Shakespeare 400. Ancora nella Tempesta
di Graziano GrazianiNel quinto atto del «La Tempesta» il mago Prospero, giunto alla conclusione della sua macchinazione che lo porterà a suon di incantesimi a riottenere il ducato di Milano e far sposare la sua Miranda con il figlio del Re di Napoli, decide di abbandonare la magia. Spezza la verga con cui dà ordini agli spiriti e sotterra il suo amato libro degli incantesimi.
Con un’assonanza abbastanza semplice, diversi studiosi hanno voluto vedere in questo monologo l’addio di William Shakespeare al teatro. «La Tempesta» è infatti l’ultima opera del drammaturgo inglese, andata in scena per la prima volta la notte di Ognissanti del 1611, cinque anni prima della sua morte, il 23 aprile del 1616.
La “magia del teatro” è un’espressione proverbiale, talmente usata da sconfinare con facilità nella retorica, eppure nasconde qualcosa di autentico. Quel qualcosa è quello che chi studia il teatro chiama – con un’espressione assai meno romantica – “sospensione dell’incredulità”. Qualcosa che Shakespeare, pur non avendo mai usato una locuzione simile, conosceva benissimo. Nel prologo del suo «Enrico V» si rivolge direttamente al pubblico, per chiedergli appunto di vedere ciò che lui non potrà mai ricreare sul palcoscenico e che però il dramma e la storia che esso racconta prevede che sia visto:
“Come potrebbe mai questa platea contenere nel suo ristretto spazio, le sterminate campagne di Francia? […] Immaginate dunque che racchiusi nella cinta di queste nostre mura si trovino due regni assai potenti, e che le loro contrapposte fronti alte erigentesi su opposte sponde separi un braccio di rischioso mare.
Sopperite alle nostre deficienze con le risorse della vostra mente: moltiplicate per mille ogni uomo, e con l’aiuto della fantasia createvi un poderoso esercito. Quando udrete parlare di cavalli pensate di veder cavalli veri stampar l’orme dei lor superbi zoccoli sopra il molle terreno che le accoglie. Sarà così la vostra fantasia a vestire di sfarzo i nostri re, a menarli dall’uno all’altro luogo, saltellando sul tempo, e riducendo a un volger di clessidra gli eventi occorsi lungo diversi anni”.
Il teatro, dunque, così come non si esaurisce nel testo scritto, è qualcosa che non succede esclusivamente sul palco, ma si situa in quello scarto tra ciò che effettivamente vediamo sul palco e ciò che crediamo di vedere (o accettiamo di credere). Tradotto: è qualcosa che chiama in causa lo spettatore attivamente. Lo sa bene Nadia Fusini che con il suo ultimo libro, «Vivere nella tempesta», tenta una geografia emozionale attorno all’ultimo testo del Bardo che è anche analisi colta e inquadramento storico, ma senza mai perdere lo stupore di chi si avvicina alla “magia del teatro”.
Ma soprattutto è un tentativo di andare anche oltre il testo stesso, di prenderlo cioè come fanno i teatranti, e cioè come un oggetto prismatico che nella sua affascinante complessità può farci volgere lo sguardo sugli aspetti più imprevisti. Un tentativo, cioè, di essere parte attiva nell’immaginazione così come chiedeva Shakespeare al suo pubblico.
“Per interpretare il testo bisogna cogliere i significati profondi, nascosti tra le righe”, dice Peter Brook in «Looking for Richard», il bel film di Al Pacino nel 1996, una sorta di diario-reportage di una messa in scena del Riccardo III, che entrando e uscendo dalla rappresentazione dà una lettura più complessa di quanto possa fare la sola messa in scena. In italiano è stato tradotto “Riccardo III. Un uomo, un re”, ma credo che il titolo originale sia più indicativo della ricerca di senso con cui è giusto avvicinarsi a un testo del Seicento.
Peter Brook, che è uno dei massimi registi viventi, sa bene che lo scarto interpretativo è essenziale tanto quanto il testo, per questo dice a Pacino: “Se il testo diventa un’ossessione… questo è l’ostacolo principale che incontrano gli attori americani, molto preoccupati di rispettare l’interpretazione inglese del testo. Insomma: seguirlo alla lettera non è importante; la cosa importante è arrivare al senso profondo di ciò che sta accadendo in ogni momento”.
