Una storia
dell'Accademia, dalle origini nel 380 aC alla chiusura voluta da
Giustiniano, ricostruisce nei dettagli il più grande laboratorio di
pensiero dell'antichità. Seguendo i percorsi di Platone e dei suoi
seguaci, ancora una volta scopriamo che, almeno sulle questioni
fondamentali della vita e dell'uomo, il pensiero greco aveva già
detto tutto quello che c'era da dire.
Gianluca Briguglia
Il cigno sfuggente di Platone
Non un blocco
dottrinale chiuso ma pensiero vitale e creativo. Mauro Bonazzi
ricostruisce le vicende dell’Accademia dalla nascita nel 380 a.C.
fino alla chiusura ordinata da Giustiniano
Una leggenda dell’antichità ci riferisce che Platone, ormai vicino alla morte, sognò se stesso nella forma di un cigno sfuggente, inseguito da cacciatori in affanno che non riuscivano ad afferrarlo. Secondo la leggenda, è il filosofo Simmia a spiegare il sogno: con grandi sforzi e affanno gli interpreti di Platone cercheranno di afferrarne il pensiero, ma lo faranno solo in parte, senza mai poter giungere a un’interpretazione univoca e fissata una volta per tutte.
Una leggenda dell’antichità ci riferisce che Platone, ormai vicino alla morte, sognò se stesso nella forma di un cigno sfuggente, inseguito da cacciatori in affanno che non riuscivano ad afferrarlo. Secondo la leggenda, è il filosofo Simmia a spiegare il sogno: con grandi sforzi e affanno gli interpreti di Platone cercheranno di afferrarne il pensiero, ma lo faranno solo in parte, senza mai poter giungere a un’interpretazione univoca e fissata una volta per tutte.
L’aneddoto si attaglia perfettamente alle vicende dell’Academia platonica e alle avventure filosofiche di cui essa fu protagonista. Lo mostra un libro utile e importante (Il platonismo), di Mauro Bonazzi, professore di filosofia antica alla Statale di Milano e noto anche oltre i confini nazionali.
Dall’acquisto da parte di Platone (o dal dono a lui fatto da uno dei suoi allievi) nel 380 a. C. del campo su cui sorgerà la sua scuola, alla distruzione degli edifici dell’Academia tra l’86 e l’89 a.C. nell’assedio romano, fino alla chiusura definitiva dell’Academia per ordine di Giustiniano addirittura nel VI secolo d. C. (negli anni in cui in Italia Benedetto da Norcia scriveva la sua Regola), Mauro Bonazzi scrive di fatto una breve storia dei platonismi accademici.
Uno dei punti di
interesse del libro risiede nella rinuncia metodologica a considerare
il platonismo come un blocco dottrinale chiuso - già a partire da
Platone - e nel seguirne la vitalità e la creatività seguendo le
vicende secolari dell’Academia. Fin da subito infatti l’attività
filosofica dei seguaci di Platone non si esaurisce nella difesa o
nella ripetizione di nozioni e dottrine del maestro, ma si articola
piuttosto come condivisione di alcuni assunti di base e come
focalizzazione su alcuni problemi specifici, sottoposti alla tensione
della ricerca e della critica.
Il caso di Aristotele è eloquente: il suo progetto nasce nel contesto platonico e in esso gioca un ruolo importante anche fino dopo l’elezione di Speusippo come scolarca dell’Academia, cioè come successore di Platone. Aristotele sviluppò, discusse, criticò liberamente molte teorie platoniche fin dall’inizio, avendo anche una funzione di stimolo per Platone stesso e per tutta la prima generazione dei suoi allievi. Le critiche aristoteliche al Timeo sono in questo senso un caso emblematico. In quest’opera, l’origine del cosmo è fatta risalire all’azione di un Demiurgo divino che costruisce il mondo.
