è di fatto unica e servile, oppressa e negata dalla sua stessa superficiale varietà, dalla sua onnipresenza e, alla prova dei fatti (dei comportamenti di chi la consuma), dalla sua inconcludenza, ché un’idea vale l’altra, ed è ben raro che a un’idea buona consegua una qualche pratica “antagonista”. La cultura universitaria si morde la coda dentro a un suo limbo isolato, tra norme astruse e carriere esecrabili, e tutto fa fuorché emancipare i suoi studenti, anche se qualche professore riesce ancora a rispettarli e a proporre antidoti alla stupidità dilagante – favorita invece da pressoché tutta la cultura giornalistica, che ha finito, seguendo il modello offerto dalla televisione, per non depositare in nessuna coscienza la comprensione della gravità dei tempi e per fare invece di tutto, anche delle nostre paure, spettacolo e merce. E la televisione è, per lo meno in Italia, la fogna della cultura. È almeno dal trentennio in questione che non si vedono differenze sostanziali tra i suoi programmi, né si trovano tra i suoi dirigenti persone rispettabili e di libero pensiero,  né tra i suoi dipendenti qualcuno che sembri rendersi conto delle proprie responsabilità, e tanto meno delle proprie colpe – anche se molti di loro sapevano una volta che uccidere le possibilità di intelligenza e di sensibilità presenti in ognuno non è meno grave che uccidere i corpi. Il giornalismo in genere (quotidiani e settimanali, mensili e riviste specializzate), assumendo gli stessi modelli della comunicazione televisiva, ha proposto al più nuovi divi e divetti della “cultura”, imbonitori del “popolo dei lettori” – e di quello degli spettatori e degli ascoltatori – la cui funzione è sempre di tranquillizzare e mai di inquietare.

Gli inizi
La disobbedienza civile è uno strumento a cui tutti i cittadini possono ricorrere. Nel 1946, Gandhi lesse Thoreau e individuò molto chiaramente quale dev’essere il fulcro di ogni azione di disobbedienza:
“Ogni violazione di una legge comporta una punizione. Una legge non diviene ingiusta semplicemente perché io lo affermo, tuttavia a mio parere essa rimane ingiusta. Lo stato ha il diritto di applicarla finché è contemplata nei codici, io devo resistere a essa in modo nonviolento. E lo faccio violando la legge e sottomettendomi pacificamente all’arresto e all’imprigionamento”.
Come aveva accettato di fare Thoreau nella sua breve esperienza, molti decenni prima.
Il nodo della questione è tutto qui, ieri come oggi. Riguarda sia Thoreau che Gandhi ed è un nodo di civiltà che il ’900 ha voluto disattendere nella duplice convinzione – infine unificata sotto il dominio della seconda – dell’“assoluto dello Stato” e dell’“assoluto del benessere”, secondo la distinzione di Capitini, e che il 2000 sembra semplicemente ignorare, nelle ideologie unificanti e nello stesso sistema “globale” di dominio che caratterizzano i nostri anni, cui si contrappongono soltanto fondamentalismi non meno oppressivi.
È il nodo, in definitiva, del rapporto dell’individuo con lo Stato, che, oltre alla presenza di Stati particolarmente oppressivi, contempla la contemporanea importanza delle ragioni di Antigone e di quelle di Creonte: della irrinunciabilità, contro lo Stato che non li rispettasse, dei diritti-doveri che appartengono alla sfera della morale e dell’umanità e di cui ogni individuo dovrebbe essere partecipe e difensore; e dell’adesione dell’individuo a quelle leggi che, riguardando tutti, permettono nei fatti un’armonica convivenza, nel rispetto di regole comuni stabilite con il concorso delle maggioranze pensanti e non manipolate, per il rispetto e la difesa degli interessi comuni. Anche se una “minoranza di uno” può e deve, se così ritiene, ribellarsi a una legge particolare.
Una soluzione definitiva a questo dilemma non esiste. In uno Stato che si rispetti, il conflitto tra Antigone e Creonte non può che ripetersi all’infinito, ma un modo di avvicinarsi a una soluzione dovrebbe poter stare proprio nel rigore morale con cui Antigone e Creonte assumono i propri ruoli, si assumono le proprie diverse responsabilità.
Si può scegliere la parte di Antigone o la parte di Creonte, a seconda delle proprie più profonde convinzioni morali ma, appunto, esse devono essere davvero morali. E rispettare il diverso punto di vista, la diversa scelta e convinzione. Diceva Guido Calogero richiamandosi a Socrate (su un numero del Mondo del 1960) che si tratta di “scegliere fra il dovere di obbedire e il dovere di insorgere”, e che questa scelta è sempre “grave e perenne”. Non è detto che ciò non sia avvenuto, o non possa avvenire, in un deciso confronto tra le ragioni dell’obbedienza e quelle della rivolta, anche se è certamente difficile, ed e` oggi più difficile che mai, per due opposte constatazioni:
1) la crescente miseria morale dello Stato, sempre più, sia pure con forme diverse, un terreno occupato dai grandi potentati economici. In quasi tutti i paesi e anche nel nostro.
2) la crescente miseria intellettuale e morale dei popoli, trasformati in generici consumatori dai potentati economici e dai loro servitori (la politica e i media).

Gandhi
L’insegnamento politico di Gandhi – metodi di lotta assolutamente limpidi; rispetto per il nemico, secondo una lezione che è stata di tanti, dai cristiani migliori agli anarchici migliori  (si combatte il peccato e non il peccatore, le idee e le pratiche che ne conseguono e non i loro singoli portatori) – è stato di individuare un metodo che mettesse radicalmente in discussione le idee e le pratiche correnti e che, basato su convinzioni etiche o religiose, chiedesse al ribelle e al militante di trasformarsi in persuaso. Fini e mezzi: la stessa cosa. Nelle grandi lotte come nelle piccole, nella vita quotidiana come in quella associativa, nel villaggio come nella grande nazione, come in tutto il pianeta. Solo così, intuisce e afferma Gandhi, e con lui altri profeti, si può cambiare il mondo non accettandone la china discendente, la caduta nella barbarie, la tentazione della fine.

 Da Elogio della disobbedienza civile di Goffredo Fofi.


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