Giuseppe Pitrè: “nella storia del paganesimo è la storia dell’uomo”
Amelia Crisantino
Nell’aprile del 1916 moriva a Palermo
Giuseppe Pitrè, grande indagatore della cultura popolare siciliana, ma
il secolo trascorso da allora non è bastato a riappacificarsi con la sua
figura e nemmeno con la sua opera.
Pitrè è stato onorato nelle
dichiarazioni d’intenti e poi ignorato, per opposti motivi. Dai
difensori dei molteplici primati isolani perché non abbastanza
allineato, dagli altri per certe ingenuità: soprattutto perché l’amore
per la cultura popolare gli aveva fatto prendere qualche cantonata. E
nessuno gli ha perdonato di avere trasformato il prototipo del mafioso
in una via di mezzo fra il guappo e il paladino, fornendo così
un’autorevole definizione minimizzante a molti pretesi seguaci in
malafede. Ma scontentare tutti era un po’ il suo destino.
Nella vita e nelle opere Giuseppe Pitrè
era un outsider, un irregolare con la vocazione del ricercatore. Nel
1871 pubblicava il primo volume della “Biblioteca popolare siciliana”,
che nel 1913 avrebbe raggiunto i venticinque volumi: era un giovane
medico, di sé scriveva: “il bisogno della vita mi stringe e costringe al
letto dell’ammalato. Lavoro, un poco scontento di me e degli uomini”.
A vent’anni era stato un garibaldino
fiducioso nel progresso, col tempo era divenuto un liberale
conservatore. Nel frattempo aveva però scoperto il patrimonio delle
tradizioni popolari, e con grande fervore s’era dedicato alla
“demopsicologia”. La nuova scienza da lui stesso battezzata doveva
studiare la psicologia del popolo, e come ogni psicologia che si
rispetti necessitava di un paziente lavoro di scavo: bisognava fare in
fretta, prima che l’accelerato scorrere del tempo cancellasse ogni
traccia. L’operoso medico-demopsicologo era sorretto da una formidabile
capacità di lavoro, anche la carrozza che lo portava dai suoi pazienti
era ingombra di fogli e taccuini: c’era sempre un libro a cui stava
lavorando, sempre incalzato dall’urgenza di registrare la cultura
popolare prima che svanisse. Inseguiva il tesoro di una profonda
saggezza antica ma, come accade quando si va alla ricerca
dell’inconscio, non sempre quanto emergeva era in linea con le attese.
Così, nel 1875, il primo volume delle Fiabe, novelle e racconti
veniva stroncato dalla «Gazzetta di Palermo» che accusava il
medico-scrittore di avere pubblicato delle porcherie, e rispettabili
clienti gli chiedevano come mai si fosse persuaso a diffondere pagine
tanto imbarazzanti: la cultura popolare aveva assunto una valenza
addirittura politica, nello Stato da poco compiuto la Sicilia era già
un’emergenza. E di lì a poco sarebbero sbarcati a Palermo Leopoldo
Franchetti e Sidney Sonnino, pronti a indagare le radici storico-sociali
della violenza diffusa e della mafia.
Per tutta la vita, libro dopo libro,
Giuseppe Pitrè edifica un malinconico monumento al popolo siciliano
mentre sperimenta un sentimento di precarietà che lo avvicina alla coeva
cultura europea. Cerca la voce del popolo, deciso a registrarla con
scrupolosa fedeltà, e oggi i vasti continenti da lui delineati ci si
mostrano come il più contraddittorio, a volte confuso ma sempre
veritiero ritratto di tutta un’epoca. Dal canto suo, Pitrè è tanto
sincero da rendere visibile anche il proprio smarrimento. Nel 1913, dopo
più di mezzo secolo trascorso a esplorare il patrimonio folklorico,
riflette sui detriti mitologici e le superstizioni sopravvissute alla
notte dei tempi e nella Sintesi delle tradizioni del popolo siciliano scrive: “siamo in pieno paganesimo… nella storia del paganesimo è la storia dell’uomo”.
http://www.lidentitadiclio.com/giuseppe-pitre-nella-storia-del-paganesimo-e-la-storia-delluomo/
Nessun commento:
Posta un commento