20 aprile 2016

PALERMO RACCONTATA DA BIANCA STANCANELLI




Mafia, storia sotterranea di una nazione
Riccardo Mazzeo

Bianca Stancanelli ricorda in questo libro le parole pronunciate da Goethe nel 1787, undici giorni dopo il suo arrivo a Palermo: «Senza vedere la Sicilia, non ci si può fare un’idea dell’Italia. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto» (La città marcia: racconto siciliano di potere e di mafia, Marsilio, pp. 271, euro 16). L’autrice conosce intimamente il tema di cui si occupa: siciliana, aveva iniziato giovanissima a fare la giornalista nella sua regione e si è occupata di mafia con grande fervore ricevendo anche l’Aquila d’oro al Premio Estense nel 2003 per il libro su Don Puglisi pubblicato da Einaudi. Il giornale per cui lavorava, L’Ora, è lo stesso dove il fratello di Tullio De Mauro, Mauro, pubblicava formidabili scoop, e Mauro De Mauro scomparve improvvisamente nel 1970.
Il protagonista del libro, Giuseppe Insalaco detto «Peppuccio», entra in scena proprio dopo la scomparsa di Mauro De Mauro, facendo visita a sua moglie Elda in vece del ministro Restivo. La signora De Mauro è irritata che il ministro, amico di famiglia, non sia venuto di persona. Ma è un segno tangibile: il mistero della sparizione di De Mauro non si scioglierà mai.
L’interesse dell’autrice per Peppuccio Insalaco dipende innanzitutto dalla sua funzione di cerniera fra il potere mafioso e quello politico: sindaco di Palermo per soli 101 giorni nel 1984, verrà ucciso nel 1988 dopo la fine del maxiprocesso che aveva dispensato molti ergastoli ai mafiosi. Leoluca Orlando dirà all’autrice che è stato ucciso «con il consenso dei salotti politici palermitani»: aveva deciso di fare una rivoluzione, di cambiare lo stato delle cose, ed è stato tolto di mezzo; la tragedia è che i mafiosi sono stati colpiti, i mandanti politici no; e che la vicenda sia stata minimizzata, svalutata, affossata anche materialmente proprio perché aveva rischiato di far trapelare la verità. Nel penultimo capitolo Stancanelli descrive «il contrasto tra le raggelanti testimonianze di ex sindaci, ex consiglieri comunali – la città bianca che parla dell’anima nera della politica, che dice cose enormi in un’aula di tribunale – e il silenzio di giudici, pubblici ministeri, avvocati». Davanti a loro sfilano il sindaco Leoluca Orlando, l’ex capogruppo del Pci Simona Mafai, la pediatra Elda Pucci, con testimonianze da brivido, e la Corte non fa una piega: saluta e ringrazia.
La ricognizione di Stancanelli è doviziosa e avvincente e sottolinea lo stridore fra la vita tutta in superficie dei paninari del «continente» e quella remota, umbratile e inchiavardata della mafia siciliana: «Negli sgargianti anni Ottanta, che si esaltano nella religione dell’apparire e celebrano gli yuppies, il denaro, lo scialo e lo spreco, la mafia dei Ganci, di Riina, pratica un vivere sottotraccia, un navigare sotto il pelo dell’acqua, tra palazzine popolari, orti e giardini di periferia, stalle e pollai». Una mafia ricchissima di denaro e di risorse che però sceglie di vivere nel deserto dei nascondigli pur di detenere ed esercitare il potere.
L’affresco di Bianca Stancanelli fa emergere il «come» la Sicilia abbia influenzato e influenzi la vita del nostro Paese, ma anche sulle analogie che si scorgono fra la pentecostale cultura della morte così incistata in una mafia ossificata, trincerata e corrotta e lo stile altrettanto rigido, corrotto ed esangue di alcuni Paesi musulmani. Se molti paesi arabi non avessero avuto funzionari così desolatamente corrotti sarebbe forse stato meno difficile mettere in figura la loro ventura, l’ingiustizia che li caratterizza. Peraltro, sia la mafia sia i potentati come l’Egitto spesso si avvalgono della svalutazione di una vittima della mafia o della politica per porre l’enfasi sulla miseria morale o materiale di chi è morto e allontanare i riflettori dalle vere cause della sua sventura. Quando Stancanelli racconta del poveraccio che aveva assistito per caso al ritorno degli assassini della strage di Portella della Ginestra, «lupara in spalla e mitragliatrice sottobraccio» ed era stato poi ucciso, la motivazione fornita dall’Ispettorato generale di Pubblica sicurezza, delitto d’onore poiché l’uomo era «donnaiolo» e «pederasta attivo», richiama alla mente le pretestuose accuse mosse al nostro Giulio Regeni, torturato e ammazzato in Egitto, secondo cui sarebbe morto a causa delle sue frequentazioni sessuali o per storie di droga.
Insalaco, comunque, e il suo desiderio mai sopito di fare la cosa giusta in onore del padre carabiniere che amava, costituisce anche la testimonianza della libertà ineliminabile che esiste in ciascuno di noi anche nelle circostanze più avverse. Stancanelli cita Anatomia di un istante, di Javier Cercas: «Borges dice che “qualunque destino, per lungo e complicato che sia, consta in realtà di un solo momento: quello in cui l’uomo sa per sempre chi è”». L’autrice chiosa: «E se il tutto di cui lo credevano capace era il piegarsi e servire, il tutto di cui divenne capace fu la ribellione»

IL MANIFESTO  20 aprile 2016.

Nessun commento:

Posta un commento