Dal
numero 73/ 2016 della rivista nuovi argomenti , riprendiamo il “diario” linguistico di Tullio
De Mauro: cinquant’anni di storia d’Italia attraverso l’evoluzione
della nostra lingua.
Centenario dantesco
Il primo giugno 1965 cade il settecentesimo
anniversario della nascita di Dante. L’accademia italiana organizza
grandi manifestazioni. Per dirla con Altan, è tutto un fiorire di
iniziative. Un grande e severo studioso, Eugenio Garin, commenta: «Dante
fu popolare, non popolari ne sono state le celebrazioni».
Però: per l’occasione del centenario l’IBM e
il nascente CNUCE, Centro Nazionale Universitario di
Calcolo Elettronico, cui l’IBM aveva donato un potente calcolatore,
presentarono un prezioso biglietto da visita: una concordanza della Divina Commedia ottenuta
computando elettronicamente le occorrenze delle circa settemila parole
del poema. Le rilevazioni elettroniche e, più in genere, la statistica
linguistica erano allora viste o, meglio, intraviste come un oggetto
misterioso e malfido. Pochi avevano notizie precise della grande impresa
di lemmatizzazione delle opere di san Tommaso avviata a Gallarate da
padre Roberto Busa con il supporto della IBM. Era restata una rara avis l’inserzione di una voce Statistica linguistica nell’Appendice III, 1961, dell’Enciclopedia italiana. La
concordanza dantesca per la prima volta metteva sotto gli occhi di
letterati, filologi, linguisti italiani un concreto esempio
delle potenzialità dell’elettronica applicata all’analisi di testi. Ma
la diffidenza durò, ed è durata ancora a lungo, fino alle soglie del
travolgente imporsi della rete nella nostra quotidianità.
E bisogna ricordare un secondo però,
fuori delle celebrazioni accademiche: l’impegno della RAI che dalla
primavera 1965 a quella 1966 promuove un ciclo di trasmissioni dedicate
alla Divina Commedia. In ciascuna trasmissione a un commento
introduttivo di Natalino Sapegno segue la lettura di un canto di volta
in volta affidata a un attore teatrale di valore come Giorgio
Albertazzi, Tino Carraro, Antonio Crast, Carlo D’Angelo, Arnoldo Foà,
Achille Millo, Romolo Valli…
Pasolini
Soprattutto «Il Giorno», ma anche altri
giornali, fin dal gennaio 1965 continuano a ospitare reazioni e commenti
di scrittori, tra cui Alberto Arbasino, Pietro Citati, Ottiero Ottieri e
conseguenti repliche di Pasolini alla conferenza tenuta da lui nel
dicembre 1964. Nell’ambito delle conferenze promosse ogni anno tra
autunno e primavera dall’Associazione culturale italiana diretta e
animata da Irma Antonetto, in una settimana l’oratore si spostava dal
Teatro Alfieri di Torino a Firenze, dall’Eliseo di Roma a Napoli e Bari.
In ogni città amici e gentildonne amiche della signora Antonetto, come a
Roma Irma Cardona e il marito Giacinto, organizzavano un ricevimento in
onore dell’oratore. La conferenza di Pasolini, intitolata Nuove questioni linguistiche fu
prontamente catturata da Michele Rago e pubblicata in «Rinascita» nello
stesso dicembre. Pasolini vi parla della scomparsa dei dialetti e della
loro ormai sopravvenuta arcaicità e inaugura così quel tema della «morte dei dialetti» che è poi diventato per una trentina d’anni un topos anche tra specialisti, prima che l’evidenza del loro uso pur sempre persistente si imponesse (come si racconta in Storia linguistica dell’Italia repubblicana,
p. 112). E in rapporto alla presunta sparizione dei dialetti non solo
Pasolini vede o intravede l’espansione dell’uso dell’italiano, ma
dichiara solennemente: «Non senza emozione, mi sento autorizzato ad
annunziare che è nato l’italiano come lingua nazionale».
[Una nota strettamente personale, una
confessione. Allora e ancora per anni ho coltivato il sospetto (non
senza un bel po’ di meschino risentimento) che Pasolini avesse
conoscenza di un libro che avevo pubblicato un anno prima, Storia linguistica dell’Italia unita. Il
libro raccontava, dati statistici alla mano, il difficile cammino delle
popolazioni italiane verso la piena conquista della conoscenza e
dell’uso della lingua nazionale. Uno o due anni dopo la conferenza di
Pasolini un amico comune, Francesco Compagna, mi raccontò di aver
chiesto a bruciapelo a Pasolini se conosceva il libro e Pasolini avrebbe
scosso il capo rispondendo che quello era un manuale, un testo
“scolastico” (avrebbe detto) e che no, non lo conosceva. Oggi penso che
fosse nel vero. Pasolini certamente non aveva bisogno della Storia né probabilmente, se la vide, ne tenne conto.]
