16 aprile 2016

LA VITA DI MALICK SIDIBE'

 
Addio a Malick Sidibé, il grande fotografo del Mali che ha raccontato la storia dell'Africa attraverso volti, corpi, vestiti.

Manuela De Leonardis

Malick Sidibé. Il set della vita

«In Africa un vecchio che muore è una biblioteca che brucia», si legge su uno dei tanti cartelli scritti a mano e conservati nella Maison des Esclaves all’Isola di Gorée, al largo di Dakar. Sebbene quest’immagine forte si riferisca alla tradizione orale che appartiene alla cultura africana, sembra appropriata anche per parlare di Malick Sidibé. Questo straordinario storyteller era nato nel 1936 nel villaggio di Soloba (Mali), ma si trasferì giovanissimo nella capitale – Bamako – dove si è spento il 14 aprile. Con la sola differenza che se lui se n’è andato silenzioso e discreto, come era nella sua natura, il suo archivio fotografico continuerà a raccontare oltre cinquant’anni di storia, ancora e ancora.

Certamente quando nei primi anni ’90 André Magnin lo scoprì, varcando la soglia del suo studio, nel quartiere di Bagadadji (lo Studio Malick era stato aperto nel 1962) non avrebbe mai immaginato che sarebbe diventato una star, consacrato dalla Biennale d’Arte di Venezia con il Leone d’oro alla carriera nel 2007 e onorato da numerosi premi, tra cui il premio Hasselblad (2003) e il World Press Photo 2010. «Nel 1991 al Center of African Arts di New York vidiAfrica Explores: 20th Century African Art, una mostra dedicata sia all’arte primitiva africana che a quella contemporanea – ricorda Magnin – C’erano anche cinque vecchie fotografie nella cui didascalia era scritto Anonimo/Bamako/Mali/anni ’50.

Parlai con Pigozzi e gli dissi che se l’autore fosse stato ancora vivo, lo avrei trovato. Comprai un biglietto aereo per il Mali, prenotai un hotel modesto e ingaggiai un autista a cui dissi che volevo incontrare i fotografi della città. Lui mi portò da Malick Sidibé, che era l’unico fotografo che lavorava ancora nel suo studio. Gli mostrai le copie delle foto che avevo visto a New York e lui riconobbe immediatamente che erano state scattate da Seydou Keïta e me lo presentò. Nel 1994 ho organizzato la sua prima mostra –Seydou Keita: 1949 à 1962 – alla Fondation Cartier di Parigi e per fare questo Keïta ha aperto il suo archivio ed io ho visto, una ad una, tutte le sue immagini. Solo allora ho saputo che anche Malick Sidibé aveva un archivio incredibile. Stavolta fu Keïta a introdurmi nuovamente a Malick che mi mostrò tutto il suo lavoro. La prima mostra che abbiamo fatto insieme – Malick Sidibé. Bamako, 1962-1976 – è stata nel 1995, sempre alla Fondation Cartier».

Il successo, però, non ha mai intaccato l’integrità di Sidibé: «La mia vita è cambiata molto, soprattutto perché adesso posso aiutare molte persone bisognose», disse il fotografo in occasione della personale organizzata nel 2010 alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia. «Compro trattori e motopompe per la gente del mio villaggio, Soloba, faccio scavare pozzi, ho chiesto di costruire scuole e centri di assistenza per la maternità. Do soldi a chiunque me li chieda. I miei genitori mi hanno cresciuto con quest’idea del dare. Donare è un piacere dell’anima».

Malick Sidibé iniziò a fotografare nel 1955 come apprendista del francese Gérard Guillat-Guignard (detto Gegé la pellicule), da cui imparò anche le tecniche di stampa: pur prediligendo il bianco e nero, molto più resistente in un clima inclemente come quello dell’Africa occidentale, Malick fotografò anche a colori, soprattutto a partire dagli anni ’90. Quando era ormai imprenditore di se stesso, qualche anno dopo, ebbe l’intuito e la passione di studiare i meccanismi degli apparecchi fotografici, diventando l’esperto a cui si rivolgevano tutti gli altri fotografi (anche il più anziano e noto Seydou Keïta) mettendo nelle sue mani le loro macchine fotografiche: lui sapeva risolvere qualsiasi problema.

Allineati sugli scaffali dello Studio Malick ce ne sono ancora tante che, come del resto le numerosissime le scatole che contengono i negativi (molti assai impolverati), testimoniano un’epoca che sembra lontana anni luce dal nostro presente digitale. C’è da dire poi che, nel quartiere, lo Studio Malick è sempre stato non solo lo studio fotografico di riferimento (con il suo pavimento bianco e nero a scacchi della stanzetta riservata alla posa), ma anche il luogo dove passare per le chiacchiere pomeridiane tra un consiglio e l’altro e una battuta del fotografo, sempre ironico con se stesso e con gli altri. Insomma, un pezzo di storia nella storia. Raccontare il presente è stata un’ambizione inconsapevole per Malick Sidibé, che non ha mai tradito lo sguardo innocente con cui ha intercettato quello dei soggetti che ha continuato a fotografare nel tempo.

La storia che leggiamo nelle sue fotografie è fatta di persone. Gente comune, soprattutto i tantissimi i giovani che – come lui – hanno partecipato alla nascita di un paese libero che nel 1960 si affrancava dalla Francia. «Quello che c’è stato di buono della colonizzazione francese, in particolare in Mali, è che fin dagli anni ’50 i giovani, grazie alla musica occidentale, hanno potuto difendersi. Potevano ballare abbracciati, cosa impossibile nella danza tradizionale. All’inizio le ragazze, quando andavano alle feste, nascondevano il vestito occidentale sotto quello tradizionale, perché i genitori avrebbero impedito loro di uscire di casa. Addirittura c’era chi metteva del sonnifero nell’acqua del padre, per farlo addormentare e poter tornare tardi. Le madri, invece, erano complici: se la porta di casa era chiusa a chiave, facevano in modo che le figlie riuscissero a entrare».

La giovinezza, l’eleganza, la musica, l’esuberanza, la vitalità: queste sono le qualità che Sidibé ha saputo cogliere e che ci fanno amare le sue fotografie, ieri, oggi e per sempre.


Il Manifesto – 16 aprile 2016

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