Il fascino e il
mistero delle statuette delle Veneri cicladiche: molte furono fatte a
pezzi nell’isola di Keros. Alcune di queste antichissime rappresentazioni della Dea madre sono presenti nella mostra
Terra antica in corso a Roma.
Francesca Bonazzoli
Corpo a violino, braccia conserte: le Veneri fertili
Fra i pezzi in mostra, ci sono le tre statuette in marmo provenienti dal Museo di arte cicladica di Atene. Fondato nel 1986 da Nicholas e Dolly Goulandris, allestito e curato con una sapienza che fa impallidire molte nostre raccolte archeologiche a cominciare da quelle etrusche di Volterra, il museo conserva centinaia di pezzi rappresentativi di tutte le fasi stilistiche dell’arte cicladica e di varie dimensioni fino ai rari esemplari alti quasi un metro e mezzo.
Se il loro fascino è indiscutibile (all’inizio del Novecento ne sono stati sedotti artisti come Modigliani, Brancusi, Picasso) la loro funzione resta ancora per molti aspetti misteriosa. In grande maggioranza figure femminili, queste sculture in marmo sono interpretate da alcuni studiosi come divinità della fertilità o ctonie (ossia appartenenti alle profondità terrestri) o ancora come offerte votive. Considerando che il loro ritrovamento è avvenuto soprattutto nelle tombe, altri ricercatori le spiegano come immagini apotropaiche, sostituti di sacrifici, compagnia per i morti o simboli di stato sociale.
In ogni caso la replica del modello mantenutasi fedele a se stessa per oltre cinque secoli sembrerebbe convalidare l’ipotesi che la funzione sia rituale. Le immagini create per tale scopo, infatti, tendono ad essere conservative perché esprimono il medesimo concetto di sacro. Di certo c’è che queste sculture cicladiche vanno ricondotte all’interno di una catena di rappresentazioni femminili lunga almeno 40 mila anni, immagini cosmogoniche da sempre presenti nel mondo simbolico dell’umanità fino a quella della Vergine Maria.
Nell’intera Europa le testimonianze della produzione di «Veneri» risalgono alla fase più recente del Paleolitico (40-10 mila anni fa) e sono legate alla fertilità della donna che garantisce la continuità della specie.
È nel passaggio dal Paleolitico al Neolitico, cioè dalla raccolta del cibo alla sua produzione, che si può forse riscontrare una connessione simbolica, dunque sacra, della donna fertile con la «dea madre» e la terra, tema su cui, peraltro, sono state fatte anche molte letture ideologicamente forzate.
In tale sequenza iconografica, le figurazioni femminili di stile cicladico appartengono a una cultura fiorita nelle isole del mar Egeo centrale durante la prima era del bronzo (terzo millennio). L’originalità del loro linguaggio formale consiste nelle giuste proporzioni dei volumi corporei, schematici ma armonici, quasi bidimensionali e sviluppati soprattutto in verticale. Il tipo cosiddetto «canonico» presenta le braccia conserte ed è fiorito nel periodo d’oro dell’arte cicladica, fra il 2800 e il 2300 a.C.; mentre il gruppo con la forma detta «a violino» appartiene al primo periodo cicladico (fra il 3200 e il 2800 a.C.) ed è costituito da esemplari generalmente non più grandi di 15-20 centimetri.
Come saranno poi le statue greche del periodo classico, anche queste erano colorate e alcune tracce di pigmento usato per definire i capelli si possono ancora vedere nel retro della grande statua (alta un metro e quaranta) conservata ad Atene. Ma c’è un ultimo aspetto misterioso di queste figure cicladiche. Un grande numero di esse è stato ritrovato a pezzi in un unico accumulo scavato negli anni Sessanta nell’isola di Keros, oggi disabitata. Gli archeologi sono giunti alla conclusione che le sculture furono rotte deliberatamente già nell’antichità, ma nulla si sa del quando e del perché.
Forse durante un rituale? O forse per un atto ostile da parte di invasori? Non lo sapremo mai. Ma è anche grazie al mistero che la circonda nel silenzio dei millenni che l’arte cicladica emana un fascino magico, in contatto diretto col sacro.
Il Corriere della sera –
10 maggio 2015
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