L’attenzione ai dialetti, alle loro
tradizioni diverse, maturò in Pasolini prima e dopo il trasferimento da
Udine a Roma, si affinò poi nel contatto con Dell’Arco e Sciascia, nelle
ricerche per il Canzoniere italiano, nelle esperienze e
notazioni lessicali che utilizza nei due romanzi e si arricchì nel 1963
attraverso i contatti in presa diretta per i Comizi d’amore.
Essa era tale da renderlo sensibile al gran sommovimento che tra tardi
anni Cinquanta e prima metà degli anni Sessanta andava avvenendo negli
strati profondi della società italiana. Altri che intervengono a
discutere la sua conferenza sono lontani dall’avere questa competenza
vissuta sul campo.
A metà anni Cinquanta il 64% della popolazione italiana, secondo una stima non contraddetta (fatta nel 1963 nella Storia linguistica dell’Italia unita),
parlava abitualmente soltanto uno dei dialetti italiani, il 18%
dichiarava di parlare abitualmente solo italiano, il 18% apparteneva a
quello che nei decenni seguenti diventa il partito linguistico di
maggioranza, il partito di chi parla sia in italiano, specie nei
rapporti con estranei e in sedi pubbliche e formali, sia in dialetto,
specie in casa e con amici in occasioni informali. I dieci anni
successivi vedono un vero e proprio sommovimento della base sociale e
culturale del paese. È quello che Pasolini comincia ad avvertire con
ansia fin dal 1955. (1) Un esodo enorme, una vera Völkerwanderung,
porta milioni di persone dalle campagne verso le città, dal Mezzogiorno
verso il Nord, in particolare, all’inizio, verso il “triangolo
industriale” Torino, Milano, Genova, sicché nelle grandi città si creano
condizioni inedite (verificatesi prima solo a Roma fin dal secondo
Cinquecento) di mescolanza tra popolazioni di dialetto diverso. (2) Gli
strati poveri, ragazzi e famiglie, premono sulle scuole perché a tutta
la nuova generazione sia dato di conquistare la licenza elementare e di
proseguire poi gli studi oltre le elementari, ciò cui viene incontro dal
1962 la creazione della scuola media obbligatoria unificata. (3) Dal
1955 esplode l’ascolto televisivo: informazione e intrattenimento a
basso costo e, soprattutto, voci italiane entrano in case e ambienti
dove mai l’italiano era risuonato. [Con gli occhi di oggi occorre
aggiungere un quarto fattore, che negli anni Sessanta sfuggì, tanto era
ovvio: la vita politica democratica, la partecipazione attiva di alcuni
milioni di persone alle grandi organizzazioni di massa socialcomuniste e
cattoliche, e alle associazioni cooperative a partire dai tardi anni
Quaranta crearono luoghi e agenzie di intenso interscambio e di crescita
culturale comune, anche linguistica, tra centro e periferia e tra
periferie diverse.]
Tutto convergeva a rafforzare ed espandere
l’uso dell’italiano e ad ampliare anche il suo raggio di azione
semantica, che comincia a dilatarsi dai tradizionali contenuti formali
verso il mondo della quotidianità e degli affetti fino ad allora
tradizionale dominio della dialettalità. Pasolini vede, percepisce
l’espansione. Da «bestia di stile» percepisce anche i pericoli degli stingimenti e delle contaminazioni. Non
ha gli strumenti per inquadrare e descrivere analiticamente i fenomeni.
Non gli interessa averli. Parte a testa bassa contro i pericoli, veri o
presunti. Sottovaluta radicamento e persistenza dei dialetti. Commette
errori vistosi, che alcuni gli contestano subito, sostenendo che
l’italiano va diventando una lingua tecnologica e additando in un brano
di Aldo Moro, barese, politico pensoso e giurista, l’esempio del nuovo
italiano tecnologico a base settentrionale.
Ma dai tempi della relazione di Manzoni
nessuno aveva suscitato tanta passione e tanto interesse per lo stato e
le sorti della comunità linguistica nazionale. (La folla di
dichiarazioni di intellettuali intervenuti a commentare la conferenza di
Pasolini fu poi raccolta dal linguista salentino Oronzo Parlangèli
(1923-1969) poco prima della sua scomparsa in un volume, La nuova questione della lingua, poi più volte riedito dalla Paideia di Brescia).
L’antilingua o del terrore semantico
Il 3 febbraio 1965 «Il Giorno» pubblica, tra gli altri commenti alla conferenza di Pasolini, un saggio breve, L’antilingua. Calvino
vi mette in scena un brigadiere che raccoglie la testimonianza di un
portiere su un furto nelle cantine: le parole semplici e precise del
portiere sono tradotte dal brigadiere verbalizzante in antilingua, un
impasto di termini giuridici, burocratici, edilizi, aulici e altri di
più incerta provenienza ma tutti adatti a tener lontane le parole
semplici e dirette che il portiere usa. Questo non è italiano
tecnologico, è una incrostazione cui non il solo brigadiere, ma ogni
istruito italiano si sente obbligato pur di evitare le espressioni
immediate e dirette. Chi scrive in italiano soffre di terrore semantico,
di paura e vergogna che lo trattengono dall’uso di parole troppo
dirette. Anche le parole precise di tecniche e scienze andrebbero bene,
obietta Calvino a Pasolini, se si innestassero in modo appropriato e
comprensibile nel tessuto di una lingua viva e diretta. L’italiano non è
nato, come pensa Pasolini, piuttosto l’italiano sta morendo, se non si
libera del terrore semantico e dell’incapacità di modernizzarsi
accogliendo e usando appropriatamente parole delle scienze e delle
tecniche.