Eccovi servita «La Tempesta» come un prisma attraverso cui guardare la meraviglia del teatro, sì, ma anche la storia.
Naugrafi e scoperte
La parola “geografia emozionale” non è affatto secondaria, nel libro di Nadia Fusini. Un po’ perché «La Tempesta» è ambientata in un’isola magica su cui Alonso, il Re di Napoli, e Antonio, fratello di Prospero e usurpatore del suo titolo di Duca di Milano, giungono a seguito di un naufragio causato dalle arti magiche di Prospero. E un po’ perché, anche grazie alla dimensione di incantesimo in cui Shakespeare immerge l’intera vicenda, non c’è luogo che si presti a un’interpretazione allegorica quanto l’isola di Prospero.
Un’interpretazione sempre incerta e carica di mistero. A partire dalla sua collocazione reale: l’isola è nel Mediterraneo, visto che il naufragio avviene sulla via del ritorno da Tunisi? Oppure si trova nella Bermuda, dove fece naufragio Sir John Somers con la sua Sea-Venture nel 1609, le cui vicende Shakespeare ebbe modo certamente di conoscere? Poco importa. Certamente nella Tempesta troviamo tutti gli elementi immaginifici del viaggio di scoperta, vero mito fondativo del Cinquecento, e dei resoconti di naufragio, che probabilmente era quanto di più entusiasmante potesse offrire la non-fiction all’epoca di Shakespeare.
Secondo Giulia Lanciani, nel campo della letteratura portoghese, i resoconti di naufragio seguirono un preciso modello narrativo e giunsero ad essere, in un certo senso, una sorta di genere letterario. Se questo è vero per il Portogallo, che all’epoca in termini di “descobrimentos” era una superpotenza, non ci si discosterà poi molto nel caso dell’Inghilterra, un paese che per espandersi può solo guardare al mare (la Gran Bretagna, non dobbiamo scordarcelo, è a sua volta un’isola…), e che anzi nei secoli a venire eccellerà più di altri in quella crudele corsa che va sotto il nome di “colonialismo” e che ha cambiato per sempre la faccia dell’Europa e del Mondo – e con i cui effetti ci troviamo tutt’ora a dover fare i conti.
Nadia Fusini apre il suo libro sovrapponendo in modo suggestivo i miti storici che hanno accompagnato le scoperte a quelli immaginifici dello Shakespeare delle “commedie romanzesche” – di cui «La Tempesta» è certo uno degli esempi più belli. Un’operazione sì letteraria, ma niente affatto slegata da i dati storici, se è vero che il drammaturgo di Stratford-unop-Avon fu azionista della Virginia Company, la compagnia a cui Giacomo I diede in concessione per la costruzione di insediamenti britannici nel Nuovo Mondo.
La Virginia è la prima colonia inglese in Nord America, chiamata così in onore della Regina Vergine, Elisabetta I, morta pochi anni prima nel 1603. Elisabetta e il suo regno sono la cerniera tra l’antico e il moderno, tra la tradizione magica dei re taumaturghi, di cui pure le magie di Prospero devono in qualche modo esser parenti, e le innovazioni scientifico-tecnologiche che hanno portato alle scoperte geografiche, aprendo nuove rotte e nuovi commerci. “Elisabettiana” è l’epoca in cui Shakespeare scrive, “elisabettiano” è il teatro che fiorì in quell’epoca e di cui il Bardo fu il massimo esponente.
Nadia Fusini indica vari indizi di questo essere a cavallo tra il moderno e l’antico de «La Tempesta». Già nell’incipit, durante il naufragio, vediamo il nostromo rivolgersi in modo brusco ai nobili e al Re, intimando loro di restare in cabina, perché sono solo d’intralcio. “Rammenta chi hai a bordo”, gli dice il consigliere Gonzalo, ma quello tutt’altro che intimorito gli risponde: se la vostra autorità è in grado di far tacere gli elementi e calmare la tempesta, allora prego, fate pure, altrimenti levatevi dai piedi.
