IL TERZO SGUARDO
di Giuseppe Panella*
«Ciò che forse non è stato capito dai
contemporanei è che in Pavese, come del resto in Adriano Olivetti,
benché in tutt’altro modo, era sempre presente e nel fondo,
misteriosamente operante, un sentimento religioso che lo rendeva
estraneo allo storicismo “laicistico” allora dominante e lo spingeva
invece allo studio dei grandi miti, archetipi strutturali, racconti
metastorici, risposte criptiche alle pulsioni profonde che costituiscono
l’uomo in società. Vico e Frazer al posto di Hegel, per non parlare dei
suoi garruli italici nipotini. Ricordo come se fosse ieri che provammo
un sommesso divertimento nel riuscire a far passare sotto il naso del
crociano-marxista Ernesto de Martino il libro antropologico- strutturale
di Theeodor Reik da me tradotto» (p. 49)1.
Franco Ferrarotti, giunto alla soglia
dei novanta anni, rievoca, con passione e accoratezza, la passata e
condivisa amicizia con Cesare Pavese. In un libro breve ma denso e tutto
concentrato sui fatti, il sociologo vercellese racconta del suo
incontro con lo scrittore di Santo Stefano Belbo, del loro rapporto di
confronto produttivo e qualche volta di scontro, della loro
corrispondenza e del loro ritrovarsi a ogni snodo della loro vita (fino
all’interruzione brusca ma non imprevedibile legata al suicidio di
Pavese). Pavese emerge come “un uomo complesso e privato”, con un
interesse serrato e vibrante per la dimensione mitopoietica della vita
umana, delle origini della coscienza, del senso ultimo e profondo della
vita. – una dimensione astorica che urtava con i convincimenti più forti
dell’ambiente culturale in cui egli vive e da cui traeva linfa. La sua
fama di “eterno adolescente” affibbiatogli dalla critica letteraria
italiana (in ultimo in un saggio pur importante come quello di Cesare
Segre che costituisce la sua introduzione all’ultima edizione di Il mestiere di vivere2) ha continuato da sempre a perseguitarlo.
In questo suo testo (che oscilla tra
l’autobiografico e il saggistico), Ferrarotti racconta le sue
passeggiate con Pavese durante la guerra, i propri rapporti con lo
scrittore nell’ambito della redazione della Casa Editrice Einaudi, la
sua vita di studioso di sociologia in un ambito (quello accademico) che
di una disciplina come la sua non voleva ancora saperne, i suoi viaggi, i
suoi traslochi, e sue ambizioni del tempo. Ferrarotti si narra e
descrive la sua vita da young man in pagine molto ricche del pathos
della distanza: la sua vita scorre nelle sue pagine insieme alla
narrazione del suo rapporto con Pavese e l’una vita vissuta fa da
controcanto all’altra.
«Con Pavese, il 1949 fu per me,
giovanotto di poche speranze, cagionevole di salute e a malapena
sopravvissuto alla guerra civile, un anno a dir poco glorioso. Lavoravo e
traducevo su tre tavoli, corrispondenti a tre autori diversi: Thorstein
Veblen, Theodore Reik, Howard Fast. In quell’anno sarebbero usciti da
Einaudi i tre libri: La teoria della classe agiata; Il rito religioso. Studi psicoanalitici; Sciopero a Clarkton.
Pavese non mi perdeva d’occhio. Per lui si preparava a Roma l’apoteosi
del Premio Strega l’anno dopo, il 1950. Ma io sapevo, o presentivo, che
non si dà momento glorioso o anche solo euforico e vitale che non sia
poi, a breve termine, seguito dal disastro, a guisa di un necessario
contrappasso per ristabilire l’equilibrio esistenziale, come se gli
umani non fossero in grado di reggere uno stato di beatitudine senza
rischiare l’ebetudine» (p. 89).
Così Pavese, il più grande scrittore
della sua generazione affronta il proprio destino di morte che giungerà
di lì a poco, dopo il successo conseguito. Si affaccia sulla porta della
morte, che è il più grande mistero dopo quello della nascita. Lo
scrittore langhigiano si uccide per una delusione amorosa dimostrando
così la sua immaturità sessuale (un fiasco, per dirla con Stendhal e come dichiara lo stesso Ferrarotti citando Armance e Souvenirs d’égotisme)
e soprattutto intellettuale: è la vulgata cui sembra aderire anche
Segre. Ma è una versione eccessivamente psicologistica, secondo
Ferrarotti (come quella del “contadino inurbato” che ha difficoltà ad
aderire allo stile di vita della grande città e vuole ritornare, perciò,
ai “paesi suoi”). Il turbamento di Pavese non è solo esistenziale e non
si verifica solo in relazione alla fallita relazione amorosa con
l’attrice Constance Dowling (anch’essa poi morta in circostanze mai
chiarite, pare anch’essa suicida).
Per il sociologo vercellese, lo
scrittore suo amico è morto per un disagio fortissimo alla vita che non
aveva soltanto radici psicologiche (o psicofisiche):
«Pavese teneva viva la fede
nell’irrazionale. I marxisti non potevano sopportarlo. Credevano nella
“razionalità razionalistica”, pietrificata, dogmatica. Dimidiavano gli
esseri umani asportando loro la facoltà immaginativa, il senso del
mistero. Il grido del Cristo in croce, preso nei tormenti dell’agonia –
“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” – è una domanda estrema,
umana, semplicemente e forse troppo umana, in cui si concentra la
consapevolezza tragica di fronte alla morte, e destinata a restare senza
risposta. Pavese non si dava per vinto. Testardamente cercava la
risposta nei grandi miti della classicità antica» (pp. 111-112).
Per Ferrarotti, la ricerca umana e
letteraria di Pavese è tutta confitta in questa ricerca ansiosa,
accanita, spesso felice, talvolta soggetta a smacchi. Il suo libro di
memorie getta una luce radente sulla figura tormentata dello scrittore e
consegna ai suoi lettori l’immagine di un periodo fervido anche pieno
di contraddizioni della cultura italiana. In esso personaggi come
Pavese, Calvino, Fenoglio e Natalia Ginzburg trovano il posto che
meritano ancora oggi e lo stesso Ferrarotti si rivela un personaggio di
primaria importanza nello svecchiamento della cultura accademica (e non
solo) dell’Italia del dopoguerra. Ma Pavese, oltre che uno dei migliori
scrittori della sua generazione, fu un amico e un maestro, un importante
punto di riferimento per il futuro sociologo, storico e maestro di
cultura umanistica.
NOTE
1 Il saggio di Theodor Reik tradotto da Ferrarotti è Il rito religioso
e uscì da Einaudi nel 1949. E’ un testo di ispirazione psicoanalitica
più legato alla metapsicologia che alla storia delle religioni. Sul
rapporto di collaborazione che spesso rischiava di diventare
conflittuale, cfr. C. PAVESE– E. DE MARTINO, La collana viola. Lettere 1945-1950, a cura di P. Angelini, Torino, Bollati Boringhieri, 1991.
2 L’edizione del diario di Pavese cui Ferrarotti fa riferimento è C. PAVESE, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, a cura di M. Guglielminetti e L. Nay, introduzione di C. Segre, Torino, Einaudi, 2014.
Recensione tratta da: https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/
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