16 aprile 2016

L' INCANTO SPEZZATO



Giso Amendola

L’incanto spezzato della dialettica


Crea uno strano effetto avere oggi a disposizione in traduzione, grazie alla preziosa cura editoriale di Emilia Marra, un libro importante come l’Hegel ou Spinoza di Pierre Macherey, uscito nel 1979, quasi come ultimo frutto di lotte teoriche le cui coordinate sono oggi decisamente inattuali (Hegel o Spinoza, ombre corte, euro 19). Ma un testo teoricamente densissimo continua evidentemente a porre questioni, anche se probabilmente in direzioni molto diverse da quelle all’interno delle quali era nato.

Nella premessa all’edizione italiana, Macherey indica subito al lettore questo sfasamento temporale, almeno dal punto di vista del clima generale dell’epoca: scritto quando la trasformazione radicale dell’esistente sembrava ancora un ovvio terreno di impegno per la teoria, il libro incontra oggi lettori per cui la rivoluzione non sembra essere all’ordine del giorno, o, almeno, non allo stesso modo. E certo questo cambia il tipo di lettura che il testo riceve. Probabilmente, però, non si tratta solo della temperatura più o meno calda dell’epoca, parametro poi sempre piuttosto discutibile. Quello che davvero fa la differenza, è il fatto che il libro è concepito quasi come una mossa strategica compiuta all’interno di una serie di battaglie filosofiche molto precise.

La forza dell’astrazione

Ricostruiamo allora il campo in cui Hegel o Spinoza si collocava: Macherey veniva dal lavoro in comune con Louis Althusser che aveva portato al Lire le Capital, e alcune questioni lì aperte si andavano riproponendo e radicalizzando. Soprattutto, rimane in primo piano l’obiettivo principale di portare la «lotta di classe nella teoria», stabilendo un nuovo rapporto tra pratica teorica e pratica politica. Su questo versante, il testo di Macherey è un esempio magistrale di lotta «dentro» la filosofia: una modalità di affrontare i grandi classici calandoli in un preciso campo di battaglia teorico.

Leggere i testi per quello che dicono e per quello che non dicono, nei loro buchi, nei loro silenzi e nei loro errori, secondo un altro evidente apporto althusseriano, quello della lettura «sintomatica»: in questo, l’incrocio delle interpretazioni, l’inseguimento delle forzature e dei veri e propri imbrogli che Hegel gioca con il testo spinoziano, offrono un’immagine affascinante di lotta nella teoria. Certo, il prezzo da pagare è un apparente retrocedere della storia sullo sfondo: ma proprio la forza dell’astrazione mette in luce l’importanza cruciale di queste battaglie concettuali.

E la posta in gioco in realtà è altissima, e politicamente assai concreta: anch’essa legata evidentemente a un preciso snodo del progetto althusseriano. Si tratta di far saltare tutto quel che aveva sempre ricondotto ad una sintesi pacificata il conflitto dialettico, tutto quanto aveva trasportato la dialettica nei cieli dell’«Assoluto» idealistico, eliminando proprio quel «negativo» motore del processo e relegandolo ad una semplice «stazione» della riconquista del perfetto coincidere dell’origine con se stessa. L’obiettivo fondamentale è farla finita con il finalismo già iscritto da sempre nella dialettica idealistica: solo liberando la storia dalla teleologia si libererà il pensiero dall’incantesimo idealistico e lo restituirà alla lotta di classe.

In gioco, ovviamente, c’era la separazione di Marx da Hegel, dalla filosofia della storia, dalla dialettica idealistica, e la rivendicazione del Marx del «Capitale», il passaggio a una dialettica materialista, la rottura con lo storicismo. La perfetta macchina filologica, ma nel segno di una filologia che funziona come arma di lotta, messa a punto da Macherey con questo testo, si inserisce in uno snodo successivo di questa battaglia: quando la rivendicazione althusseriana del Marx maturo contro il Marx «idealista» incontrerà finalmente lo spinozismo. Per la riflessione ultima di Althusser, è la scoperta della corrente sotterranea del materialismo aleatorio e dell’atomismo: nel testo di Macherey, questa conquista si traduce nell’immagine di uno Spinoza che offre una resistenza anticipata al rapimento idealistico della dialettica operato da Hegel.

Discesa verso l’evanescenza

Hegel non può evitare la forza di questa resistenza, l’unica a portare la sfida direttamente all’origine, al problema del cominciamento filosofico, o, in termini hegeliani, del fondamento. E proprio perché non può ignorare la resistenza di Spinoza, deve falsificarla, occultarne i passaggi critici, inventarne di sana pianta altri.

Nasce così la fin troppo celebre immagine dello Spinoza «orientale»: la sostanza spinoziana è rappresentata come un assoluto senza capacità di articolazione, «una rigida immobilità», come Hegel scrive nelle Lezioni sulla storia della filosofia, «la cui unica operazione è di spogliare ogni cosa dalla sua determinazione, della sua particolarità, e ricacciarla nell’unica sostanza assoluta, dove non fa che dileguarsi». Ma, per sostenere questa famigerata tesi sull’«acosmismo» spinoziano, Hegel deve forzare all’inverosimile il sistema, e Macherey, fedele al metodo della lettura sintomatica, illustra gli «errori» palesi che deve commettere.

