Per trent'anni Hannah Arendt mantenne stretti rapporti epistolari con Kurt Blumenfeld, professore a Gerusalemme, amico di Gershom Scholem e sionista critico. Questo rapporto, sottolineato anche nel film della Von Trotta, la portò progressivamente a interrogarsi dal suo esilio newyorkese sui suoi rapporti di ebrea non osservante con l'ebraismo e con Israele. Il carteggio, fondamentale per conoscere l'evoluzione del pensiero della Arendt, è ora tradotto in italiano. Ne riprendiamo una parte dell'introduzione e alcune lettere grazie a il manifesto.
Laura Boella
L'impossibile ritorno
nella Terra promessa
Che cosa dobbiamo
o vogliamo ancora saper di Hannah Arendt, dopo anni di
studi fondati su scritti editi e inediti? Dai diari
e dai carteggi ci si aspetta il disvelamento
dell’aspetto privato della vita di un pensatore
o delle sue idee allo stato nascente. Nel caso di Hannah
Arendt, ci si trova di fronte a qualcosa di più
complesso, a sentieri interrotti del suo
pensiero, come quello riguardante l’etica, espresso in
corsi di lezioni o nella corrispondenza con Mary
McCarthy, e mai elaborato compiutamente.
Come se questioni
vissute dal vivo – la riflessione sull’etica diventa
cruciale nel contesto della «polverizzazione
dei criteri morali» emersa con il totalitarismo
e la Shoah – incontrassero un limite
insormontabile nella loro formulazione
teorica e potessero venire espresse per
illuminazioni, per esperimenti di pensiero,
solo nel contesto di una relazione, come quello della
lettera o dell’insegnamento.
Lo stesso si può dire di uno degli aspetti più controversi della vicenda intellettuale di Hannah Arendt, il suo rapporto con l’ebraismo, al centro del carteggio con Kurt Blumenfeld. Ci sono tracce ebraiche e, se ci sono, quali, nella pensatrice ormai annoverata tra i «classici» del Novecento? Per rispondere a questa domanda, non è sufficiente seguire la strada biografica, e nemmeno quella di un’analisi della derivazione delle sue idee sulla politica dalla riflessione sul totalitarismo e sulla persecuzione antiebraica.
Sposata in seconde
nozze con un non ebreo, Heinrich Blücher, e impegnata
in molti modi nelle questioni della politica ebraica,
Hannah Arendt è stata la prima a dare una
formulazione paradossale della sua
ebraicità. Essere ebrea fu per lei un vincolo di
appartenenza, mai rifiutato, ma non identitario,
che si tradusse nel compito critico di opporsi
all’astrazione del popolo ebraico, che riteneva fosse l’errore
comune all’assimilazionismo, al nazionalismo
sionista e all’antisemitismo.
D’altra parte, Hannah
Arendt si sentì sempre un’ebrea tedesca, ossia fece
ricorso a un’appartenenza al mondo non ebraico, in
particolare a quello della cultura europea,
nel senso né di un’identificazione né di una separazione
radicale, bensì dell’affermazione della differenza
ebraica all’interno di una prospettiva che comprendeva
l’intera storia dell’Occidente.
Da questa
paradossale ambivalenza trae ebraica e esplosa
con violenza a proposito del caso Eichmann:
interpretare la diaspora, l’esilio e la Shoah
come un’esperienza morale e politica dal significato
universale e non solo ebraico. Recenti studi,
ricerche d’archivio e interventi sollecitati
dal successo del film di Margaret von Trotta, Hannah
Arendt, mostrano che si tratta di una questione per nulla
risolta, che i tagli netti, le cesure interne, le
contraddizioni del discorso arendtiano
contribuiscono in ampia misura a tenere aperta.
