ph. di gigliola siragusa
Il tempo presente ci appare ogni giorno più indecifrabile. Nel pezzo seguente di
Christian Caliandro non credo che si trovi la chiave per capirlo meglio -
la chiave l'abbiamo perduta tutti ormai!- ma solo qualche briciola di verità. fv
Questo pezzo è uscito, in forma differente e in diverse puntate, su Artribune.
Appunti e note sul XXI secolo
Ecco, c’è forse un’ora che noi non conosciamo,
un’ora del giorno o forse della notte, quando tutto
si fa di diamante, in cui il mistero potrebbe essere
risolto: si tratta di qualche secondo, ma azzeccarlo,
nella instancabile roulette, se è uscito una volta sola?
Goffredo Parise, Lontano
Il XXI secolo è un “campo di concentrazione”, come avrebbe detto Ottiero Ottieri.
Artisti, scrittori, registi, intellettuali si lamentano di essere soli,
di non intrattenere rapporti, di non possedere spazio né discorso
pubblico. Si lamentano per l’assenza di dibattito. Ma questa assenza,
l’annullamento del dibattito culturale e della sfera pubblica – nei
termini del secondo Novecento, quantomeno – permea e sostanzia il XXI
secolo nascente.
Questi albori già ben avviati si nutrono infatti di questa supposta
solitudine. E si sente, si percepisce il lavorìo, lo scavo di questi
cervelli; si vedono queste operazioni agire. Sono scollegate,
frantumate, disperse? Ma proprio questa dispersione, questa
frantumazione, fanno il XXI secolo.
È anche questo la “singolarità” – intesa come intelligenza collettiva
animata da crescita organica; nella singolarità non c’è posto per
l’attitudine nostalgica, o per il ripescaggio di tentazioni esclusive.
(Eppure, da alcuni anni assistiamo ai tentativi un po’ maldestri di
conservare e inasprire il gatekeeping da parte di un sistema chiuso e
asfittico.)
Dovremmo forse cominciare a pensare diversamente la comunità, lo
stare insieme, in comune. Come è strutturata una comunità di spettri?
Come stanno insieme i fantasmi? La costruzione assume dunque un aspetto
decisamente diverso, se a portarla avanti sono uomini che vengono dopo.
Individui introversi, soli, animati da una forma quieta e anche muta di
disperazione. Da questa condizione discende l’opera come “stato”, e non
più – finalmente – come prodotto (frutto di un’imposizione): come stato
scavato e ricavato nel presente, scagliato in esso, e non più emesso da
una zona estranea e sterilizzata; come campo di possibilità e punto in
cui precipitano le relazioni umane; come processo vitale. E in quanto
tale dunque una non-forma assolutamente e radicalmente incoerente con
ciò che vediamo attorno a noi, con ciò che è diventata nella stragrande
maggioranza l’arte contemporanea – simulazioni linguistiche.
***
Una generazione è stata deviata dal suo corso, come un fiumiciattolo:
di questo non si può non tenere conto, non si può fare finta che non
sia accaduto – e che invece magari le condizioni generali siano quelle
identiche di trenta o cinquanta anni fa. Nel XXI secolo, la gran parte
degli uomini e delle donne che hanno la mia età sta facendo a livello
professionale qualcosa di diverso – di solito: ciò che ha trovato, per
caso o per fortuna – da quello per cui si è preparato e addestrato negli
anni della formazione e oltre.
Non è detto che sia per forza un male – anche gli scopi e le attività
si stanno infatti ridefinendo, adattandosi alla nuova situazione: la
realtà e il realismo del resto sono pure questo; forse soprattutto
questo – e dunque non si può agire e operare e nemmeno pensare facendo
finta che il contesto sia immutato, facendo finta che ciò di cui parlano
i numeri e le statistiche non abbia un’influenza decisiva sulle
giornate e sui mesi e sulla loro percezioni, su come stiamo costruendo
la nostra esistenza passo passo.
Se il XXI secolo è un fantasma organico (e lo è), esso eleva la
precarietà a struttura fondamentale e permanente della vita. Una
precarietà quindi esperita non più e non solo come tragica umiliazione
collettiva, come paurosa ingiustizia sociale, come origine della
nuova-vecchia disuguaglianza, come linea di demarcazione di un’oscura e
imperscrutabile apartheid (e lo è, eccome se lo è), ma anche come
orizzonte, come sguardo e punto di vista sul mondo.
***
Straccio o broccato,
ogni tessuto è dunque il risultato
di questo stringersi costretti insieme
da un progetto il cui concepimento è dato
solo all’ingegno umano: un matrimonio
che mai in natura potrebbe avere luogo.
Prendete il ragno, poveraccio. Imbroglia.
Il ragno mica tesse, il ragno incolla.