Un simile ribaltamento di autorità tra il nobile e il plebeo non ha a che fare con il simbolico del “carnevale” analizzato da Michail Bachtin, circostanziato ad un preciso momento dell’anno e ad una precisa modalità; questo che vediamo nella Tempesta è un ribaltamento permanente, che apre squarci sulle possibilità di un tempo diverso da quello del dominio feudale e nobiliare, che il Nuovo Mondo sembra promettere con insistenza. La Virginia verrà popolata dai puritani in fuga dalle guerre di religione, ma anche da quella ciurmaglia di “lumpen” – così li definisce Fusini, accostandoli al sottoproletariato – che assediano le strade di Londra in cerca di qualcosa per sopravvivere, e di cui i nuovi ricchi come i vecchi nobili hanno paura. Nasce lì, si può dire, il germe da cui crescerà la pianta (avvelenata) del “decoro”: la Londra del Cinquecento ha una legislazione particolarmente dura nei confronti dei senza tetto, sintetizzata in una serie di “Vagabonds act”.
L’altro da me
Ma c’è dell’altro, oltre alle tensioni che corrono lungo l’Inghilterra elisabettiana. E si tratta dell’altro per definizione. Caliban, il bambino-mostro che serve Prospero e sua figlia Miranda procurando loro la legna. Figlio della strega Sycorax che abitava l’isola prima di Prospero, il cui nome evoca animali immondi come il corvo ed il maiale. Shakespeare gioca con i nomi e così se la bella figlia del vero Duca di Milano è “Admir’d Miranda”, una meraviglia da ammirare, Caliban è invece il deforme frutto di una strega immonda, il cui nome fa assonanza con “cannibal” e “caribbean”…
Caliban è il nativo che gli esploratori europei incontrano nel Nuovo Mondo, un incontro inquietante e pericoloso con qualcosa di totalmente “altro-da-me”. Giorgio Strehler, nella sua messa in scena del 1977, lo rappresenta come un uomo nero: il colore della pelle è lo stigma visivo con cui dare corpo alla “deformità” evocata da Shakespeare. Una lettura politica, certamente, ma niente affatto pretestuosa, perché la madre di Caliban proviene da Algeri: in sostanza, è una nordafricana.
Caliban si esprime aggressivamente nei confronti di Prospero, ma come biasimarlo? L’isola era sua, gli era stata lasciata dalla madre, e questo nobile bianco, in possesso di arti magiche – dovevano suonare diversamente le armi degli spagnoli agli occhi degli aztechi? – gliel’ha tolta. Ma Caliban è anche un bambino bisognoso di affetto. Cerca in Prospero il padre che non ha mai avuto, ma questi lo scaccia. Non senza prima averlo attratto con l’inganno. “Appena arrivato mi accarezzavi e mi tenevi nel cuore”, gli ricorda Caliban. “Io ti amavo e ti mostravo tutte le qualità dell’isola”.
Ma poi tutto cambia. Prospero, che a Milano si disinteressa del governo perché ha occhi solo per i suoi libri di magia, sull’Isola non ammette eccezioni al suo dominio. Probabilmente Caliban non odia davvero Prospero, e per giunta è innamorato di Miranda. Spera in un matrimonio che possa riportarlo nelle grazie del suo “padrone”, un matrimonio che gli restituisca l’isola e che gli regali una progenie tanto discendente da lui quanto da Prospero. Quasi certamente si tratta di un sentimento sincero: all’epoca del naufragio Caliban deve avere poco più di vent’anni e Miranda poco meno; sono cresciuti assieme, lei è l’unica donna – per giunta bellissima – che lui conosca.
Ma agli occhi di Prospero questa unione sarebbe un abominio. Caliban è di un’altra “razza”, è totalmente diverso da lui. È un “semi-diavolo”, non umano, tanto che quando verrà sventato il colpo di stato piuttosto cialtrone che Caliban ordisce assieme a Trinculo e Stephano, i primi due vengono definiti “individui” mentre lui è soltanto a thing of darkness, una cosa del buio.
Il moderno e il contemporaneo
Leggere la contemporaneità attraverso la lente dell’età moderna di cui Shakespeare è espressione è una tentazione sempre fortissima in teatro. Accostare in modo pedissequo le epoche è un’operazione rischiosa per gli storici ma anche per gli artisti. Se invece un’operazione del genere segue il percorso di un elemento germinale che nel nostro tempo produce i suoi propri frutti, allora diventa illuminante. Il libro di Nadia Fusini dimostra, con grande estro narrativo, che la scrittura di Shakespeare è carica di elementi germinali. E rispetto a Caliban, una compagnia teatrale come i Motus ha lavorato in senso esplicito avvicinando questa figura alla figura dei migranti che premono oggi alle coste d’Europa, frutto avvelenato di quel colonialismo inaugurato mezzo millennio fa (lo spettacolo si intitolava “Caliban Cannibal”).