Tesi non nuove. Si possono ricordare
almeno le ironiche considerazioni di Croce sui «belli parlari», imposti
dalle pretese puristiche nelle scuole, e contro il mal abito di usare
parole ricercate in sostituzione di quelle che affiorano più
spontaneamente nella mente di chi scrive; e, poi, le ironie e polemiche
di Antonio Gramsci contro il “neolalismo” degli intellettuali italiani
che soffrono di ostentata separatezza dalla massa nazional-popolare; e,
più tardi ancora, la polemica denunzia fatta fin dai primi numeri della
rivista “Il Mulino” contro i guasti linguistici prodotti dalla pratica
dei temi scolastici. Anche la ricordata Storia linguistica aveva
documentato la fuga dal parlato prodotta nelle scuole dalla fobia
antidialettale: questa spinge a evitare nello scrivere parole come andare, faccia o rabbia che
abbiano un immediato e quasi esattamente consonante equivalente
dialettale, e a sostituirle con parole di sola tradizione letteraria e
libresca. L’analisi delle ragioni manca nello scritto di Calvino. Ma il
testo sulle autocensure del povero brigadiere è assai efficace, un vero
colpo di genio che ha poi alimentato gli sforzi per difendere i diritti e
il dovere di una scrittura più diretta, meglio pensata per essere
comprensibile.
La casalinga di Voghera, e non lei sola
Nell’aureo periodo in cui la RAI continua a
svolgere con intensità un’azione di innovazione culturale (memorabili
le telelezioni per adulti analfabeti Non è mai troppo tardi di
Alberto Manzi, svolte dal 1960 al 1968) tra le varie articolazioni
aziendali opera il «Servizio opinioni» diretto da Pompeo Abruzzini. Il
Servizio pubblica una serie di «Appunti del servizio opinioni». La veste
è modesta, sono fascicoli ciclostilati. Il contenuto è spesso prezioso,
come nel caso del fascicolo 37 «Risultati di un’indagine sulla
comprensione del linguaggio politico». L’indagine, svolta nel 1966, è
molto accurata e resta quasi un unicum per quanto riguarda
l’accertamento della comprensione di testi parlati. Una sobria premessa
avverte che sono stati intervistati mille adulti, maschi e femmine. Non
si tratta di un campione stratificato, che voglia essere statisticamente
rappresentativo della popolazione italiana, ma di un sondaggio, un
“carotaggio” in profondità, nella realtà linguistica e nelle capacità di
comprensione di cinque gruppi di adulti e adulte tra 25 e 45 anni. I
gruppi sono volutamente eterogenei: casalinghe di Voghera, senza o con
sola licenza elementare; contadini di Andria, senza o con sola licenza
elementare; operai di Milano, con licenza elementare o media inferiore;
casalinghe di Bari, con licenza media inferiore o superiore; impiegati
di Roma, con licenza media superiore o laurea. Agli intervistati si
chiede di indicare, rispondendo a test a scelta multipla, la o le
definizioni preferibili di venti vocaboli chiave dell’informazione
politica (da scrutinio o leader a ministro senza portafoglio o potere esecutivo, fino a mozione e legislatura).
Inoltre si sottopongono agli stessi due brevi testi parlati, uno
standard e un altro rielaborato in forma più lineare, saggiando il
diverso grado di comprensione. Abbastanza prevedibilmente (almeno per i
pochi che avevano allora e hanno ancora oggi un’idea dei livelli di
scolarità e della loro relazione con le capacità linguistiche) il gruppo
che rivela minori capacità di comprensione dei vocaboli e dei testi è
quello delle casalinghe di Voghera. Queste, nelle reazioni di commento
ai dati, divertite, spesso solo folcloristiche e approssimative,
diventano il simbolo stereotipato della parte di popolazione col più
basso livello linguistico e culturale. Ma avrebbero meritato attenzione
anche gli impiegati laureati di Roma. Anche tra loro le percentuali
degli incompetenti che ignorano il senso di vocaboli chiave sono
ragguardevoli; 22% per ramo del Parlamento, legislatura 47%, dicastero e promulgazione di una legge 50%, mozione 58%.
Un ceto dirigente più attento, oltre che ridere degli abbagli, avrebbe
potuto trarre già allora conclusioni operative e mettere almeno mano a
un progetto di rimozione degli ostacoli alla comprensione. Così non fu.