Così, Hegel costretto a rappresentare il processo di espressione della sostanza negli attributi e nei modi come un processo di progressiva degradazione, fin quasi a farne una sorta di «discesa» neoplatonica verso l’evanescenza, verso il caos di una finitudine abbandonata a una negatività senza possibilità di ritorno e di riscatto. O più precisamente: proprio perché gli attributi restano «esterni» alla sostanza, si riducono a una sorta di semplici punti di vista formali sulla sostanza stessa. A una sostanza chiusa nel suo assoluto isolamento, corrisponderebbe allora un’opposizione formale e astratta di realtà e pensiero. Il monismo di Spinoza, secondo Hegel, si rovescerebbe così nell’accettazione del dualismo di Cartesio. È quella che, con grande efficacia, Macherey definisce come «interpretazione negativista» di Spinoza.

Tutto è però troppo lineare in questo Spinoza hegeliano: a partire dalla «processione» dalla sostanza agli attributi che si presenta come un rapporto discendente e privativo dall’assoluto ad una realtà umbratile che si «determina» solo per separazione e negazione. Ma per costruire quest’immagine tutta ricalcata sulla caduta, Hegel deve cancellare ogni dismisura del pensiero spinoziano: deve cioè letteralmente far fuori ogni riferimento al conatus.

Proprio attraverso il conatus, la sostanza come potenza è e resta tutta presente in ciascuno dei modi, la determinazione qui è tutta nell’affermazione della potenza, ben lungi dall’immagine evanescente del «negativismo» dell’interpretazione hegeliana. Ma per il conatus non può esservi posto nella lettura di Hegel, proprio perché non può esservi posto per l’affermazione.

La negazione assoluta

La determinazione affermativa, la potenza del conatus, costituiscono appunto il vero nucleo forte della resistenza anticipata alla riconciliazione dialettica verso cui muove Hegel: è invece la negazione assoluta, la «negazione della negazione» che dovrebbe, per Hegel, salvare la realtà dallo scivolare verso il nulla. Sono negando dialetticamente se stessa, la realtà assume autentica consistenza. O, in altri termini: la sostanza acquista movimento e si salva dal decadere a fantasma solo se, autonegandosi, ritorna a sé come Soggetto. È la trappola hegeliana: occultare l’affermazione, la positività, l’immanenza tra ordine del finito e ordine dell’infinito, insomma tutta la vera lezione spinoziana, per affermare la dialettica idealistica del «Soggetto» quale negazione della negazione.

La sostanza è soggetto, esiste solo in quanto coscienza di sé, solo in quanto tutta finalisticamente già orientata al movimento verso la coscienza: ed è proprio tutto questo che Spinoza rifiuta in anticipo. Non c’è negazione della negazione, e non c’è soggetto, il quale, scrive significativamente Macherey, è solo un altro nome della negazione che ritorna su di sé. Non c’è, per Spinoza, nessuna necessità che la sostanza si muova verso il soggetto. La vita della sostanza si esprime fuori dall’orientamento teleologico alla coscienza o al soggetto: «applicando la nozione di conatus alle essenze singolari, Spinoza elimina la concezione di un soggetto intenzionale, che non è appropriato né per rappresentare l’infinità assoluta della sostanza, né per comprendere come essa si esprima nelle determinazioni finite». Questo non significa – può concludere Macherey – che non vi sia dialettica. Si apre, anzi, la possibilità di una dialettica materialista: nessun finalismo, nessuna contraddizione autorisolventesi, ma lotta aperta tra forze e tendenze, senza nessuna conclusione garantita.

Le determinazioni finite

La dialettica idealistica è finalmente spezzata: una rottura che avviene, in questa impresa potentemente liberatoria messa in piedi da Macherey, nel segno di una felice conquista di una dinamica aperta, aleatoria, secondo il tracciato di Althusser.

Letto oggi il libro apre altri interrogativi, percorsi diversi. La distruzione della teleologia è sacrosanta: ma il conatus delle esistenze singolari ci parla non solo dell’incontro/scontro di forze e tendenze, ma in modo sempre più marcato dell’apertura del campo della produzione di soggettività. Oltre il Soggetto, senza nostalgia per la «coscienza di sé», ma anche oltre quel «processo senza soggetto» attorno al quale sembra ancora girare la pur straordinaria macchina montata da Macherey.

Macherey si tiene, infatti, piuttosto lontano dallo spingere la resistenza spinoziana su strade pienamente affermative e produttive: costruisce, per esempio, un gioco di specchi, un po’ troppo scopertamente simmetrico, tra l’interpretazione «negativista» hegeliana e quella «positivista» di Deleuze, per rigettarle simultaneamente. Ma il libro, appunto, arrivò come ultimo frutto di uno straordinario tentativo di liberarsi dalla cattiva dialettica, dall’orrore di un marxismo sequestrato dal «Dia-Mat». Oggi, per un verso, i morti hanno seppellito i morti, e possiamo finalmente occuparci d’altro. E, per altro verso, è lo stesso dispiegarsi della sussunzione reale, è lo stesso capitalismo contemporaneo che mobilita e attraversa la produzione di soggettività e sfrutta direttamente la cooperazione sociale.

Rotto ogni incanto finalistico e dialettico, è quindi proprio nel cuore di un’ontologia produttiva che ci troviamo già completamente collocati. Lo Spinoza della dialettica materialista e dell’aleatorio ci liberò dagli incubi peggiori, e aprì lo spazio del conflitto e della lotta senza false promesse per l’indomani e catture dialettiche: lo Spinoza della gioia della produzione e della pienezza ontologica ci può accompagnare a riappropriarci di autonomia e di democrazia assoluta nell’oggi.


il manifesto – 15 aprile 2016

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