Accostamento forzato? Non più di quello che in Inghilterra, in questi giorni, anima un dibattitto attorno a un testo solo parzialmente attribuito a Shakespeare, il dramma elisabettiano “Sir Thomas More”, ispirato alla vita di Tommaso Moro. Il testo è stato scritto da Anthony Munday, ma si ritiene che vi furono interventi di altri drammaturghi e in particolare tre pagine del dramma sarebbero state scritte da Shakespeare (e anzi costituirebbero l’unico documento autografo giunti fino a noi). Proprio in quelle pagine Tommaso Moro prende parola in favore di un gruppo di immigrati: “Immaginate di vedere gli stranieri derelitti, coi bambini in spalla, e i poveri bagagli, arrancare verso i porti e le coste in cerca di trasporto…”. E prosegue:
“Vi piacerebbe allora trovare una nazione d’indole così barbara che, in un’esplosione di violenza e di odio, non vi conceda un posto sulla terra, affili i suoi detestabili coltelli contro le vostre gole, vi scacciasse come cani, quasi non foste figli e opera di Dio, o che gli elementi non siano tutti appropriati al vostro benessere, ma appartenessero solo a loro? Che ne pensereste di essere trattati così?”.
L’Inghilterra del Cinquecento aveva conosciuto il fenomeno dell’immigrazione a causa delle persecuzioni religiose contro i protestanti. Per questo non sono anacronistiche le parole di Moro, anche se alle nostre orecchie suonano così attuali.
Il buon governo e l’Utopia
Il dramma “Sir Thomas More” – per altro di incerta attribuzione – è sicuramente un esempio estremo, perché tocca le corde dell’attualità. Questo certo non vuol dire che Shakespeare fosse in possesso di una qualche forma di chiaroveggenza, ma tantomeno, per converso, è legittimo pensare che sia solo la nostra coscienza di contemporanei a fornire una lettura così smaccatamente attuale. Più probabilmente il drammaturgo inglese fu in grado di cogliere le tensioni che attraversavano la sua società in modo così profondo e non ideologico da poterle intravedere intatte ancora oggi, e sentirle per questo così vicine a noi.
La figura di Tommaso Moro, per altro, ci rimanda ad alcune tematiche a cui Shakespeare fu sicuramente interessato e che riguardano da vicino il nostro paese. È noto l’interesse del Bardo per l’Italia, che nel suo periodo rinascimentale rappresentava per un laboratorio di straordinario interesse. A Venezia sono ambientati l’« Otello» e il «Mercante», Verona è la città di «Romeo e Giulietta», e la stessa Tempesta può essere a buon diritto considerato un testo “italiano” tra quelli di Shakespeare. In quasi tutti questi drammi e commedie spunta l’ombra di un altro tema caro al Cinquecento – quello del “buon governo” – o perlomeno del suo braccio più pragmatico: la giustizia.
Otello, il moro di Venezia, è certamente uno straniero come Calibano; a differenza di questi, però, è utile alla pragmatica Repubblica, che gli affida la difesa militare dei suoi interessi. Otello però dovrà confrontarsi con la giustizia, perché nel momento in cui si innamora ricambiato di Desdemona deve confrontarsi col pregiudizio di Brabanzio, per il quale una simile unione non può essere che frutto di stregoneria. Per quanto riverito, Otello è uno straniero e quando diventa “promiscuo” torna ad essere inesorabilmente “altro”, portatore di inquietudine e di pericoloso mistero di sicura derivazione magica. Così come Sycorax, madre di Caliban.
Otello è certo il dramma della vendetta, un sentimento che alberga spesso nei testi di Shakespeare tanto in amore che in politica, mentre Nadia Fusini sottolinea che lo Shakespeare tardo nella Tempesta è un drammaturgo della riconciliazione (quella tra Prospero, Antonio e Alonso è perfino troppo sbrigativa). Uno scrittore affascinato dalla magia della vita più che dal suo lato oscuro. Eppure un filo collega questi due lavori di opposta temperatura attorno alla figura dello straniero e alla sua condizione di partenza nel chiedere giustizia.