L’ebraicità di Hannah Arendt si gioca interamente sul confine tra vita e pensiero e per questo motivo sono particolarmente adatti a metterne in luce i dilemmi esistenziali e intellettuali i carteggi, vive testimonianze delle «amicizie politiche» che nutrirono la sua vita e il suo pensiero, e nelle quali essa diede prova di grande maestria, e insieme di una drammatica ambiguità. …Kurt Blumenfeld fu una figura di grande rilievo nella maturazione del pensiero politico di Hannah Arendt, che lo conobbe nel 1926 e attraverso la sua critica dell’assimilazione prese coscienza della propria ebraicità.
Kurt Blumenfeld
Fino a vent’anni
Hannah Arendt aveva trovato «noiosa» la questione
ebraica. Costretta all’esilio in Francia nel 1933, aderì al
movimento sionista «per colpa di Hitler,
impegnandosi nell’attività dell’associazione Youth
Aliyah, che favoriva l’espatrio dei ragazzi ebrei in
Palestina. Inizia in questo periodo la riflessione
e l’intensa produzione giornalistica
sui temi dell’antisemitismo e del futuro del popolo ebraico,
che si intensificherà nei primi anni dell’esilio
americano (1941–1944) con una serie di pubblicazioni
su riviste di lingua tedesca come Aufbau
e Menorah Journal. A partire dal 1944
Hannah Arendt lavora per la rivista Jewish Social Studies
e nel 1948 assume l’incarico, affidatole dalla
commissione per la Jewish Cultural
Reconstruction, di recuperare libri, antiche
pergamene, oggetti d’arte e di culto trafugati
agli ebrei durante il nazismo.
Questo lavoro, che
le consentì di tornare in Europa, fu svolto tra il 1949
e il 1952 insieme a Gershom Scholem e in
profonda affinità d’intenti con Salo Baron, studioso
di storia ebraica alla Columbia University. Esso
si collega all’attività di caporedattrice
della casa editrice Schoken Books, che le permette di
occuparsi della presentazione al pubblico
americano di autori a lei molto cari come Walter
Benjamin, Bernard Lazare e Franz Kafka. È questo
un aspetto poco conosciuto del rapporto di Hannah
Arendt con le questioni dell’ebraismo.
Con un eccellente
lavoro di archivio, Natan Sznaider ha mostrato in un libro
recente come, compilando «liste dei tesori culturali
ebraici nei paesi occupati dalle potenze dell’Asse», essa
perseguisse l’idea di una «tradizione
nascosta» dell’ebraismo totalmente divergente
dall’immagine di un popolo perseguitato lungo
i secoli e impegnato nella lotta per la
sopravvivenza. L’eredità culturale ebraica
acquisiva in questo modo il valore politico di un
patrimonio collettivo destinato alle
comunità ebraiche presenti in America, in
Israele e nel mondo dopo la Shoah, non più in relazione
alla loro appartenenza ai diversi stati nazionali, ma
in quanto eredi di una storia e di una cultura dotate
di valore autonomo.
In questo quadro si inseriscono gli episodi più noti del conflitto di Hannah Arendt con la comunità ebraica. Nel 1943 era avvenuto il distacco dalle organizzazioni sioniste e l’articolo Ripensare il sionismo provoca, come si è visto, laceranti fratture dell’amicizia con Gershom Scholem e Kurt Blumenfeld. Difendendo durante la guerra posizioni minoritarie in favore della costituzione di un esercito ebraico, e pronunciandosi per uno stato in Palestina che organizzasse la convivenza di ebrei e palestinesi in una struttura federale, indicando la via di un superamento dello stato nazionale a tutti i popoli europei, Arendt espresse una netta opposizione alla fondazione dello Stato di Israele. Lo scandalo provocato dal reportage sul processo Eichmann non farà che amplificare tali profondi e radicati dissensi.
Su questo complesso background si intesse la trama della lunga amicizia con Kurt Blumenfeld, esponente di primo piano del movimento sionista, emigrato in Palestina nel 1933, dove, dopo lunghi soggiorni negli Stati Uniti, nel 1945 si era stabilito definitivamente. Nonostante l’ormai vasta bibliografia sul pensiero arendtiano, Kurt Blumenfeld ha occupato una zona d’ombra da cui è uscito recentemente in maniera abbastanza singolare nel film di Margaret von Trotta, Hannah Arendt…
Kurt Blumenfeld
fu invece un uomo politico e un organizzatore,
e si trovò progressivamente isolato
nel paese di cui amava i colori e i profumi, che
corrispondeva al suo bisogno di radicamento,
ma di cui non condivise mai la deriva nazionalista.
