01 aprile 2016

MAHMOUD DARWISH NELLA TERRA DI NESSUNO


In questo blog abbiamo già parlato del poeta palestinese Mahmoud Darwish. Oggi torniamo a farlo con la recensione di un libro che raccoglie alcuni dei suoi ultimi testi in traduzione italiana.

La mappa dell’Io nella terra di nessuno

Massimo Raffaeli

L’identità è l’antipode dell’alterità, tanto la prima corrisponde a certezza e clausura quanto la seconda, invece, a dubbio e apertura.
La lezione che ci viene dall’opera di Mahmoud Darwish (1941 – 2008), che sembra meteoritica nella sua retrospettiva, è appunto la critica in atto degli automatismi identitari e nel frattempo una ricezione (che impone crisi, eterno riposizionamento) della parola alternativa allo stato di quiete, alla buona coscienza in cui sempre vorrebbe riposare chi sta prendendo quella parola medesima.
Fra i massimi poeti del nostro tempo, Darwish non è un poeta lirico se non per convenzione perché di fatto è un poeta epico pure se, paradossalmente, lo è proprio quando dice «io». Perché il suo «io» non è banalmente un «noi» (pronome che segnala la presunzione di una coralità o un mandato sociale più o meno burocratico) ma semmai è un Io/Tu di continuo reversibile, un atto di permuta e scambio della parola, un gesto dialogico di disseminazione e, dunque, non può essere che il rigetto di una voce monologica che pretenda di scolpire verità nel bronzo perenne di cui dissero i classici.
Lo conferma, nella sua fragilità di opera esile e postuma, messa insieme dalla pietas degli amici, Il giocatore d’azzardo (Mesogea, «La piccola», pp. 115, euro 12) che comprende sei poemetti databili fra il 2000 e il 2008, per lo più compiuti ma non raccolti in volume, e che ora esce nel nitido doppiaggio dall’arabo di Ramona Ciucani firmataria anche della postfazione.
Quando scrive in punto di morte questi che segnano un apice della sua parabola, Mahmoud Darwish è da tempo nel senso comune Darwish, vale a dire un ex dirigente dell’Olp, un ex esule tra Francia e Tunisia dopo le stragi in Libano nel 1982, un palestinese di fatto apolide e sans papier in Israele, il bardo di un popolo in cattività sottoposto a spoliazione come ad una pluridecennale occupazione militare.
Ma la grande poesia di Darwish, e Il giocatore d’azzardo ne è estrema riprova, nasce da un ripensamento (non da una abiura, beninteso) del suo percorso politico-intellettuale e dal superamento della logica di Amico/Nemico nella quale e fatalmente egli si era formato. E disse, in una intervista: «Ho costruito la mia patria. Ho anche formato il mio stato, nella mia lingua». Ma fatto sta che la sua lingua è polifonica, accogliente e inclusiva, perché asseconda una perpetua dualità di qui e altrove, di prima e dopo, nello stesso momento in cui, e ancora una volta, Io e Tu (gli eterni Amico e Nemico) si guardano e però sono costretti a vedersi, infine a riconoscersi come esseri umani senza ulteriori aggettivi. (Leggendo i poemetti de Il giocatore d’azzardo può venire in mente, infatti, un fratello spirituale di Darwish, quel Ghassan Kanafani che scrisse Ritorno ad Haifa – Edizioni Lavoro 2003 – una autentica gemma narrativa e insieme una eversione della metafisica identitaria che tuttora avalla il regime che imprigiona e perseguita il popolo palestinese).
Nel suo stormire di immagini, di invenzioni metaforiche e allegoriche, nella sua scatenata polifonia, Darwish vuol dirci insomma che la verità degli esseri umani compare nello stato di spoliazione, nella condizione arresa della semplicità e della essenzialità, la sola che possa giustificare l’atto di prendere la parola e poter davvero dire «io». Scrive Ramona Ciucani: «La poesia diviene specchio per riflettere ed esplorare la complessità dell’animo umano, le debolezze e fragilità, ma anche le potenzialità offerte dall’apertura al diverso da sé».
Prima che un’uscita da sé (dalle certezze e dalle sicurezze di una storia personale, fosse la più esemplare) per Darwish la poesia è una offerta, è lo slancio della parola in una terra di nessuno che proprio per questo può essere di tutti. Nel quarto dei poemetti, Alla stazione di un treno caduto dalla mappa, è scritto, e pare una dichiarazione di poetica: «La vita è ovvia. Le nostre case, come i nostri cuori, sono porte aperte». Ma nel poemetto che dà il titolo al volume, e sembra stavolta un testamento o un sigillo di pura humanitas, c’è questa invocazione: «Amore, cosa sei? Quanti tu sei o non sei?»

Manifesto, 1 aprile 2016

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