Negli anni Cinquanta uno dei piloti che avevano partecipato al lancio della bomba atomica su Hiroshima, Claude Eatherly, venne internato in un ospedale psichiatrico. Nel 1959 Günther Anders gli scrisse una lettera e diede inizio a un carteggio. Mimesis ne ha da poco pubblicato la versione italiana, L’ultima vittima di Hiroshima, a cura di Micaela Latini. Quella che segue è la prima lettera della corrispondenza
Lettera di Günther Anders a Claude Eatherly
Al signor Claude R. Eatherly, ex maggiore della A.F., Veterans’ Administration Hospital Waco, Texas
3 giugno 1959
Caro signor Eatherly,
Lei non conosce chi scrive queste righe.
Mentre Lei è noto a noi, ai miei amici e a me. Il modo in cui Lei verrà
(o non verrà) a capo della Sua sventura, è seguito da tutti noi (che si
viva a New York, a Tokyo o a Vienna) con il cuore in sospeso. E non per
curiosità, o perché il Suo caso ci interessi dal punto di vista medico o
psicologico. Non siamo medici né psicologi. Ma perché ci sforziamo, con
ansia e sollecitudine, di venire a capo dei problemi morali che, oggi,
si pongono di fronte a tutti noi.
La tecnicizzazione dell’esistenza: il
fatto che, indirettamente e senza saperlo, come le rotelle di una
macchina, possiamo essere inseriti in azioni di cui non prevediamo gli
effetti, e che, se ne prevedessimo gli effetti, non potremmo approvare –
questo fatto ha trasformato la situazione morale di tutti noi. La
tecnica ha fatto sì che si possa diventare «incolpevolmente colpevoli»,
in un modo che era ancora ignoto al mondo tecnicamente meno avanzato dei
nostri padri.
Lei capisce il suo rapporto con tutto
questo: poiché Lei è uno dei primi che si è invischiato in questa colpa
di nuovo tipo, una colpa in cui potrebbe incorrere – oggi o domani –
ciascuno di noi. A Lei è capitato ciò che potrebbe capitare domani a noi
tutti. È per questo che Lei ha per noi la funzione di un esempio
tipico: la funzione di un precursore.
Probabilmente tutto questo non Le piace. Vuole stare tranquillo, your life is your business. Possiamo
assicurarLe che l’indiscrezione piace così poco a noi come a Lei, e La
preghiamo di scusarci. Ma in questo caso, per la ragione che ho appena
detto, l’indiscrezione è – purtroppo – inevitabile, anzi doverosa. La
Sua vita è diventata anche il nostro business. Poiché il caso
(o comunque vogliamo chiamare il fatto innegabile) ha voluto fare di
Lei, il privato cittadino Claude Eatherly, un simbolo del futuro, Lei
non ha più diritto di protestare per la nostra indiscrezione. Che
proprio Lei, e non un altro dei due o tre miliardi di Suoi
contemporanei, sia stato condannato a questa funzione di simbolo, non è
colpa Sua, ed è certamente spaventoso. Ma così è, ormai.
E tuttavia non creda di essere il solo
condannato in questo modo. Poiché tutti noi dobbiamo vivere in
quest’epoca, in cui potremmo incorrere in una colpa del genere: e come
Lei non ha scelto la sua triste funzione, così anche noi non abbiamo
scelto quest’epoca infausta. In questo senso siamo quindi, come direste
voi americani, «in the same boat», nella stessa barca, anzi siamo i
figli di una stessa famiglia. E questa comunità, questa parentela,
determina il nostro rapporto verso di Lei. Se ci occupiamo delle Sue
sofferenze, lo facciamo come fratelli, come se Lei fosse un fratello a
cui è capitata la disgrazia di fare realmente ciò che ciascuno
di noi potrebbe essere costretto a fare domani; come fratelli che
sperano di poter evitare quella sciagura, come Lei oggi spera,
tremendamente invano, di averla potuta evitare allora. Ma
allora ciò non era possibile: il meccanismo dei comandi funzionò
perfettamente, e Lei era ancora giovane e senza discernimento. Dunque lo
ha fatto. Ma poiché lo ha fatto, noi possiamo apprendere da Lei, e solo da Lei, che sarebbe di noi se fossimo stati al Suo posto, che sarebbe di noi se fossimo al Suo posto. Vede che Lei ci è estremamente prezioso, anzi indispensabile. Lei è, in qualche modo, il nostro maestro.
Naturalmente Lei rifiuterà questo titolo. «Tutt’altro, – dirà – poiché io non riesco a venire a capo del mio stato».
Si stupirà, ma è proprio questo «non» a far pencolare (per noi) la bilancia. Ad essere, anzi, perfino consolante. Capisco che questa affermazione deve suonare, sulle prime, assurda. Perciò qualche parola di spiegazione.