Restarono senza eco le parole con cui Abruzzini concludeva la
presentazione del lavoro: «Il complesso di queste interviste […] dà un
succinto panorama della diffusa ignoranza del significato dei principali
termini del linguaggio politico e permette quindi di intuire
l’importanza di alcune barriere che si frappongono fra il mondo della
vita politica ed ampi strati della popolazione nazionale,
pregiudicandone un’attiva e consapevole partecipazione».
Dialetto anche con i continentali
Dal 1964 mi era stato dato a Palermo un
incarico di glottologia nella Facoltà di Lettere sul posto lasciato
libero da Marcello Durante, che aveva cominciato la sua risalita
universitaria verso il nord. Incontrai subito Giuseppe Cocchiara,
preside della Facoltà, con una certa emozione: era un grande amico,
forse il più intimo, del mio professore, Antonino Pagliaro (la leggenda
vuole che tutte le sere si telefonassero per consultarsi sulle vicende e
persone dell’università), ed era il grande antropologo e demologo che
aveva ravvivato questi studi in Italia. Scoprii che era un lettore
attento dei miei lavori di aspirante linguista. Forse la mia provenienza
(Pagliaro, insieme a Salvatore Battaglia, era un nume tutelare
dell’università siciliana), forse la stima e simpatia di Peppino
Cocchiara, forse anche la rete di amicizie di mio fratello, da molti
anni giornalista dell’«Ora», mi aprirono la via verso strette amicizie
con i colleghi locali e verso tutta la loro affettuosa ospitalità. Nelle
due settimane al mese che passavo a Palermo all’insegnamento si
accompagnava una intensa vita di relazione con i colleghi
dell’università e loro consorti, e anche con Leonardo Sciascia. Tra cene
e pranzi osservavo l’andamento delle conversazioni e cominciai a
intravedere un paio di regole generali. (1) In pranzi e cene le mogli
siedono tutte vicine a un estremo della tavolata, i maschi tutti insieme
vicini da un’altra parte (l’impressione è che le mogli si vedano tra
loro solo in queste occasioni). (2) La conversazione comincia a
svolgersi in italiano, ma imparo presto a capire che questa è per la
parte maschile del tavolo una gentilezza verso l’ospite continentale. Se
la conversazione si scalda, se si comincia a parlare con passione di
politica o di studi o di letteratura, tra i maschi l’italiano cede
rapidamente il passo all’uso del dialetto, il dialetto nobile,
demunicipalizzato, della borghesia colta dell’antica capitale. Solo le
donne continuano a parlare italiano, sempre. Conoscendole meglio capisco
che conoscono benissimo il dialetto nativo, ma l’italiano è una scelta
che tendono a fare sempre più di frequente, anche con amiche meno o più
conosciute, anche in casa, specie con i bambini. Per la prima volta vedo
affiorare una tendenza che poi si è rivelata sempre meglio: le donne,
specie le più giovani, sono le principali attrici, le protagoniste
dell’espansione dell’uso dell’italiano accanto al dialetto e più in
generale sono diventate poi protagoniste della crescita culturale
collettiva. [Una dozzina d’anni dopo, scrivendo un capitolo sulla
cultura per un volume Laterza, Dal ‘68 a oggi. Come siamo come eravamo,
ho potuto riprendere quest’ipotesi rafforzandola con i primi dati
statistici Doxa sull’uso di italiano e dialetto, sulla lettura,
sull’andamento scolastico: già alla fine degli anni Settanta era o
avrebbe dovuto essere evidente la superiorità culturale delle donne
rispetto ai connazionali maschi].
Qua e là nell’italiano, specie femminile, mi pareva che affiorasse qualche parola ipercorretta tipo porgimi il sale per passami o dammi il sale. E
c’era qualche elemento regionale che, come allora ho imparato, può
salire fino all’italiano formale che si parla in una lezione
universitaria o in una conferenza: sconoscere “ignorare”, da recente “di recente”. [Se la memoria non m’inganna colgo già allora come tratto locale settimana scorsa “la settimana scorsa”, mese passato “il
mese passato”, che almeno dai primi anni Duemila, come attestano la
rete e risposte a quesiti della Crusca, ormai si colgono spesso in
persone d’ogni provenienza regionale. Queste omissioni d’articolo sono
talora accusate di settentrionalismo, ma credo non bene: sono infatti
frequenti e anteriori le attestazioni napoletane, oltre che siciliane].
Il boom della linguistica
Dalla metà degli anni Sessanta il buon
successo di alcuni libri di linguistica appena pubblicati dal Saggiatore
e da Laterza induce gli editori ad aprire i loro cataloghi a testi
fondamentali della linguistica europea e nordamericana. Michele Rago
scrive in quegli anni che per decenni i linguisti italiani avevano
«montato la guardia sulle Alpi» per impedire l’ingresso allo straniero.