Le lettere restituiscono l’immagine di due
individui le cui strade si sono incontrate per andare
in direzioni divergenti. Kurt Blumenfeld,
restando in Israele, viveva la sconfitta del suo complesso
rapporto con il sionismo, mentre Hannah
Arendt intraprendeva in America la sua carriera
di intellettuale in ascesa.
L’impossibile ritorno
nella terra promessa risuona nell’invito perentorio
«vieni qui e basta», che rimane senza risposta
e progressivamente lascia il posto alla
descrizione delle difficoltà della vita da «ultimo
sionista» in Israele…Le lettere viaggiano da
New York a Gerusalemme e viceversa,
dall’America che imprime un ritmo di prestissimo
all’attività di Hannah Arendt, e dalla piccola
terra, in cui la vita è semplice e mantiene
un’impronta di nuovo inizio rispetto alla diaspora,
all’antisemitismo e alla Shoah…
Il tema modulato in
molte variazioni attraverso il quale la voce di Kurt
Blumenfeld risuona nello spettro di toni che gli sono
più congeniali, dalla collera alla disillusione
al malinconico senso dell’approssimarsi della fine, è il
destino dell’ebraismo europeo distrutto dalla Shoah. Intorno
a esso le strade divergenti dei due amici trovano un
punto di contatto, come se la loro amicizia potesse
alimentarsi solo della fine di ciò che li aveva fatti
incontrare, la fusione della cultura ebraica e di
quella tedesca, e il suo prodotto, il sionismo.
Kurt Blumenfeld definisce quel periodo «l’apogeo
non solo della storia ebraica, ma anche della storia
dell’umanità». Hannah Arendt lo vede nell’ottica di
un’epoca irrimediabilmente finita, il cui
fallimento deve tuttavia essere indagato
storicamente e criticamente.
Kurt Blumenfeld
P.O.B. 583 Gerusalemme
Signora Hannah Arendt,
New York 26 giugno 1945
P.O.B. 583 Gerusalemme
Signora Hannah Arendt,
New York 26 giugno 1945
Mia cara Hannah,
eccomi arrivato da
tre settimane in patria. Quel che ho vissuto in
questo periodo basterebbe per riempire il bagaglio
di un uomo dalle pretese più modeste. L’aria di
Gerusalemme ci rende intelligenti? Non lo so. In
ogni caso mi rende sano. A volte mi sento così bene che urlo
spaventato: Jenny, euforia! Fino a ieri ho avuto
molto freddo, e la notte ho dormito sempre con due
coperte.
Ieri è stata la
giornata dell’Irgun Olej Merkas Europa, che riunisce
tutti i gruppi che, dall’Europa, hanno trovato la strada
per venire fin qui. Come sempre in questi congressi,
abbiamo avuto il Chamsin. Senza rendermene conto, ho
parlato per un’ora e mezza, per la gioia dei miei
ascoltatori. I miei adepti, come li ho chiamati,
erano là insieme a gente proveniente da altri Paesi;
ad ogni modo questa volta mi è stato permesso di
parlare in un idioma straniero.
Ti saresti stupita
di sentirmi parlare a quel modo, diversamente
da come parlavo durante il mio soggiorno in America,
non ricordo in quale anno. Fatico a comprendere
pienamente l’effetto prodotto dalle mie parole: non
avevo previsto né un simile trasporto, né tanto
entusiasmo spontaneo.