Patrizia Cavalli, Tessere è umano
A cavallo tra il secolo scorso e quello attuale, la cultura sta
subendo una mutazione fondamentale nel suo ruolo, nella sua funzione e
nella sua struttura; è un fenomeno che può essere verificato in Italia e
nell’intero Occidente. Ad essa sempre più – da un trentennio circa a
questa parte – si richiede la conferma di ciò che già sappiamo (o che
presumiamo di sapere), di ciò che ci è stato inculcato una volta per
tutte; si richiede il conformismo, la pacificazione, l’adeguamento. Come
affermano orgogliose oggi persino le riviste di business &
management: “per essere accettati dagli altri, fate finta di essere
felici”.
Nelle retoriche più recenti, sia quelle apertamente neoliberiste sia
quelle (apparentemente) liberali, che si ergono a difesa dei
cari-vecchi-valori, la cultura assume il ruolo di formare i “cittadini
perfetti”: nulla di più falso, se si scava appena sotto la superficie,
dal momento che il ruolo della cultura è proprio quello di far esplodere
le contraddizioni, di articolare un disagio e una critica, di narrare
la ferita e il trauma – inteso esattamente come ferita che torna a
riaprirsi, qualcosa che fa male e che continua a far male.
Finora, non sono riuscito a trovare espressione più brillante e precisa di questo concetto di quella offerta da Harold Bloom ne
Il Canone occidentale:
“I massimi scrittori dell’Occidente sono sovversivi di tutti i valori, i
nostri e i loro propri. (…) Se leggiamo il Canone Occidentale per
plasmare i nostri valori morali, sociali, politici o personali, credo
proprio che diverremo mostri di egoismo e sfruttamento. Leggere al
servizio di qualsivoglia ideologia, a mio parere significa non leggere
affatto. La percezione di possanza estetica ci dà modo di imparare a
parlare con noi stessi e a sopportare noi stessi. Il vero uso di
Shakespeare e di Cervantes, di Omero e di Dante, di Chaucer o di
Rabelais, consiste nell’aumentare la propria crescente interiorità.
Leggere in profondità nell’ambito del Canone non farà di te una persona
migliore o peggiore, un cittadino più utile o più dannoso. Il dialogo
della mente con se stessa non è innanzitutto una realtà sociale. Tutto
ciò che il Canone Occidentale può apportare, consiste nell’adeguato uso
della propria solitudine,quella solitudine la cui forma conclusiva è il
proprio confronto con la propria mortalità”.
Il discorso, che riguarda gli scrittori principali degli ultimi sette
secoli, è valido anche naturalmente per gli artisti visivi. L’arte e la
cultura ci mettono di fronte alla nostra condizione mortale,
rendendocela interpretabile e comprensibile; rendono possibile,
instaurano e costruiscono “il dialogo della mente con se stessa”. Sono,
in definitiva, questo dialogo. Da un certo punto in poi, invece – un
punto che andrà studiato e ristudiato, analizzato, indagato – è scattato
l’equivoco che ha dato la stura a tutti gli altri equivoci: alla
cultura si richiede qualcosa che non le compete. Possiamo chiamarlo
corsa al profitto, decorazione, coltivazione del consenso,
gentrificazione dell’immateriale, ecc.: l’aspetto importante è che in
tutto ciò gradualmente scompare, recede l’umano.
Arte e cultura salvaguardano – sempre meno, sempre peggio – la sana
quota di ribellione, di opposizione, di non-mi-sta-bene. Di non
accettazione delle condizioni, del recinto normativo, delle regole date e
consegnate come se fossero eterne e immutabili. Non si può pacificare
tutto, comporre tutto (al contrario di quello che afferma ostinatamente e
pervicacemente la grande illusione corrente): il conflitto culturale è
la vita.
La simulazione di vita è la morte (al massimo, se proprio vogliamo e ci teniamo, una non-morte).
L’opposizione radicale e l’elaborazione di altri modelli di esistenza è
il compito della cultura. Non c’è contraddizione con la riflessione di
Bloom, perché è “il proprio confronto con la propria mortalità” a
contribuire a questa elaborazione, a incarnare un intero modello di
esistenza. Questo confronto è infatti totalmente incoerente con gli
schemi mentali, operativi, interpretativi che regolano la società
attuale, persino con il sistema di valori complessivo che regola scelte e
comportamenti: è del tutto incompatibile e incommensurabile con essi
(abbastanza alieno, se ci pensiamo, in base agli stupidissimi standard
in voga).
Dunque, la dimensione di un “adeguato uso della propria solitudine” –
l’aumento della propria crescente interiorità – nella sua completa e
assoluta inattualità possiede una enorme carica di nuovo e di inedito. È
uno dei fattori cioè in grado di modellare il tempo che viene, il XXI
secolo; di alterare in profondità l’esistenza di ciascuno di noi,
dilatandola e approfondendola in misura incredibile, parlando non di ciò
che l’arte e la cultura dovrebbero fare su un livello totalmente
ipotetico, e sganciato dalla realtà, vacuo perché prodotto dalla
medesima dissociazione che presume di curare, ma di come esse funzionano
effettivamente in ogni tempo e in ogni luogo.
Christian Caliandro
da
http://www.minimaetmoralia.it/wp/appunti-e-note-sul-xxi-secolo/