Dal sito http://www.leparoleelecose.it/ riprendo questo pezzo:
Del lavoro, del capitale e degli alberi. Passeggiando negli spazi della 56esima Biennale
di Sandra Burchi
Inizia con una citazione da Angelus Novus
di Benjamin il catalogo dell’ultima Biennale Arti visive di Venezia con
i pensieri sull’angelo della storia, una creatura che ad ali spiegate
si allontana da quello che vede, dai tempi rovinosi e catastrofici del
suo presente, per spingersi, travolto da una tempesta, verso il futuro.
Da questa immagine parte una riflessione sul senso di una mostra come la
Biennale. L’arte non è obbligata a tenere conto
della storia, né tanto meno a redimerla, ma – è questo che sembra
essere alla base delle scelte del curatore di questa edizione il
nigeriano Okwui Enzewor – in questi nostri tempi è impossible pensare a
una grande esposizione restando indifferenti a quello che accade nel
mondo. Se ogni artista ha diritto al disimpegno e a una presa di
distanza radicale dalla realtà, se nei gesti di ogni artista può farsi
spazio un rifiuto del mondo, non può muoversi così chi si prende la responsabilità
di come riunire i loro lavori e ordinarli in uno stesso spazio :
Enzewor ha pensato a un allestimento aperto, dialogante, molto pensoso.
Una « arena » fa da perno all’intero percorso. Un’ARENA al centro del
padiglione centrale, in cui un programma fitto di performances lascia
che parola, gesti, voci facciano da « intervallo » (come lo intenderebbe
Deleuze) al lungo guardare degli spettatori.
E’ anche in questo modo che si crea uno
slittamento fra spazio espositivo e spazio di dibattito pubblico,
attraverso l’ascolto l’intera Biennale diventa luogo di traslata
partecipazione. Ed è nell’ARENA che ha luogo Das oratorio capital una performance affidata all’artista Isaac Julien in cui proprio il Capitale
di Marx è proposto come « un’epica lettura dal vivo », una forma di
lettura drammatica che si ripete più volte al giorno. Ad accompagnare,
una sequenza continua di momenti dal vivo che riportano voci e corpi
verso la materialità dei loro punti di partenza, quelli della cronaca
politica in relazione all’arte (e-flux journal), del lavoro (work’s songs), del sintomo (the Sinthome Score di Dora Garcìa). Intorno a questa ARENA l’intera Biennale (All the word’s Futures
è il titolo significativamente) con i padiglioni, ancora disposti ed
ordinati novecentescamente secondo gli stati nazione (che pure nel
frattempo sono molto cambiati come mostra il lavoro di Ivan Grubanov che
con il progetto “United Dead Nations” occupa il Padiglione
della Serbia, presentando i resti simbolici di dieci nazioni scomparse
durante il XX secolo ) è pensata in relazione alla sua storia, e
organizzata attraverso dei filtri sovrapposti che utilizzano proprio la
traiettoria storica come linea curatoriale. Il passato della Biennale
stessa è il corpo storico dei giochi di rimandi che introducono al
presente e che spingono, secondo un’idea di necessità e di urgenza
(quella dell’arte ?) verso il futuro.
Entrando nel padiglione centrale si è accolti dal celebre lavoro di Fabio Mauri, Il muro occidentale o del pianto
(1993) una parete di valige di oltre quattro metri che evoca il carico
dei deportati ad Auschwitz e il tema penoso dei viaggi senza ritorno. Un
tema che entra in molti altri, dedicati ai profughi, ai migranti, ai
carcerati, a tutti quelli che sono strappati dalla loro collocazione
« naturale » nel mondo per cercarne una che non trovano o difendere,
ricordandola, quella che hanno perduto.
E’ un mondo che produce diaspore e fughe, non solo quello dei regimi ma quello del capitale
appunto. Ci sono molte folle a raccontare la realtà di corpi riuniti in
un solo punto dalle esigenze dell’economia. La folla della prima
società industriale
è traslata al presente da artisti come Chris Marker che presenta la
folla del metrò, quella dello spostamento quotidiano e sotterraneo in
cui coglie – attraverso il ritratto – i volti presi in espressioni quasi
identiche. Le grandi foto di Andreas Gursky riprendono i raduni di
massa dimostrando un occhio attento alle concentrazioni di persone e al
loro fare febbrile muoversi : nella Borsa di Tokyo (Tokyo Stock Exchange 1990) come nel capannone asiatico in cui molte donne, sedute vicinissimo, intrecciano ceste. E’ lo stesso capitalismo, sembrano dirci queste foto, a produrre questo identico e diverso concentramento di persone.