La giustizia è ancora più esplicitamente tirata in ballo nel «Mercante di Venezia», dove l’ebreo Shylock tira in ballo “per celia” una clausola crudele nel contratto con cui presta denaro al mercante Antonio: la famosa libbra di carne. Quando Antonio non sarà in grado di pagare, Shylock esigerà il suo crudele interesse. Shylock è un personaggio livoroso e sconfitto (tanto che diversi commentatori hanno tirato in ballo una presunta antisemita di questa commedia): sua figlia lo deruba e scappa con un cristiano, Antonio lo deride e gli sputa addosso ma richiede i suoi servigi.
Quando ne ha l’occasione, si vendica utilizzando un cavillo della legge. E da un medesimo cavillo verrà poi sconfitto, poiché il giudice (che non è altri che la bella Porzia travestita) gli concede di ottenere la carne che gli spetta ma a patto che non versi nemmeno una goccia di sangue. Il famoso monologo si Shylock – che è sicuramente l’ebreo veneziano più famoso al mondo, per quanto mai esistito – si può interpretare in questo modo ambiguo: “Non ha occhi un ebreo? Se ci ferite non sanguiniamo?” vuol dire sì che la minoranza ebraica è fatta di uomini al pari della nobiltà cristiana, che ingiustamente li disprezza. Ma, prosegue, il monologo: “Se ci fate torto non ci vendichiamo?”, rovesciando nuovamente il personaggio da diseredato a carnefice. Probabilmente chiedersi se nel Seicento Shakespeare fosse stato o meno attraversato da tentazioni antisemite come altri suoi coevi è un esercizio ozioso: assai più interessante è osservare come, nell’ambiguità dei suoi personaggi, si conservi intatta nel tempo la lettura delle tensioni che attraversavano i consessi umani del suo tempo.
Peraltro, parlando di anniversari, cento anni prima della morte del Bardo, veniva istituito quel Ghetto di Venezia in cui è ambientato il Mercante: era il marzo del 1516. Sempre in quell’anno usciva la prima edizione dell’Utopia di Thomas More. Cosa c’entra il Ghetto – luogo di proverbiale segregazione tanto che questo toponimo coniato proprio a Venezia è diventato una parola oggi universalmente usata per definire un luogo di esclusione sociale – con l’Utopia? Nulla, certo, da un punto di vista di contenuti. Ma entrambi i concetti prendono forma in un secolo in cui l’ansia di progettazione della “città ideale” si è unito all’idea della ricerca del buon governo. Venezia, ad esempio, per l’epoca è sicuramente in un certo senso una forma utopica: una repubblica dove non alberga il dispotismo delle monarchie assolute. Ed è nel Cinquecento – un secolo a cui appartengono anche gli scritti di Machiavelli – che si forma il lessico politico che noi, in buona parte, utilizziamo tutt’ora.
A Shakespeare interessava l’utopia del buon governo? Chi lo sa. Di certo fa descrivere al consigliere Gonzalo, nella Tempesta, una sorta di utopia radicale:
“Nel mio stato governerei tutto contrariamente agli usi. Non ammetterei nessun genere di commercio. Di magistrati, neanche il nome. Le lettere, sconosciute. Ricchezze, povertà, qualunque servitù, più niente. Contratti, successioni, confini, delimitazioni di terre, colture, vigneti: niente. Non uso di metallo, non grano, non vino, non olio. Niente lavoro. Gli uomini tutti in ozio, tutti. E anche le donne, ma innocenti e pure. Sovranità, nessuna”.
In fondo, come l’Utopia di More, anche quella della Tempesta è un’isola. Un piccolo regno dove è possibile ad esempio immaginare la liberazione dalla dannazione del lavoro. E questo testo fatto di incantesimi e passioni ci racconta di come la scrittura di Shakespeare abbia assunto nel corso dei secoli la potenza generativa del mito. E ci spiega quindi perché, a quattrocento anni dalla sua morte, siamo ancora così immersi nella sua drammaturgia.
Testo tratto da http://www.minimaetmoralia.it/wp/shakespeare-400-ancora-nella-tempesta/
Nessun commento:
Posta un commento