Forse Rago eccedeva. Certo però dopo Ascoli si era creato un forte
distacco tra linguistica italiana e linguistica mondiale (lo aveva
rilevato nel 1932 Leo Spitzer recensendo la miscellanea in memoria di
Ascoli). A metà anni Sessanta le frontiere si aprono. Più che la
glottologia accademica established sono allora giovani
linguisti e rari cattedratici come Luigi Heilmann (in genere sono gli
stessi che nel 1996 danno vita alla Società di Linguistica Italiana), a
rimontare la china con l’aiuto decisivo dell’editoria e di alcuni
giornalisti attenti, come Rago, Gianfranco Corsini, l’assai più giovane
Enzo Golino. Laterza pubblica in rapida successione gli Elementi di linguistica generale di
André Martinet, curati da Giulio Lepschy, che accompagna il libro con
un prezioso glossario plurilingue, e poi testi di Leroy, curato da Anna
Morpurgo, Coseriu e Robins, entrambi tradotti e curati da Raffaele
Simone, Le strutture della sintassi di Chomsky, curato da Francesco Antinucci, Shaumian, curato da Eddo Rigotti, gli Itinerari filosofici del semanticista statunitense Paul Ziff, La linguistica americana di
Charles Hockett, tradotto da Giorgio Cardona, la silloge di saggi sulla
comunicazione verbale e non verbale di altri animali e degli umani
sovrintesa da Robert Hinde, tradotta da Raffaele Simone, il Manuale di linguistica generale di John Lyons, curato da Francesco Antinucci. Feltrinelli pubblica nel 1966 i Saggi di linguistica generale di
Roman Jakobson, curati da Luigi Heilmann. L’anno stesso il Mulino
inaugura, diretta da Heilmann, redattore capo è Luigi Rosiello, una
nuova e a lungo fortunata rivista, «Lingua e stile», aperta agli apporti
italiani e stranieri di teoria generale e di impronta prevalentemente,
ma non esclusivamente, strutturalista, cui seguono volumi di Rosiello e
Durante. Einaudi pubblica nel 1966, La linguistica strutturale di
Giulio Lepschy, diventato un testo standard nelle università dei molti
paesi in cui viene tradotto, e poi un grande classico, i Fondamenti della teoria del linguaggio di
Louis Hjelmsev, curato dallo stesso Lepschy. Boringhieri pubblica tre
volumi degli scritti degli anni Sessanta di Chomsky. Bompiani, a parte
il succedersi delle opere di Umberto Eco, pubblica la monumentale Zoosemiotica curata
da Sebeok. Si impegnano anche editori minori. Nel 1965 presso l’editore
Morano di Napoli Tristano Bolelli pubblica, curandola con i suoi
allievi, l’antologia Per una storia della ricerca linguistica. Ubaldini pubblica i Principi di noologia di
Luis Prieto. L’elenco precedente dà una buona idea dell’effervescenza
editoriale che accompagna la linguistica in quegli anni, quasi un
fenomeno di massa. Qualcosa del genere può dirsi, per l’immediato e
durevole successo editoriale, del Corso di linguistica generale di
Ferdinand de Saussure, pubblicato nel 1967 e da subito e poi più e più
volte ristampato e riedito ogni tre quattro anni da Laterza. L’apparato
di introduzione, commento al testo, notizie biografiche e critiche, fu
poi tradotto in francese, nel 1972, dall’editore Payot in quella che è
diventata l’edizione standard del Cours de linguistique générale, assunta a base delle molte successive traduzioni dell’opera in altre lingue.
Guerriglia urbana
Una notte di fine aprile del 1966 siamo
seduti a terra in circolo, alcuni professori ma soprattutto studenti, in
un andito dei corridoi dell’Istituto di Fisica dell’Università di Roma.
Discutiamo dello stato e delle prospettive dell’occupazione della
Sapienza che dura da alcuni giorni.
Il 26 aprile una banda di picchiatori
fascisti guidati da Stefano Delle Chiaie e Serafino Di Luia assale e
pesta ragazze e ragazzi che, sulla scalinata di ingresso a Lettere,
distribuiscono volantini delle varie liste che concorrono alle elezioni
del parlamentino degli studenti universitari, l’ORUR, organismo
rappresentativo universitario romano. L’impresa fascistica non era cosa
nuova. Da anni e anni, specie in occasione delle elezioni
studentesche, bande di fascisti mandavano all’aria i panchetti dei seggi
elettorali e, lasciando da parte i neofascisti della Caravella,
pestavano duramente i rappresentanti delle altre liste. Spesso
arrivavano capeggiati da qualche parlamentare del movimento sociale
italiano che agiva sicuro protetto com’era dall’immunità nel caso
sopravvenisse la polizia. Caso altamente improbabile: il garante
dell’ordine nell’intera Sapienza era un mite poliziotto in borghese che
arrivava trafelato, ovviamente sempre a cose fatte, per constatare i
danni e consolare i più malconci. I giornali romani il giorno dopo
titolavano “Scontri tra opposte fazioni all’università”. Quando gli
studenti andavano a protestare dal Rettore costui a volte li riceveva e
sempre faceva l’equidistante invitandoli a evitare scontri con i
fascisti.