Questo discorso mi
ha fatto capire che, malgrado un lungo periodo di forzata
inattività, non ho perso tempo. In un modo o nell’altro
ho imparato il mestiere. Ho l’impressione di dovere molto agli
amici – sono una manciata, ma sono amici veri – che avevo in
America e al mio soggiorno nel Nuovo Mondo.…..mi
è bastato vivere qui alcune settimane per imparare
tantissime cose della vita in Palestina. Qualche
volta ho l’impressione di poter riprendere in mano tutto
quanto dal punto in cui l’avevo lasciato sei anni fa.
Mi dedicherò
all’ebraico, basterà poco. Grazie al semplice fatto di
sentire ogni giorno la musica in questa lingua,
è facile rinfrescare i ricordi e imparare
cose nuove…Ecco dunque qualche notizia, così alla
rinfusa, niente sulla politica. Ora sono fermo ancor più
di prima sulle mie posizioni1. Non so nemmeno come la
penseresti se fossi qui, se saresti lontana
dal mio punto di vista. A distanza si capiscono e si
sentono dire molte cose, ma sul posto ne vediamo di più. La
luce chiara e i contorni netti rivelano di colpo tutto
ciò che, al di fuori della Palestina, viene annebbiato
e oscurato dalle nuvole.
Da Hannah Arendt 317
West 95th New York, N.Y.
A Kurt Blumenfeld P.O.B. 583 Gerusalemme ‚2 agosto 1945
A Kurt Blumenfeld P.O.B. 583 Gerusalemme ‚2 agosto 1945
Mio caro Kurt
approfitto delle mie vacanze per scriverti, poiché temo di essere già caduta irrimediabilmente nella pigrizia. Mi trovo in una piccola cittadina universitaria, o meglio in un piccolo college del New Hampshire. Ci sono paesaggi collinari molto belli, e splendide foreste nelle quali non si può mettere piede. Anche le colline sono là solo per gli occhi. Tutte cose che non apprezzo affatto, perché la natura comunica con me attraverso la pelle, che unisce naso, bocca e orecchie. Mi trovo nella casa estiva di amici e sto benissimo.
Quest’anno a New
York non c’è canicola, è semplicemente
umido, il che è anche più sgradevole. La tua
lettera (in realtà le tue lettere, dato che Martin mi
ha fatto leggere quelle che gli hai spedito) mi ha
procurato un vivo piacere. Conosco bene il
sentimento di angoscia nel ritrovare vecchi
amici. Nei bohémiens come noi, attaccati cioè a niente
di quel che possediamo, che si portano appresso il
loro ambiente o, meglio, che il loro ambiente sono costretti
a produrlo sempre di nuovo, tale angoscia – che
di per sé è naturale e comune a tutti gli
uomini – assume facilmente proporzioni da panico.
I bohémiens sanno
che la loro sensibilità non è protetta da
nessuna biblioteca e da nessun mobilio.
Perciò amicizie e relazioni umane
diventano ancor più importanti, anche se è chiaro
che si chiede loro sempre troppo. Essendo di fatto l’unico
ambito nel quale si possa trovare soddisfazione
nella vita privata, nonostante tutta la fedeltà e la
correttezza possibili, esse possono essere
mantenute solo mediante un contatto costante. Se si ha
del mobilio, ci si può ben abituare ad accettare come
parti del proprio arredamento anche degli esseri
umani. Ma se si conduce la propria esistenza senza
mobilio, come dei bohémiens, la cosa diventa
notevolmente più difficile.
Mi rallegro al solo sentire dei tuoi successi politici. No, non credo che noi avremmo molte divergenze adesso, e penso che ne avremo ancor meno negli anni a venire, quando le cose diventeranno molto più semplici e assai più nitide. Se non mi sbaglio, ci ritroveremo in una situazione che, a grandi linee, sarà simile a quella degli anni Trenta, quando l’unica cosa importante era essere veramente e autenticamente antifascisti. Solo, questa volta, con altri fronti.
Mrs. Hannah
Arendt,
317, West 95th Street,
New York, N.Y. 17 settembre 1945
Cara Hannah,
317, West 95th Street,
New York, N.Y. 17 settembre 1945
Cara Hannah,
….…..
