“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
14 maggio 2015
Leviathan, un film di Andrey Zvyagintsev
Film russo di una russicità che lo pervade in ogni fibra, dal senso del paesaggio alla cupezza dostojevskiana delle sue anime derelitte e perse, è stato un gran pugno allo stomaco per tutti quando è stato proiettato l’anno scorso a Cannes (da dove è uscito con il premio alla sceneggiatura: troppo poco). Duro. Implacabile. Ritratto agghiacciante, senza speranza, di un lembo della Russia di oggi, Russia estremo Nord, una landa desolatissima e bellissima affacciata su un mare da paura, pervasa dalla corruzione, in mano a potentati locali in cui politica e criminalità si confondono, anzi si identificano, con una giustizia ingiusta e pavida verso i nuovi padroni, e collusioni e intrecci pericolosi tra trono e altare. Girato con uno stile alto e severo, secondo la tradizione nazionale più autoriale e rigorosa dei Tarkosky e degli Eisenstein, e però mai contemplativo, mai celibe e autoriferito, un cinema di elevato grado di purezza formale che non rinuncia alla forza dell’indignazione, che non si astrae dal reale ma anzi la realtà la vuole raccontare e testimoniare, la più sporca, la più cruda. Quando l’ho visto a Cannes 2014 mi ha ricordato subito il film cinese A Touch of Sin, la stessa voglia e passione nel denunciare le storture e le aberrazioni di un nuovo in feroce avanzata, lo stesso sgomento. Non c’è speranza per i giusti, in Leviathan, e sembra di rivedere tanti film di mafia – di Damiano Damiani, di Elio Petri, di Francesco Rosi – che noi italiani abbiamo esportato per anni in tutto il mondo facendone un evidente modello cinematografico di riferimento. In un nord di cieli chiarissimi, di un mare gelido disseminato di carcasse arrugginite, di spettrali ex cattedrali industriali, vive Kolya con la moglie Lilya e Roma, il figlio ragazzino inquieto e a lui oscuramente ostile. Il boss della zona, che è poi anche il sindaco, gli ha espropriato la casa e il terreno intorno. Kolya ha lottato, ha denunciato alla giustizia, ma finora le sentenze gli son state sfavorevoli. Incombono le ruspe, per lasciare spazio a un nuovo insediamento che sarà metà pubblico e metà privato, come ironicamente sottolinea il sindaco mafioso, colui che sta dietro alla manovra speculativa. Arriva da Mosca a dar una mano a Kolya un amico avvocato, molto sicuro di sé, molto abile, con amicizie altolocate e connessioni con chi conta. Sarà lui a sfidare il sindaco-padrone, a ricattarlo con un dossier sui suoi misfatti segreti. Sarà solo l’inizio di una guerra feroce tra la famiglia di Kolya e l’amico avvocato da una parte, e i poteri forti locali dall’altra. Solo che il furbo e belloccio moscovita compie qualche passo falso per eccessiva fiducia in se stesso, e per troppa avidità, che è poi il suo vero movente. Il primo, andare a letto con la moglie di Kolya. Il secondo, pestare troppe merde, in quel territorio dove è necessario muoversi con la massima cautela. Non dico quel che seguirà, ma sarà una spirale in discesa, verso un punto di non ritorno. Con pestaggi, minacce, omicidi e relativi depistaggi. Il giusto perde. Impossibile debellare i demoni. Intanto, quel paesaggio maestoso e sinistro si stende su ogni cosa, sembra ingoiare – impassibile – tutti i destini individuali, tutte le esistenze, le migliori e le peggiori. Il regista Andrey Zvyagintsev, già vincitore a Venezia con Il ritorno, realizza qualcosa che resterà. In questo suo film avverti l’eterna anima russa ulcerata, sofferente e vibrante, malata di fatalismo. Abissi di malinconia e picchi di violenza, anche nella stessa persona. E, Dio mio, quanto si beve, tutti, uomini e donne, ingurgitano birra e vodka in una alterazione continua della mente e della coscienza, e si adorano le armi – kalashnikov in testa – con la stessa intensità con cui si adora l’alcol. Forse bisogna essere russi per capire davvero Leviathan, per sintonizzarsi sul suo ritmo interno e il suo respiro. Per chi russo non è resta lo sgomento, l’allarme di fronte a un mondo in cui le nostre regole e i nostri modi non solo non hanno valore, ma neppure cittadinanza. Se c’è un limite, in questo grande film, è la sua programmaticità (era lo stesso per A Touch of Sin), è il piegare la narrazione alla propria tesi, è il configurarsi e il procedere come la dimostrazione di un teorema. Fino alla scena finale così teorica e ideologica da risultare fastidiosa, anche se magnificamente girata. Film a struttura chiusa, blindata, inesorabilmente teso verso la propria meta, ed è anche questo a renderlo così claustrofobico, così soffocante nonostante gli spazi aperti e l’immensità dei panorami. Meraviglioso il protagonista Alexei Serebriakov, una faccia su cui leggi la Russia, semplicemente. Nonostante sia stato osteggiato, et pour cause, dalla nomenklatura putiniana, Leviathan è stato poi scelto dall’apposita commissione russa come candidato nazionale all’Oscar per il miglior film in lingua straniera. È entrato nella cinquina finale, ma non ce l’ha fatta a portarsi a casa l’Academy Award, come avrebbe meritato (ha vinto Ida). Peccato. L’Oscar sarebbe stato di grande aiuto anche per il regista Andrey Zvyagintsev, la cui posizione in patria non è così salda.
Recensione ripresa da http://nuovocinemalocatelli.com/
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