Per Aristotele, Platone avrebbe così introdotto la nozione, difficilmente accettabile, di una creazione del mondo nel tempo. Gli accademici reagiscono invitando a leggere Platone metaforicamente: il Demiurgo è un mito che vuole solo indicare il passaggio logico dal disordine degli elementi eterni all’ordine del mondo. Non c’è dunque alcuna creazione nel tempo. È una tesi cardine del platonismo successivo, ma potrebbe essere in realtà la risposta alle critiche aristoteliche e paradossalmente una platonizzazione delle sue tesi. L’esempio è significativo, perché potrebbe forse mostrare il modo normale di discussione e critica dell’ambiente platonico. Certo con la fase scettica dell’Academia - che comincia con l’elezione nel 268 di Arcesilao a scolarca - la situazione si complica.
L’accostamento della scuola platonica allo scetticismo ha disorientato non poco i moderni, ma è un fatto che fino al I secolo a. C. gli scolarchi dell’Academia sono di forte matrice scettica. È forse anche il segno del predominio di tendenze filosofiche nate fuori dall’Academia, come il pirronismo, ma Bonazzi mostra come si tratti anche da un lato dello sviluppo di certi elementi aporetici insiti nei dialoghi platonici e da essi autorizzati e dall’altro lato della reazione accademica contro un certo dogmatismo epistemologico delle correnti stoiche.
Il Platone scettico è un Platone antidogmatico. È con la fase successiva alla conquista romana che la filosofia si decentra, si trasforma, ripensa le proprie fonti e le proprie finalità. Fare filosofia vuol dire ora riflettere sulle verità scoperte dai fondatori, come Aristotele e appunto Platone, vuol dire interpretare e commentare le opere.
Ma non c’è un unico Platone, ma tanti quante sono le tendenze filosofiche del tempo. La figura di Platone è lo snodo di una rete di filosofie che si implicano a vicenda, di sistemi porosi, tanto che le varie famiglie platoniche possono essere avvicinate solo da due assunti comuni piuttosto generali, cioè il fatto che Platone sia stato il primo filosofo ad avere scoperto la verità e che la missione di un buon platonico sia quella di meditare e approfondire il sistema dei dialoghi. Nel tempo il platonismo entra in contatto con le tradizioni orientali, che ormai irrompono nello spazio del dominio romano.
Antichi saperi, come
quelli degli Egizi, dei Persiani, degli Ebrei e diverse tradizioni
religiose, come il mitraismo e il manicheismo, e da ultimo il
cristianesimo, interagiscono con i platonismi, assorbendone idee,
sembianze e forme.
Le filosofie stesse assumono spesso i caratteri della teurgia, dell’aspirazione a un contatto diretto con il divino. Tuttavia la classica opposizione storiografica tra questa fase del platonismo, caratterizzata da sincretismo e libertà interpretativa (se non addirittura confusione e indistinzione), e il «neoplatonismo», come ritorno di una rigida sistematizzazione, tornata chiusa e monolitica, è per Bonazzi da rivedere e superare.
Non solo perché la creatività del medioplatonismo non è confusione di piani e dottrine, ma anche perché il neoplatonismo non è quel blocco dottrinario, tetragono e pietrificato, che una lunga storiografia otto-novecentesca ha voluto presentare.
Basterebbe pensare alla teoria dell’«anima non discesa» di Plotino, rifiutata e combattuta da platonici contemporanei e successivi.
La nostra anima, principio di vita e di razionalità, non è immersa completamente nel sensibile, non è tutta presente a noi stessi, ma una sua parte, non discesa in questo mondo mutevole e percettibile, è rimasta a contatto con l’intelligibile puro.
La dottrina non è platonica, ma rende conto della nostra duplicità: siamo dominati dal sensibile e dalle sue pulsioni, ma possiamo risvegliarci e rivolgerci al nostro vero destino, che è di stare con la divinità dell’intelligibile.
La teoria di Plotino crea più problemi di quanti ne risolva, come notano in molti suoi contemporanei, ma è comunque il tentativo innovativo di saldare in un nucleo platonico modificato le acquisizioni della filosofia ellenistica e l’ideale del saggio felice e autosufficiente. Il cigno di Platone è ancora una volta sfuggente, ma ha generato un nuovo platonismo.
Il Sole Domenica – 3
maggio 2015
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