Quanto alla politica
in generale, ho poche cose da aggiungere a quelle che
ti avevo detto a New York. Il Medio Oriente resta sfera di
interesse inglese, ancor più di quanto immaginassi.
La Russia è molto indaffarata, si procura
altrove tutte le materie prime di cui ha bisogno e per
il momento non si fa assolutamente notare, e la
Hashomer Hatzair e il Linke Poale Zion ne sono molto
scontenti.
Le truppe inglesi
lasciano l’Egitto, e in Palestina avremo alcuni manipoli
di truppe d’occupazione permanenti. Truman credeva
che fossero necessari 500.000 uomini, cosa che ha
certamente detto per rispondere alla pressione
dei sionisti americani, rendendoci un
cattivo servizio. Come ti potrebbe spiegare un
esperto di cose militari, oggi non c’è bisogno di tante
truppe per placare la popolazione di un piccolo
paese.
Come potrai immaginare,
noi qui viviamo seduti sul famoso barile di polvere da sparo,
e ovviamente ci sono parecchie persone che
aspettano che qualcuno ci butti dentro un
fiammifero. Non so dire che piega prenderà la
situazione nelle prossime settimane. I «duri»
hanno già provato e annunciato talmente tante
cose che non si raggiungerà una soluzione negoziata.
Già così andrebbe male abbastanza. Per la prognosi,
l’evoluzione della situazione in Siria offre un’eccellente
analogia: fu uno scandalo quando i francesi
tentarono di reprimere una ribellione con 500
uomini. Poi fu considerato normale che qualche
giorno dopo gli inglesi arrivassero con 60.000 uomini.
Non è bello vivere
in questo mondo, e il fatto che ciò che accade qui non sia
che una minima parte del dramma che attraversa il mondo è una
magra consolazione. Con i concetti di
diritto e giustizia, di democrazia e di
antifascismo non si può fare molto. Landauer ha
scritto un bell’opuscolo sulla «democrazia
interventista». Quindi potresti credere che
qui io non abbia la minima speranza. Non è vero. …..
Hannah Arendt
a Kurt Blumenfeld
14 gennaio 1946
….….….…
Sono d’accordo su molti punti del tuo articolo, che è scritto molto bene; non credo però all’emigrazione di massa dagli Stati Uniti, a mio avviso è semplicemente impossibile. In più non ne vedo la necessità: di 1,25 o 1,5 di ebrei che ci sono ancora in Europa, ci servirebbe spostarne un milione subito, e non siamo in grado di farlo.
Tutto sommato
questo è nientemeno che una questione di
vita o di morte; temo che la situazione sia anche più
grave. Ho da poco letto su un giornale una dichiarazione
di Silver, che dice che gli ebrei non accetterebbero
l’immigrazione senza uno Stato. Buon Dio, le persone sono
diventate completamente matte. Hai
perfettamente ragione nelle considerazioni
che fai circa la situazione che è venuta a crearsi in
Europa.
Qui ho parlato
dell’Europa con vari ebrei: Gamzon, che viene dalla Francia –
degli Eclaireurs Israélites, un movimento di
gioventù ebraica finanziato dai Rothschild –, penso
sia stato un vero eroe della Resistenza. Lui parla in modo
chiaro fin nel dettaglio, come ha fatto anche nel 1938
e nel 1939.
Ci siamo visti da soli,
e alle mie domande ha risposto chiarendo nel modo più
limpido ed estremo che in Francia l’antisemitismo non
esiste. (Avevo appena ricevuto da un mio conoscente,
un cattolico non ebreo, una lettera molto inquietante
al riguardo.)
Poi ho visto e parlato
con Baeck, che è veramente impressionante
perché proprio coraggioso. Si esprime esattamente
come nel 1932: Hitler ha perseguitato gli ebrei,
perché? A causa del loro talento, naturalmente!
E un ebreo non potrebbe mai essere un uomo banale come gli
altri. Insomma la normale robaccia sciovinista
di quelli favorevoli all’assimilazione, da sempre.
Il Manifesto Alias- 18 aprile 2015
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