Ma il 26 aprile le cose andarono
diversamente. I fascisti agirono con assai maggior violenza. Qualcuno
prese a spintoni uno degli studenti presenti, un giovane cattolico e
socialista candidato dell’unione goliardica romana, Paolo Rossi, e lo
fece cadere dal ripiano più alto della scalinata. Il ragazzo entrò in
coma per il trauma cranico. La reazione degli studenti, ma anche di
alcuni docenti, fu immediata: per protesta la Facoltà fu occupata.
L’equidistante Rettore chiamò la polizia per sgombrare la Facoltà.
L’intervento della celere fu di inusuale violenza. Nei locali di
Filosofia alcuni docenti e studenti si erano sdraiati a terra per
opporre resistenza passiva allo sgombro della polizia. I poliziotti
acchiappavano per i piedi i resistenti e li trascinavano stesi a terra
nei corridoi e poi anche per le scale fino all’esterno. Ricordo ancora
Maria Corda Costa, una valorosa pedagogista, ma anche ragazzine allora
mie alunne, come Chiara Ingrao, rimbalzare doloranti e protestanti sugli
scalini. Scene assurde. Una rinnovata reazione si estese a tutte le
Facoltà, l’intera università fu occupata. Mentre giungeva la notizia
della morte di Paolo Rossi. La protesta, attraverso assemblee notturne,
andò acquistando forma. Si chiedevano le dimissioni del Rettore e una
riforma dei chiusi ordinamenti accademici. Cortei di operai e di
studenti delle scuole superiori, spesso con i loro insegnanti, e
intellettuali di spicco, come Alberto Moravia, Pasolini, Vito Laterza,
venivano a portare la loro solidarietà. Le cose erano a questo punto
quella notte d’aprile quando discutevamo nei corridoi di fisica.
Tre o quattro posizioni si fronteggiano. I
pessimisti sono convinti che l’occupazione non possa durare ancora a
lungo. Ma durare è un obbligo verso il sostegno che si va profilando nel
paese: bisogna resistere almeno finché il Rettore non si dimetta.
Altri, terza posizione, aggiungono: finché i partiti di sinistra non
presentano in parlamento proposte di legge di riordino dell’università.
Ma qualcuno ha dubbi, si profila una quarta posizione: è inutile stare
chiusi nell’università, bisogna uscirne. Un giovane docente di
filosofia, Alberto Gianquinto, che ha appena ricevuto l’incarico di
insegnamento di Logica (materia finalmente istituita nella Facoltà di
Lettere), è il più deciso. Bisogna uscire dall’università e, dice,
organizzare la guerriglia urbana. Solo un anno dopo cominciarono a circolare alla macchia scritti di Carlos Marighella, solo nel 1969 Feltrinelli pubblica Guerriglia urbana in Brasile. Quella
notte d’aprile parecchi sentirono per la prima volta questa espressione
che risultava oscura, annunzio di prospettive ancora più oscure.
[Il Rettore Giuseppe Ugo Papi poi, in
quegli stessi giorni, si dimise. La terza posizione acquistò forza. Il
partito comunista dovette intuire che questo in realtà apriva il varco
alla quarta posizione. Due esponenti dell’ala sinistra, Pietro Ingrao e
Rossana Rossanda, furono mandati a parlare con gli occupanti per
persuaderli ad abbandonare l’occupazione in cambio dell’impegno a
promuovere una legge di riforma dell’università. Noi occupanti cedemmo,
nei primi giorni di maggio sgombrammo le Facoltà, come decise, senza
apparenti opposizioni, un’affollata assemblea nell’aula magna di
Giurisprudenza. Nella prima fila sedeva Tristano Codignola, l’unico che
alcuni anni dopo fece qualche passo concreto per avviare il rinnovamento
degli ordinamenti universitari. Tale fu la legge da lui sostenuta e
approvata in Parlamento nel dicembre che 1969 per consentire ai
diplomati di tutti i canali di scuola media superiore, e non più ai soli
uscenti dal liceo classico, l’accesso agli studi universitari. Ma i
licenziati dalle superiori erano una minoranza delle classi anagrafiche:
più della metà di ragazze e ragazzi venivano espulsi dalla media
inferiore prima di ottenere la licenza ed erano quindi ben lontani non
solo dalla laurea e dall’università, ma anche dal poter accedere alla
scuola media superiore].
1967: Lettera a una professoressa
Scritto dagli alunni della scuola di
Barbiana guidati da don Lorenzo Milani il libro è pubblicato dalla LEF,
Libreria Editrice Fiorentina. Scuote, allora e da allora, le coscienze
di chi lo legge. Per chi si occupa di linguaggio è una spinta decisiva a
cercare di capire «ce qu’il fait» (per riprendere le parole che usò
Ferdinand de Saussure) e cercare di farlo il meglio possibile anche a
fini di pubblica utilità.