Non dico «consolante per Lei». Non
ho nessuna intenzione di volerLa consolare. Chi vuol consolare dice,
infatti, sempre: «La cosa non è poi così grave»; cerca, insomma, di
impicciolire l’accaduto (dolore o colpa) o di farlo sparire con le
parole. È proprio quello che cercano di fare, per esempio, i Suoi
medici. Non è difficile scoprire perché agiscano così. In fin dei conti
sono impiegati di un ospedale militare, cui non si addice la condanna
morale di un’azione bellica unanimemente approvata, anzi lodata; a cui,
anzi, non deve neppure venire in mente la possibilità di questa
condanna; e che perciò devono difendere in ogni caso l’irreprensibilità
di un’azione che Lei sente, a ragione, come una colpa. Ecco perché i
Suoi medici affermano: «Hiroshima in itself is not enough to explain
your behaviour», ciò che in un linguaggio meno lambiccato significa:
«Hiroshima è meno terribile di quanto sembra»; ecco perché si limitano a
criticare, invece dell’azione stessa (o dello «stato del mondo» che l’ha resa possibile), la Sua reazione ad
essa; ecco perché devono chiamare il Suo dolore e la Sua attesa di un
castigo una «malattia» («classical guilt complex»); ed ecco perché
devono considerare e trattare la Sua azione come un «self-imagined
wrong», un delitto inventato da Lei. C’è da stupirsi che uomini
costretti dal loro conformismo e dalla loro schiavitù morale a
sostenere l’irreprensibilità della Sua azione, e a considerare quindi
patologico il Suo stato di coscienza, che uomini che muovono da premesse
così bugiarde ottengano dalle loro cure risultati così poco brillanti?
Posso immaginare (e La prego di correggermi se sbaglio) con quanta
incredulità e diffidenza, con quanta repulsione Lei consideri quegli
uomini, che prendono sul serio solo la Sua reazione, e non la Sua
azione. Hiroshima – self-imagined!
Non c’è dubbio: Lei la sa più lunga di
loro. Non è senza ragione che le grida dei feriti assordano i Suoi
giorni, che le ombre dei morti affollano i Suoi sogni. Lei sa che
l’accaduto è accaduto veramente, e non è un’immaginazione. Lei non si
lascia illudere da costoro. E nemmeno noi ci lasciamo illudere. Nemmeno
noi sappiamo che farci di queste «consolazioni».
No, io dicevo per noi. Per noi
il fatto che Lei non riesce a «venire a capo» dell’accaduto, è
consolante. E questo perché ci mostra che Lei cerca di far fronte, a posteriori,
all’effetto (che allora non poteva concepire) della Sua azione; e
perché questo tentativo, anche se dovesse fallire, prova che Lei ha
potuto tener viva la Sua coscienza, anche dopo essere stato inserito
come una rotella in un meccanismo tecnico e adoperato in esso con
successo. E serbando viva la Sua coscienza ha mostrato che questo è
possibile, e che dev’essere possibile anche per noi. E sapere questo (e noi lo sappiamo grazie a Lei) è, per noi, consolante.
«Anche se dovesse fallire», ho detto. Ma il Suo tentativo deve necessariamente fallire. E precisamente per questo.
Già quando si è fatto torto a una
persona singola (e non parlo di uccidere), anche se l’azione si lascia
abbracciare in tutti i suoi effetti, è tutt’altro che semplice «venirne a
capo». Ma qui si tratta di ben altro. Lei ha la sventura di aver
lasciato dietro di sé duecentomila morti. E come sarebbe possibile
realizzare un dolore che abbracci 200.000 vite umane? Come sarebbe
possibile pentirsi di 200.000 vittime? Non solo Lei non lo può, non solo noi non
lo possiamo: non è possibile per nessuno. Per quanti sforzi disperati
si facciano, dolore e pentimento restano inadeguati. L’inutilità dei
Suoi sforzi non è quindi colpa Sua, Eatherly: ma è una conseguenza di
ciò che ho definito prima come la novità decisiva della nostra
situazione; del fatto, cioè, che siamo in grado di produrre più di
quanto siamo in grado di immaginare; e che gli effetti provocati dagli
attrezzi che costruiamo sono così enormi che non siamo più attrezzati
per concepirli. Al di là, cioè, di ciò che possiamo dominare
interiormente, e di cui possiamo «venire a capo». Non si faccia
rimproveri per il fallimento del Suo tentativo di pentirsi. Ci
mancherebbe altro! Il pentimento non può riuscire. Ma il fallimento stesso dei
Suoi sforzi è la Sua esperienza e passione di ogni giorno; poiché al di
fuori di questa esperienza non c’è nulla che possa sostituire il
pentimento, e che possa impedirci di commettere di nuovo azioni così
tremende. Che, di fronte a questo fallimento, la Sua reazione sia
caotica e disordinata, è quindi perfettamente naturale. Anzi, oserei
dire che è un segno della Sua salute morale. Poiché la Sua reazione
attesta la vitalità della Sua coscienza.
Il metodo usuale per venire a capo di
cose troppo grandi è una semplice manovra di occultamento: si continua a
vivere come se niente fosse; si cancella l’accaduto dalla lavagna della
vita, si fa come se la colpa troppo grave non fosse nemmeno una colpa.
