Il tema dell' Altro è
il cuore letterario della nostra modernità lacerata. Pessoa l'aveva
capito. Nelle sue lezioni Antonio Tabucchi svela il senso “esoterico”
dell'opera del grande scrittore portoghese.
Antonio Tabucchi
Pessoa
Credo che l’universalità di Pessoa non risieda soltanto nei contenuti della sua opera, nell’insieme delle categorie che costellano i suoi testi (la caducità dell’esistenza, la nostalgia, il senso di mistero dell’essere al mondo), ma anche nel modo scelto per trasmettere questo messaggio, nella forma in cui è organizzato: in ciò che lui stesso ha definito eteronimia. Che non è un semplice modello formale, ma un vero e proprio concetto di sostanza.
Credo che l’universalità di Pessoa non risieda soltanto nei contenuti della sua opera, nell’insieme delle categorie che costellano i suoi testi (la caducità dell’esistenza, la nostalgia, il senso di mistero dell’essere al mondo), ma anche nel modo scelto per trasmettere questo messaggio, nella forma in cui è organizzato: in ciò che lui stesso ha definito eteronimia. Che non è un semplice modello formale, ma un vero e proprio concetto di sostanza.
Ma che cos’è l’eteronimia, questa invenzione che Pessoa «concretizza » in testo letterario l’8 marzo del 1914? Prima di affrontare questo problema, è necessario parlare di un grande fantasma, di una presenza inquietante che si aggira nella letteratura occidentale dal Romanticismo in poi. Un fantasma chiamato l’Altro che da allora alimenta le ossessioni dei più grandi scrittori europei. C’è un Altro nelle “rêveries” e nei notturni di Nerval, nella follia dionisiaca di Hölderlin, nel fantastico di Achim von Arnim, e negli abissi misteriosi di Hoffmann.
E cosa indica l’ombra
perduta di Peter Schlemihl di Adalbert von Chamisso, se non il
doppio, se non l’Altro, la parte più segreta, più nascosta e
misteriosa che è in noi? E cosa significa la frase «JE est un
autre» che Rimbaud scrive nella lettera a Paul Demeny del 1871?
Quando fu scritta, forse era solo un sospetto, una sorprendente
illuminazione di questo genio folgorante, un indizio che l’epoca
non poteva ancora decifrare e approfondire.
Solo all’inizio del Novecento, il problema dell’Altro entra prepotentemente sulla scena della cultura europea. Chi per primo affronta la questione dell’alterità è uno scrittore alloglotta, un uomo dell’Europa Centrale che insieme al suo paese di origine ha abbandonato la lingua materna e ha scelto di esprimersi in quella del paese adottivo: il conte Józef Teodor Konrad Korzeniowski, alias Joseph Conrad.
In The Secret Sharer ( Il
compagno segreto ) del 1912, Conrad racconta di un giovane capitano
che, nella cabina di una nave che attraversa l’oceano, offre
ospitalità a un uomo misterioso venuto dal nulla, e che al nulla
farà ritorno. Un passeggero clandestino che possiamo leggere come
una proiezione del capitano che lo ospita, un alterego di quell’Ego
che una nuova “scienza umana”, la psicoanalisi, stava allora
teorizzando.
Negli anni Venti, si
assiste a una vera e propria celebrazione di questa “alterità”:
compaiono, per citare gli esempi più importanti, le maschere di
Antonio Machado e i personaggi di Luigi Pirandello. Tuttavia, qualche
anno prima, l’8 marzo del 1914, lontano dai clamori dei salotti
letterari di Parigi o di Londra, in una modesta stanza della Baixa, a
Lisbona, Fernando Pessoa ha già realizzato, in maniera ben più
radicale e intrigante, e soprattutto affascinante, la sua eteronimia.
Ma cos’è dunque
l’eteronimia? In cosa consiste questo modo geniale di mettere in
letteratura il problema della polifonia dell’animo umano? Sentiamo
cosa dice Pessoa:
«Fin da bambino ho avuto
la tendenza a creare intorno a me un mondo fittizio, a circondarmi di
amici e conoscenti che non erano mai esistiti. (Non so, beninteso, se
realmente non siano esistiti o se sono io che non esisto. In queste
cose, come del resto in ogni cosa, non dobbiamo essere dogmatici).
Fin da quando mi conosco come colui che definisco “io”, mi
ricordo di avere disegnato mentalmente, nell’aspetto, movimenti,
carattere e storia, varie figure irreali che erano per me tanto
visibili e mie come le cose di ciò che chiamiamo, magari
abusivamente, la vita reale. Questa tendenza, che ho fin da quando mi
ricordo di essere un “io”, mi ha accompagnato sempre, variando
lievemente l’adagio musicale con cui mi affascina, ma non alterando
mai la sua carica di fascinazione. Ricordo, così, quello che mi
sembra sia stato il mio primo eteronimo o, meglio, il mio primo
conoscente inesistente: un certo Chevalier de Pas di quando avevo sei
anni, attraverso il quale scrivevo lettere sue a me stesso, e la cui
figura, non del tutto vaga, ancora colpisce quella parte del mio
affetto che confina con la nostalgia. Mi ricordo, con meno nitidezza,
di un’altra figura di cui non mi sovviene più il nome, ma
certamente anch’esso straniero, che era, non saprei in che cosa, un
rivale del Chevalier de Pas... Cose che capitano a tutti i bambini?
Senza dubbio; o forse. Ma a tal punto io le vissi che le vivo ancora,
perché me le ricordo talmente bene che devo fare uno sforzo per
rendermi conto che non furono realtà».
Questa confessione in forma di spiegazione risale al 13 gennaio del 1935, e appartiene alla celebre lettera sulla genesi dell’eteronimia, nella quale Pessoa rispondeva all’intervista del critico amico Adolfo Casais Monteiro. Si tratta di una poetica elaborata a posteriori, come del resto tutte le poetiche, e soggetta a una messa a punto che, anche se inconsapevole, prevede un certo margine di falsificazione. Una poetica, in ogni caso, “autentica”, perché non sembra differire sostanzialmente dalle note sull’argomento che Pessoa, nel corso della sua vita, ha affidato ai propri diari.
La Repubblica – 30
aprile 2015
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