Centenario olivettiano
Nel 1968 ricorre il centenario della
nascita di Camillo Olivetti. Adriano, suo figlio, geniale imprenditore e
appassionato politico antifascista e democratico, teorico e
realizzatore di un’impresa che reinveste i profitti in ricerca e cultura
e nella qualità della vita dei dipendenti, promotore negli anni
Cinquanta dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, del Movimento di
Comunità e dei centri omonimi di grande rilievo per la vita
intellettuale da Roma (dove il Centro fu diretto da Guglielmo Negri) al
sud, creatore della fondamentale casa editrice Comunità e della rivista
omonima, diretta poi da Renzo Zorzi, era morto improvvisamente nel 1960
per un ictus (ma allora e poi aleggiarono sospetti sulla sua morte, non
seguita da autopsia). Cadono fuori dei limiti cronologici di questi Fogli alcune
grandi produzioni industriali della Olivetti che hanno segnato epoche
dell’organizzazione concreta dell’attività intellettuale: nel 1950 la
macchina per scrivere portatile Lettera 22 (esposta poi in
permanenza al MOMA di New York) e la Lexicon Electrica, nel 1956 la
Divisumma 24 [La cosa non merita in sé interesse, ma per dare un’idea
posso dire che buona parte dei numeri della Storia linguistica non
sarebbero mai stati messi insieme senza che l’autore carpisse
periodicamente la Divisumma a Lydia e a Luigi Spaventa], nel 1959 il
grande calcolatore Elea, nel 1963 la nuova portatile Lettera 32. Per gli
amatori delle cose che potevano essere e non sono state (abbiamo cioè
lasciato che non fossero) si può ricordare ancora che nel 1965 a New
York viene presentato l’Olivetti Programma 101, anticipatore dei
personal computer, ultimo canto del cigno della straordinaria capacità
innovativa della Olivetti di Adriano. Ma già erano cominciati lo
smembramento, la dissipazione delle strutture di ricerca e le cessioni
per far cassa da parte dei nuovi azionisti. E già si disperdeva
quell’altra realtà straordinaria che fu il gruppo di intellettuali, non
solo ingegneri e grandi designer, ma letterati, sociologi, filologi,
raccolti all’Olivetti da Adriano: Renzo Zorzi e Riccardo Musatti, Geno
Pampaloni, Nello Ajello, Muzio Mazzocchi Alemanni, Franco Ferrarotti.
Per celebrare il centenario di Camillo
Olivetti si tiene a Milano (l’organizzazione è affidata a Umberto Eco)
un grande convegno internazionale: “I linguaggi nella società e nella
tecnica”. I maggiori linguisti e teorici logici del linguaggio di tutto
il mondo, come Yehoshua Bar-Hiller, Richard Montague, Emile Benveniste,
Marvin Minsky e Roman Jakobson, vi partecipano insieme a tecnici delle
ICT e sociologi. Grande è la risonanza. Per il pubblico intellettuale è
così definitivamente consacrata la centralità del linguaggio nella
realtà umana e la correlata centralità del suo studio tra le scienze
umane e non…
1972: esistono minoranze linguistiche in Italia?
La domanda e il dubbio aleggiavano tra i
parlamentari del tempo. Per cercare di rispondere il Servizio Studi di
Montecitorio avvia un’indagine che per la prima volta censisce le almeno
tredici minoranze alloglotte presenti in Italia da secoli. Le minoranze
dunque esistono. Nei decenni successivi a più riprese vengono elaborati
progetti di legge che cercano di onorare l’articolo 6 della Costituzione. Uno,
eccellente, nel 1989 supera l’approvazione di Montecitorio, ma, anche
per la fiera opposizione del Partito Repubblicano dell’epoca, viene
fatto decadere nel passaggio al Senato. Solo nel 1999 (cinquantuno anni
dopo la Costituzione) il Parlamento approva una legge in materia. Mediocre, ma, come si dice, meglio del niente semisecolare.
1973: «Parlare, leggere, scrivere»
Con questo titolo dal 12 settembre la RAI
manda in onda in prima serata un ciclo di cinque trasmissioni, ciascuna
di un’ora, per raccontare vicende passate e presenti della realtà
linguistica italiana. Il regista è Piero Nelli, autori sono De Mauro e
Umberto Eco. Dall’interno dell’azienda le trasmissioni sono state
promosse e seguite da Fabiano Fabiani, Emmanuele Milano e Enzo Golino.
[«Un’altra RAI» ha commentato molti anni dopo Aldo Grasso.]
