Mafia, storia sotterranea di
una nazione
Riccardo Mazzeo
Bianca
Stancanelli ricorda in questo libro le parole pronunciate da Goethe nel 1787,
undici giorni dopo il suo arrivo a Palermo: «Senza vedere la Sicilia, non ci si può fare un’idea dell’Italia. È in
Sicilia che si trova la chiave di tutto» (La città marcia: racconto
siciliano di potere e di mafia, Marsilio, pp. 271, euro 16). L’autrice
conosce intimamente il tema di cui si occupa: siciliana, aveva iniziato
giovanissima a fare la giornalista nella sua regione e si è occupata di mafia
con grande fervore ricevendo anche l’Aquila d’oro al Premio Estense nel 2003
per il libro su Don Puglisi pubblicato da Einaudi. Il giornale per cui
lavorava, L’Ora, è lo stesso dove il fratello di Tullio De Mauro, Mauro,
pubblicava formidabili scoop, e Mauro De Mauro scomparve improvvisamente nel
1970.
Il
protagonista del libro, Giuseppe Insalaco detto «Peppuccio», entra in scena
proprio dopo la scomparsa di Mauro De Mauro, facendo visita a sua moglie Elda
in vece del ministro Restivo. La signora De Mauro è irritata che il ministro,
amico di famiglia, non sia venuto di persona. Ma è un segno tangibile: il
mistero della sparizione di De Mauro non si scioglierà mai.
L’interesse
dell’autrice per Peppuccio Insalaco dipende innanzitutto dalla sua funzione di
cerniera fra il potere mafioso e quello politico: sindaco di Palermo per soli
101 giorni nel 1984, verrà ucciso nel 1988 dopo la fine del maxiprocesso che
aveva dispensato molti ergastoli ai mafiosi. Leoluca Orlando dirà all’autrice
che è stato ucciso «con il consenso dei salotti politici palermitani»: aveva
deciso di fare una rivoluzione, di cambiare lo stato delle cose, ed è stato
tolto di mezzo; la tragedia è che i mafiosi sono stati colpiti, i mandanti
politici no; e che la vicenda sia stata minimizzata, svalutata, affossata anche
materialmente proprio perché aveva rischiato di far trapelare la verità. Nel
penultimo capitolo Stancanelli descrive «il contrasto tra le raggelanti
testimonianze di ex sindaci, ex consiglieri comunali – la città bianca che
parla dell’anima nera della politica, che dice cose enormi in un’aula di
tribunale – e il silenzio di giudici, pubblici ministeri, avvocati». Davanti a
loro sfilano il sindaco Leoluca Orlando, l’ex capogruppo del Pci Simona Mafai,
la pediatra Elda Pucci, con testimonianze da brivido, e la Corte non fa una
piega: saluta e ringrazia.
La
ricognizione di Stancanelli è doviziosa e avvincente e sottolinea lo stridore
fra la vita tutta in superficie dei paninari del «continente» e quella remota,
umbratile e inchiavardata della mafia siciliana: «Negli sgargianti anni
Ottanta, che si esaltano nella religione dell’apparire e celebrano gli yuppies,
il denaro, lo scialo e lo spreco, la mafia dei Ganci, di Riina, pratica un
vivere sottotraccia, un navigare sotto il pelo dell’acqua, tra palazzine
popolari, orti e giardini di periferia, stalle e pollai». Una mafia ricchissima
di denaro e di risorse che però sceglie di vivere nel deserto dei nascondigli
pur di detenere ed esercitare il potere.
L’affresco
di Bianca Stancanelli fa emergere il «come» la Sicilia abbia influenzato e
influenzi la vita del nostro Paese, ma anche sulle analogie che si scorgono fra
la pentecostale cultura della morte così incistata in una mafia ossificata,
trincerata e corrotta e lo stile altrettanto rigido, corrotto ed esangue di
alcuni Paesi musulmani. Se molti paesi arabi non avessero avuto funzionari così
desolatamente corrotti sarebbe forse stato meno difficile mettere in figura la
loro ventura, l’ingiustizia che li caratterizza. Peraltro, sia la mafia sia i
potentati come l’Egitto spesso si avvalgono della svalutazione di una vittima
della mafia o della politica per porre l’enfasi sulla miseria morale o
materiale di chi è morto e allontanare i riflettori dalle vere cause della sua
sventura. Quando Stancanelli racconta del poveraccio che aveva assistito per
caso al ritorno degli assassini della strage di Portella della Ginestra,
«lupara in spalla e mitragliatrice sottobraccio» ed era stato poi ucciso, la
motivazione fornita dall’Ispettorato generale di Pubblica sicurezza, delitto
d’onore poiché l’uomo era «donnaiolo» e «pederasta attivo», richiama alla mente
le pretestuose accuse mosse al nostro Giulio Regeni, torturato e ammazzato in
Egitto, secondo cui sarebbe morto a causa delle sue frequentazioni sessuali o
per storie di droga.
Insalaco,
comunque, e il suo desiderio mai sopito di fare la cosa giusta in onore del
padre carabiniere che amava, costituisce anche la testimonianza della libertà
ineliminabile che esiste in ciascuno di noi anche nelle circostanze più
avverse. Stancanelli cita Anatomia di un istante, di Javier Cercas: «Borges
dice che “qualunque destino, per lungo e complicato che sia, consta in realtà
di un solo momento: quello in cui l’uomo sa per sempre chi è”». L’autrice
chiosa: «E se il tutto di cui lo credevano capace era il piegarsi e servire, il
tutto di cui divenne capace fu la ribellione»
IL
MANIFESTO 20 aprile 2016.
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