Vale a dire che, per venirne a capo, si rinuncia affatto a venirne a
capo. Come fa il Suo compagno e compatriota Joe Stiborik, ex radarista
sull’Enola Gay, che Le presentano volentieri ad esempio perché
continua a vivere magnificamente e ha dichiarato, con la miglior cera di
questo mondo, che «è stata solo una bomba un po’ più grossa delle
altre». E questo metodo è esemplificato, meglio ancora, dal presidente
che ha dato il «via» a Lei come Lei lo ha dato al pilota
dell’apparecchio bombardiere; e che quindi, a ben vedere, si trova nella
Sua stessa situazione, se non in una situazione ancora peggiore. Ma
egli ha omesso di fare ciò che Lei ha fatto. Tant’è che alcuni anni fa,
rovesciando ingenuamente ogni morale (non so se sia venuto a saperlo),
ha dichiarato, in un’intervista destinata al pubblico, di non sentire i
minimi «pangs of conscience», che sarebbe una prova lampante della sua
innocenza; e quando poco fa, in occasione del suo settantacinquesimo
compleanno, ha tirato le somme della sua vita, ha citato, come sola
mancanza degna di rimorso, il fatto di essersi sposato dopo i trenta. Mi
pare difficile che Lei possa invidiare questo «clean sheet». Ma sono
certo che non accetterebbe mai, da un criminale comune, come una prova
d’innocenza, la dichiarazione di non provare il minimo rimorso. Non è un
personaggio ridicolo, un uomo che fugge così davanti a se stesso? Lei
non ha agito così, Eatherly; Lei non è un personaggio ridicolo. Lei fa,
pur senza riuscirci, quanto è umanamente possibile: cerca di continuare a
vivere come la stessa persona che ha compiuto l’azione. Ed è questo che ci consola. Anche se Lei, proprio perché è rimasto identico con la Sua azione, si è trasformato in seguito ad essa.
Capisce che alludo alle Sue violazioni
di domicilio, falsi e non so quali altri reati che ha commesso. E al
fatto che è o passa per demoralizzato e depresso. Non pensi che io sia
un anarchico e favorevole ai falsi e alle rapine, o che dia scarso peso a
queste cose. Ma nel Suo caso questi reati non sono affatto «comuni»:
sono gesti di disperazione. Poiché essere colpevole come Lei lo è ed
essere esaltati, proprio per la propria colpa, come «eroi sorridenti»,
dev’essere una condizione intollerabile per un uomo onesto; per porre
termine alla quale si può anche commettere qualche scorrettezza. Poiché
l’enormità che pesava e pesa su di Lei non era capita, non poteva essere capita e non poteva
essere fatta capire nel mondo a cui Lei appartiene, Lei doveva cercare
di parlare ed agire nel linguaggio intelligibile costì, nel piccolo
linguaggio della petty o della big larceny, nei
termini della società stessa, così Lei ha cercato di provare la Sua
colpa con atti che fossero riconosciuti come reati. Ma anche questo non
Le è riuscito. È sempre condannato a passare per malato, anziché per
colpevole. E proprio per questo, perché – per così dire – non Le si concede la Sua colpa, Lei è e rimane un uomo infelice.
E ora, per finire, un suggerimento.
L’anno scorso ho visitato Hiroshima; e
ho parlato con quelli che sono rimasti vivi dopo il Suo passaggio. Si
rassicuri: non c’è nessuno di quegli uomini che voglia perseguitare una
vite nell’ingranaggio di una macchina militare (ciò che Lei era, quando,
a ventisei anni, eseguì la Sua «missione»); non c’è nessuno che La odi.
Ma ora Lei ha mostrato che, anche dopo
essere stato adoperato come una vite, è rimasto, a differenza degli
altri, un uomo; o di esserlo ridiventato. Ed ecco la mia proposta, su
cui Lei avrà modo di riflettere.
Il prossimo 6 agosto la popolazione di
Hiroshima celebrerà, come tutti gli anni, il giorno in cui «è avvenuto».
A quegli uomini Lei potrebbe inviare un messaggio, che dovrebbe
giungere per il giorno della celebrazione. Se Lei dicesse da uomo a
quegli uomini: «Allora non sapevo quel che facevo; ma ora lo so. E so
che una cosa simile non dovrà più accadere; e che nessuno può chiedere a
un altro di compierla»; e: «La vostra lotta contro il ripetersi di
un’azione simile è anche la mia lotta, e il vostro “no more Hiroshima” è
anche il mio “no more Hiroshima”», o qualcosa di simile può essere
certo che con questo messaggio farebbe una gioia immensa ai
sopravvissuti di Hiroshima e che sarebbe considerato da quegli uomini
come un amico, come uno di loro. E che ciò accadrebbe a ragione, poiché
anche Lei, Eatherly, è una vittima di Hiroshima. E ciò sarebbe forse
anche per Lei, se non una consolazione, almeno una gioia.
Con il sentimento che provo per ognuna di quelle vittime, La saluto
Günther Anders
Da http://www.leparoleelecose.it/
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