16 aprile 2016

TONI SERVILLO RACCONTA NAPOLI


Napoli riletta: intervista a Toni Servillo

di Matteo Cavezzali

A chi non conosceva Napoli, Eduardo De Filippo la descriveva come un teatro che non chiude mai, per cui non si paga il biglietto e il cui palcoscenico sono le strade che la attraversano.
La città partenopea è stata una delle fucine più vitali del teatro e della cultura europea. La sua letteratura, la sua drammaturgia e la sua recitazione sono sempre state segnate da una forte ascendenza popolare che le ha rese alte senza perdere la genuinità.
Walter Benjamin fu profondamente colpito dal “linguaggio mimico” degli abitanti di questa città, di questo teatro senza attori che si svolge alla luce del sole. «A Napoli – scriveva – orecchie, naso, occhi, petto, spalle, sono mezzi espressivi di comunicazione, che vengono messi in relazione dalle dita. Questa suddivisione rientra anche nel loro erotismo sofisticatamente specializzato. Gesti servizievoli e toccatine impazienti sfuggono allo straniero con una regolarità che esclude il caso».
Anche Thomas Mann descriveva i napoletani come una “razza di comici, pericolosi e spassosi”, Goethe coniò nel suo Viaggio in Italia la famosa definizione del “popolo napoletano” come “la più vivace e geniale industria, non per diventare ricchi, ma per vivere senza preoccupazioni”.
Abbiamo parlato di Napoli e del suo teatro con una delle voci più rappresentative della scena teatrale contemporanea: Toni Servillo. L’attore, nato ad Afragola, nell’entroterra napoletano, ha deciso di creare una sua personale antologia della letteratura partenopea in “Toni Servillo legge Napoli”, monologo in cui si intrecciano le parole di Salvatore Di Giacomo, Eduardo de Filippo, Ferdinando Russo, Raffaele Viviani, Mimmo Borrelli, Enzo Moscato, Maurizio De Giovanni, Giuseppe Montesano, Michele Sovente e del conte Antonio De Curtis ovvero Totò.
Napoli ha avuto un ruolo centrale nella cultura italiana, quale crede che sia la peculiarità della scrittura teatrale napoletana?
Innanzitutto la lingua, che di questa Città-Mondo è il segno più antico. Le mie radici sono ben ancorate al patrimonio di questa città che è stata ed è tuttora una capitale delle arti dello spettacolo in Europa e nel mondo.
Napoli è tra le poche metropoli che pur presentando un esperimento sociale tra il centro e la periferia degno delle grandi città del mondo, resta un luogo dove la modernità nei suoi aspetti deteriori non è arrivata del tutto, dove, quando si passeggia, si incontra l’uomo. E questo per chi fa teatro è fondamentale.
De Filippo è uno dei drammaturghi più importanti del ‘900, come ha saputo creare un teatro che fosse sia colto che popolare?
Eduardo è il più straordinario e forse l’ultimo rappresentante di una drammaturgia contemporanea popolare, dopo di lui il prevalere dell’aspetto formale ha allontanato sempre più il teatro da una dimensione autenticamente popolare.
È l’autore italiano che con maggior efficacia, all’interno del suo meccanismo drammaturgico, favorisce l’incontro e non la separazione tra testo e messa in scena. Affrontare le sue opere significa insinuarsi in quell’equilibrio instabile tra scrittura e oralità che rende ambiguo e sempre sorprendente il suo teatro. Il profondo spazio silenzioso che c’è fra il testo, gli interpreti ed il pubblico va riempito di senso sera per sera sul palcoscenico, replica dopo replica.
Viviani è considerato il più ruvido degli autori italiani: cos’era la strada per Viviani?
Per Viviani la strada coincide per il palcoscenico. Lo si può evincere anche da alcuni titoli della sua produzione drammatica. La strada si può considerare come un teatro all’aperto in cui il popolo forma un vero e proprio coro.
Lei è cresciuto respirando i classici del teatro partenopeo, come hanno influenzato la sua decisione di fare l’attore nella vita?
Sono cresciuto in una famiglia di spettatori e di grandi appassionati di teatro e di musica che mi hanno trasmesso questa passione. Ricordo con grande emozione le prime commedie di Eduardo De Filippo viste, con i miei genitori ed i miei fratelli, in teatro ed alla televisione. Ho cominciato nella seconda metà degli anni Settanta, ancora da studente , insieme ad altri coetanei, in una piccola città come Caserta, e non mi sono mai più fermato.
Ripeto spesso che per me il teatro è concretezza: costringe chi lo pratica a mettersi a nudo davanti a se stesso, a confrontarsi con i desideri e le frustrazioni, le ambizioni e le sconfitte. Un esercizio che ogni giorno porta la sua pena e la sua gioia.
Dei testi che ha scelto per questo spettacolo quale è quello a cui è più legato?
A tutti. Senza, per questo, esprimere una preferenza posso però rivelarle che recito Litoranea,  tagliente riflessione sulle contraddizioni e sul degrado di Napoli di Enzo Moscato, ininterrottamente dal 1991, quando costituiva il monologo finale di Rasoi, spettacolo-manifesto della prima fase di attività di Teatri Uniti, che ho diretto con Mario Martone.
Quale di questi autori deve, secondo lei, essere ancora pienamente riscoperto dal teatro contemporaneo?
Fra gli autori drammatici, al di là dei contemporanei il cui lavoro è ancora in corso, senz’altro Raffaele Viviani è ancora un mondo da esplorare. Fra i più interessanti motivi di questa serata c’è anche quello di diffondere l’opera di un poeta assolutamente poco conosciuto come Michele Sovente, con cui concludo la sequenza dei brani con una lirica, in napoletano e in italiano che esemplifica perfettamente il senso di “Toni Servillo legge Napoli”.

Da  sabato, 16 aprile 2016

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