Addio a Malick Sidibé,
il grande fotografo del Mali che ha raccontato la storia dell'Africa
attraverso volti, corpi, vestiti.
Manuela
De Leonardis
Malick
Sidibé. Il set della vita
«In Africa un vecchio
che muore è una biblioteca che brucia», si legge su uno dei tanti
cartelli scritti a mano e conservati nella Maison des Esclaves
all’Isola di Gorée, al largo di Dakar. Sebbene quest’immagine
forte si riferisca alla tradizione orale che appartiene alla cultura
africana, sembra appropriata anche per parlare di Malick Sidibé.
Questo straordinario storyteller era nato nel 1936 nel villaggio di
Soloba (Mali), ma si trasferì giovanissimo nella capitale – Bamako
– dove si è spento il 14 aprile. Con la sola differenza che se lui
se n’è andato silenzioso e discreto, come era nella sua natura, il
suo archivio fotografico continuerà a raccontare oltre cinquant’anni
di storia, ancora e ancora.
Certamente quando nei
primi anni ’90 André Magnin lo scoprì, varcando la soglia
del suo studio, nel quartiere di Bagadadji (lo Studio Malick era
stato aperto nel 1962) non avrebbe mai immaginato che sarebbe
diventato una star, consacrato dalla Biennale d’Arte di Venezia con
il Leone d’oro alla carriera nel 2007 e onorato da numerosi premi,
tra cui il premio Hasselblad (2003) e il World Press Photo 2010. «Nel
1991 al Center of African Arts di New York vidiAfrica Explores: 20th
Century African Art, una mostra dedicata sia all’arte primitiva
africana che a quella contemporanea – ricorda Magnin – C’erano
anche cinque vecchie fotografie nella cui didascalia era scritto
Anonimo/Bamako/Mali/anni ’50.
Parlai con Pigozzi e gli
dissi che se l’autore fosse stato ancora vivo, lo avrei trovato.
Comprai un biglietto aereo per il Mali, prenotai un hotel modesto e
ingaggiai un autista a cui dissi che volevo incontrare i fotografi
della città. Lui mi portò da Malick Sidibé, che era l’unico
fotografo che lavorava ancora nel suo studio. Gli mostrai le copie
delle foto che avevo visto a New York e lui riconobbe immediatamente
che erano state scattate da Seydou Keïta e me lo presentò. Nel 1994
ho organizzato la sua prima mostra –Seydou Keita: 1949 à 1962 –
alla Fondation Cartier di Parigi e per fare questo Keïta ha aperto
il suo archivio ed io ho visto, una ad una, tutte le sue immagini.
Solo allora ho saputo che anche Malick Sidibé aveva un archivio
incredibile. Stavolta fu Keïta a introdurmi nuovamente a Malick che
mi mostrò tutto il suo lavoro. La prima mostra che abbiamo fatto
insieme – Malick Sidibé. Bamako, 1962-1976 – è stata
nel 1995, sempre alla Fondation Cartier».
Il successo, però, non ha mai intaccato l’integrità di Sidibé: «La mia vita è cambiata molto, soprattutto perché adesso posso aiutare molte persone bisognose», disse il fotografo in occasione della personale organizzata nel 2010 alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia. «Compro trattori e motopompe per la gente del mio villaggio, Soloba, faccio scavare pozzi, ho chiesto di costruire scuole e centri di assistenza per la maternità. Do soldi a chiunque me li chieda. I miei genitori mi hanno cresciuto con quest’idea del dare. Donare è un piacere dell’anima».
Malick Sidibé iniziò
a fotografare nel 1955 come apprendista del francese Gérard
Guillat-Guignard (detto Gegé la pellicule), da cui imparò anche le
tecniche di stampa: pur prediligendo il bianco e nero, molto più
resistente in un clima inclemente come quello dell’Africa
occidentale, Malick fotografò anche a colori, soprattutto a partire
dagli anni ’90. Quando era ormai imprenditore di se stesso, qualche
anno dopo, ebbe l’intuito e la passione di studiare i meccanismi
degli apparecchi fotografici, diventando l’esperto a cui si
rivolgevano tutti gli altri fotografi (anche il più anziano e noto
Seydou Keïta) mettendo nelle sue mani le loro macchine fotografiche:
lui sapeva risolvere qualsiasi problema.
Allineati sugli
scaffali dello Studio Malick ce ne sono ancora tante che, come
del resto le numerosissime le scatole che contengono i negativi
(molti assai impolverati), testimoniano un’epoca che sembra lontana
anni luce dal nostro presente digitale. C’è da dire poi che, nel
quartiere, lo Studio Malick è sempre stato non solo lo studio
fotografico di riferimento (con il suo pavimento bianco e nero a
scacchi della stanzetta riservata alla posa), ma anche il luogo dove
passare per le chiacchiere pomeridiane tra un consiglio e l’altro e
una battuta del fotografo, sempre ironico con se stesso e con gli
altri. Insomma, un pezzo di storia nella storia. Raccontare il
presente è stata un’ambizione inconsapevole per Malick Sidibé,
che non ha mai tradito lo sguardo innocente con cui ha intercettato
quello dei soggetti che ha continuato a fotografare nel tempo.
La storia che
leggiamo nelle sue fotografie è fatta di persone. Gente comune,
soprattutto i tantissimi i giovani che – come lui – hanno
partecipato alla nascita di un paese libero che nel 1960 si
affrancava dalla Francia. «Quello che c’è stato di buono della
colonizzazione francese, in particolare in Mali, è che fin dagli
anni ’50 i giovani, grazie alla musica occidentale, hanno potuto
difendersi. Potevano ballare abbracciati, cosa impossibile nella
danza tradizionale. All’inizio le ragazze, quando andavano alle
feste, nascondevano il vestito occidentale sotto quello tradizionale,
perché i genitori avrebbero impedito loro di uscire di casa.
Addirittura c’era chi metteva del sonnifero nell’acqua del padre,
per farlo addormentare e poter tornare tardi. Le madri, invece, erano
complici: se la porta di casa era chiusa a chiave, facevano in modo
che le figlie riuscissero a entrare».
La giovinezza,
l’eleganza, la musica, l’esuberanza, la vitalità: queste sono le
qualità che Sidibé ha saputo cogliere e che ci fanno amare le sue
fotografie, ieri, oggi e per sempre.
Il Manifesto – 16
aprile 2016
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