Il lavoro è uno dei protagonisti di
questa l’Esposizione. Fotografato, raccontato, ricordato dai canti, non
solo quelli degli schiavi delle piantagioni, ma anche quelli delle
fabbriche dell’Ottocento, dei canti di protesta riposizionati in un juke
box da Jeremy Deller, autore anche di un pannello «Hello, today you
have day off», che racconta con estrema sintesi la condizione di molti
lavoratori a zero ore che oggi possono ricevere questo messaggio via
sms. Ma il lavoro è visibile anche nelle forme concrete di una serie di
mattoni, tutti i mattoni necessari per costruire una casa che l’artista
thailandese Rirkrit Tiravanjia distribuisce ai visitatori, in modo da
creare un nesso fra l’esperienza della propria abitazione e quella del
lavoro – operaio – che la produce (Untitled 2015).
Emily Kame Kngwarreye è stata una delle
figure importanti per il popolo aborigeno degli Antmatyerr, in
Australia, che andando oltre la pittura cerimoniale sulla sabbia del
deserto e sui corpi delle donn è diventata un’artista contemporanea
attraverso una pittura astratta che usa i colori primari con forza. In Earth’s Creation
(1994) in mostra a Venezia rappresenta la sua terra restituendole una
forza perduta. Ma la natura può essere distantissima e allo stesso tempo
presa e catturata dalla vicende degli uomini, come in Vertigo sea, di John Akofram, un lavoro da
cui si è letteralmente catturati: per 48 minuti tre schermi mostrano in
parallelo immagini mozzafiato di una natura forte e pulita, quella
dell’oceano, che non è stata risparmiata dalle tragedie della violenza
umana, né quella attraverso cui i dissidenti dei regimi sudamericani
hanno trovato la fine, né quella della spietata caccia ai cetacei. Le
immagini si alternano lente e maestose proponendo dolore e bellezza in
sequenza, lasciando gli spettatori silenziosi, quasi in preghiera.
Ed è proprio questa alternanza forte,
quasi violenta, fra natura e politica che torna come un filo rosso nel
corso di tutta l’esposizione, come se gli artisti e i loro progetti si
dividessero su due grandi sponde : quelli che decidono di mostrare – più
o meno da vicino – i disastri di una politica che non controlla più
niente e che mostra catastrofi e rovine di ogni sorta, e quelli che si
lasciano ancora conquistare dalla forza della natura, dandole il compito
di rappresentare una forma ordinata o poetica di resistenza. Come nel
padiglione olandese, in cui un’autentica tassonomia di piante, sassi,
rami, conchiglie, foglie e falcetti, prodotta da Herman de Vries, lascia
letteralmente ipnotizzati. Ma è soprattutto nel padiglione francese che
la natura torna in forma di fiaba, di consolazione, di oasi in cui si
piomba inavvertitamente. Revolutions di Celeste
Boursier-Mougenot mette al centro un pino marittimo semovente, con
blocco di terra e radici che sbucano alla base. Inavvertitamente
l’albero si sposta nel salone centrale, emettendo un suono
impercettibile che deriva dal fruscio dei rami, mentre a fianco, su tre
lati, nelle sale laterali i visitatori sono invitati a sdraiarsi su
comodissimi e lunghi divani per osservare e percepire l’incidere
lentissimo dell’arbusto/bulbo. Ed è ancora un albero, quello di Robert
Smithson, artista-filosofo-scrittore americano, legato alla terra,
quello che ci obbliga a sostenere due sentimenti opposti: ammirazione e
sgomento. Si tratta di un albero di dieci metri che sta seccando sotto i
nostri occhi, sdraiato a terra ha degli specchi fra i rami. Forse, per
trasportarci verso il futuro, dovremmo provare a guardare lì dentro, a
riflettere sulla nostra immagine passando, dentro quell’albero monumento
che nonostante le radici tagliate sembra non voler morire.
[Questo articolo è uscito prima su www.questionegiustizia.it].
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