Un libro interpreta il
mondo greco attraverso il suo legame con il Mediterraneo. Un rapporto
esistenziale profondissimo di cui la poesia a partire da Omero e il
mito hanno lasciato un ricordo indelebile.
Giorgio
Montefoschi
Una civiltà fondata sul mare
Gli antichi greci —
scrive Edith Hall, professoressa di Lettere classiche al King’s
College di Londra, nel suo bel libro intitolato per l’appunto Gli
antichi greci (Einaudi) — quasi mai si insediavano a più di
quaranta chilometri dal mare (vale a dire, una giornata di cammino);
e i viaggi per mare erano intimamente legati al senso della loro
identità. Ma il mare — l’Egeo meraviglioso, azzurro cupo e
azzurro smagliante, profumato di iodio e di salsedine, nonché
dell’inconfondibile aroma delle erbe selvatiche e dei pini che il
vento sospinge da terra e arriva miracolosamente fino a dove la terra
scompare — non era soltanto il luogo della conoscenza e della
conquista: era, nel medesimo tempo, il luogo nel quale i guerrieri e
i poeti, i re e i contadini che lo contemplavano piantando la vigna e
l’ulivo, si abbandonavano alla riflessione.
Anòixis, l’antica
parola greca sopravvissuta nel linguaggio moderno per indicare la
stagione della primavera (la stagione che apre l’anno), ha diversi
significati e può anche indicare sia il momento in cui una nave
naviga in lontananza, e segue la sua rotta in mare aperto, sia il
momento in cui la mente umana afferra e comprende pienamente per la
prima volta un’idea.
Gli eroi della mitologia
greca erano provetti nuotatori e tuffatori straordinari. Durante il
suo viaggio a Creta uno dei loro antesignani, Teseo — figlio di
Poseidone e fondatore della democrazia ateniese — accogliendo la
sfida di immergersi nei flutti per recuperare l’anello di Minosse,
lo aveva dimostrato fra i primi. Secondo Tucidide, Minosse «fu il
più antico di coloro che conosciamo attraverso la tradizione a
possedere una flotta ed avere il controllo della maggior parte del
mare oggi chiamato greco, ottenne il dominio delle Cicladi e fu il
primo colonizzatore della maggior parte di esse». Con ogni
probabilità, la storia greca inizia quando gli uomini di mare
micenei fecero vela verso sud e irruppero nella civiltà di quel
popolo misterioso — amante del lusso e delle geometrie, della danza
e del vino — e, da Creta, diventarono loro i padroni del mare.
Nell’VIII secolo a.C.,
l’epoca alla quale appartengono i lunghi poemi attribuiti a
Esiodo e Omero che a memoria venivano recitati nelle cerimonie
festive e i naviganti portavano con sé ovunque andassero, i Micenei,
come prima era accaduto ai Minoici, erano scomparsi da moltissimo
tempo: inghiottiti in un vero e proprio abisso. Di questi antenati
valorosi e crudeli, irosi e saggi, spesso imparentati con gli dèi, i
greci dell’età arcaica sapevano ben poco, oltre al fatto che
avevano goduto di regni e ricchezze invidiabili, e che i loro re
abitavano in grandi palazzi difesi da mura possenti. Che il mare
fosse al centro della loro esistenza era, tuttavia, evidente.
Se l’Iliade si
apre con l’indimenticabile scena nella quale Achille,
corrucciato e piangente per il torto subito da Agamennone, sulla
«riva del mare spumoso» guarda la «distesa infinita» e prega sua
madre Teti di venire a vendicarlo — lei viene, sale dalle
profondità marine, gli si siede accanto, lo sfiora con la mano e gli
chiede: «Figlio, perché piangi? Quale dolore t’è entrato nel
cuore?»: la traduzione è quella, splendida, di Giovanni Cerri
(Rizzoli) —, l’Odissea è l’archetipo del viaggio per mare e
«Ulisse il marinaio», come scrive Edith Hall, «è l’incarnazione
mitica di tutti i greci in carne ed ossa che, in età arcaica,
navigarono con le loro navi in acque sconosciute, attraverso il
Mediterraneo e il Mar Nero, alla ricerca di nuove terre e avventure».
La sua dimestichezza con
la vita marinara che, dopo il ritorno a Itaca e le successive
peregrinazioni, lo accoglierà con una «dolce morte», è
testimoniata ad ogni passo: Ulisse è un maestro d’ascia capace di
costruire in soli quattro giorni (dall’abbattimento degli alberi
alla cucitura delle vele) la zattera con la quale abbandonerà
l’isola della ninfa Calypso; regola sugli astri le rotte; naufrago,
riesce a resistere con la sua propria forza alla tempesta che lo
porterà nell’isola dei Feaci.
Prima di partire, già
allora e nei secoli successivi, verso nuovi lidi da colonizzare, e
l’ignoto, i greci — che Platone definisce nel Fedone «come
formiche o rane intorno a uno stagno» — si recavano a Delo,
l’isoletta delle Cicladi, a consultare l’oracolo di Apollo.
Quindi slegavano le corde, riempivano le stive, scioglievano le vele,
mettevano mano al remo. Le navi erano grandi, e molto ben fatte. Per
muoverle, se il vento non era propizio, occorrevano numerosi
vogatori. Perché li aiutassero a mantenere il ritmo mentre remavano,
gli antichi marinai greci impiegavano i musicisti.
Il suono penetrante e
lamentoso degli strumenti a fiato attirava i delfini. «O navi
gloriose che alla voga/di remi senza numero/passaste un giorno a
Troia», cantano nel primo stasimo dell’Elettra di Euripide le
giovani contadine di Argo,«conducendo le danze/con le Nereidi in
gara,/mentre il delfino al suono/del flauto che lo ammalia,/balzava
intorno ai nereggianti sproni/delle prore cerulee,/e torcendosi in
arco/segnava con le sue volute il corso/ad Achille di Tetide,/piede
leggero al salto...» (la traduzione è di Carlo Diano).
I delfini — associati
al culto di Dioniso, che nel mito arrivava per mare, a volte su una
nave sulla quale pendevano i grappoli dell’uva, accompagnata da
delfini — non si limitavano a partecipare con i loro balzi festosi,
i loro tuffi e le loro capriole, a quella ebbrezza sconvolgente
creata dalla dolcezza della musica, dal vigore delle braccia, dalle
spume bianche sulla cresta delle onde. Erano amici dell’uomo e,
come mostrano le monete di numerose città sia della Grecia
continentale che di quella insulare nelle quali sono effigiati uomini
a cavallo di delfini, correvano a salvarli prima che annegassero.
Appena toccavano la riva
di una nuova isola o un nuovo lembo finora inesplorato di costa,
gli antichi marinai greci, dopo aver messo in sicurezza la nave,
trasportavano a terra le vettovaglie, sacrificavano agli dèi, e
organizzavano il simposio: accendevano un grande fuoco attorno al
quale stendevano dei morbidi panni, uccidevano e arrostivano un
animale, scacciavano i timori e le ansie che li avevano tormentati
durante la traversata lasciandosi invadere — su quelle spiagge
deserte, in quei piccoli golfi silenziosi sotto i monti — dalla
gioia incontrollata del vino. Di lì, la mattina seguente, sarebbero
partiti per spingersi oltre; scegliere il posto giusto nel quale
edificare una città con un porto protetto dai venti, i magazzini per
le merci, un tempio, un teatro.
Il Corriere della sera –
17 marzo 2016
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