1974: rilevazioni dell’uso di lingua e dialetti
La Doxa ha derivato dal suo geniale
fondatore, Paolo Luzzatto Fegiz, un rigoroso metodo nelle rilevazioni
campionarie e quella grande attenzione anche agli aspetti culturali
della vita delle popolazioni che rende tuttora preziosi i volumi Il volto sconosciuto dell’Italia (1956,
1984). Nel 1974, in coda a un’indagine di mercato rivolta ad altri
fini, la Doxa compie la prima rilevazione statistica sull’uso
dell’italiano e dei dialetti quale risulta dalle dichiarazioni del
campione di intervistati. Il 23,0% dichiara di parlare sempre italiano,
il 51,3% dichiara di non parlare italiano ma sempre e solo uno dei
dialetti, il 23,7% dichiara di alternare l’uso di italiano (in contesti
formali o con estranei) e di dialetto (in contesti familiari e con
amici). I dati riflettono bene le evoluzioni verificatesi tra anni
Cinquanta e Sessanta rispetto alle stime del 1963, fatte a partire da
dati del 1955, quando si stimò che sempre e solo italiano parlasse il
18% della popolazione e sempre e solo dialetto il 64%.
In anni successivi la Doxa ripete il
sondaggio e aggiorna altre volte i dati. Dal 1982 cominciano le
rilevazioni dell’ISTAT, su campioni di popolazione assai più ampi nel
quadro delle indagini sulla vita quotidiana degli italiani, sulla loro cultura in
senso rigorosamente scientifico e antropologico. Grazie a Doxa e
ISTAT è stato possibile seguire attraverso dati statistici il variare
dell’uso alterno di italiano e dialetto, l’espandersi dell’uso
dell’italiano nel linguaggio parlato e la correlativa regressione
dell’uso esclusivo del dialetto.
1974-75: gli insegnanti organizzano il loro autoaggiornamento
Alle tradizionali organizzazioni
“generaliste” cattoliche degli insegnanti, l’UCIIM (insegnanti medio
superiori) e l’AIMC (maestri), e laiche, la FNISM, Federazione Nazionale
Insegnanti Scuola Media, fondata nel 1901 da Gaetano Salvemini, e il
movimento di cooperazione educativa, si affianca ora il CIDI, Centro di
Iniziativa Democratica degli Insegnanti (elementari e medi). Tra le
associazioni di settore alla Mathesis, Società italiana di scienze
matematiche e fisiche, fondata nel 1895, si affianca un raggruppamento
interno alla SLI, Società di Linguistica Italiana, il GISCEL, Gruppi di
Studio e Intervento nel Campo dell’Educazione Linguistica (insegnanti
elementari e medi e ricercatori e docenti universitari). Le associazioni
hanno dato un contributo prezioso al rinnovamento di metodi e contenuti
degli insegnamenti e all’elaborazione di nuovi programmi della media
inferiore (1977) e delle elementari (1985) e successive sperimentazioni
nella media superiore, opera in questa direzione anche la rivista
«Riforma della Scuola» fondata nel 1975 da Dina Bertoni Jovine, Lucio
Lombardo Radice, Mario Alighiero Manacorda, Alessandro Natta e altri
intellettuali legati al PCI ma (secondo l’espressione di Lombardo
Radice) “rompiscatole”.
1977: i “nuovi programmi” della media inferiore
Varata nel 1962, la scuola media inferiore
unificata ha stentato e stenta ancora a funzionare come scuola capace di
far crescere le capacità e le conoscenze di tutte e tutti. Lo hanno già
da anni rivelato la denunzia appassionata dei ragazzi di Barbiana, ma
anche un magistrale studio analitico di Fiorella Padoa Schioppa, Scuola e classi sociali,
che chiama in giudizio l’intero apparato dell’istruzione. Una legge del
Parlamento offre la necessaria cornice legislativa al lavoro di
un’ampia commissione incaricata dal ministro di redigere nuovi programmi
che orientino la didattica verso la realizzazione degli obiettivi di
effettiva inclusione di tutte e tutti attraverso anzitutto la crescita
di adeguate competenze linguistiche e matematiche di ogni singolo
alunno. L’educazione linguistica assume un ruolo centrale
nell’apprendimento di tutte le materie, come qualche anno prima avevano
chiesto le Dieci tesi per una educazione linguistica democratica. Negli
anni seguenti a più riprese si è constatato che i “nuovi programmi”
sono restati poco noti e ancor meno praticati per la grande maggioranza
degli insegnanti. Sorte non migliore hanno avuto le Dieci tesi. Il GISCEL, che elesse le Dieci tesi a
suo manifesto fondativo e ha svolto un intenso lavoro di collegamento
tra ricerca linguistica e azione di rinnovamento dell’educazione
linguistica nelle scuole (lo testimoniano gli oltre quaranta volumi
della sua collana di studi), ha promosso a cadenza decennale indagini
sulla notorietà delle Tesi e sulla loro effettiva presenza
nella pratica didattica: è risultato che solo il 20% circa degli
insegnanti medi sa dell’esistenza di quel testo e meno del 10% dichiara
di attenervisi nel suo insegnamento. Il dato merita menzione perché
alcuni bravi studiosi, come Michele Loporcaro e Maurizio Dardano, hanno
ritenuto e scritto che quel testo sarebbe all’origine di ciò che loro
sembra lo sfacelo dell’intera scuola italiana.
Na lacuna e na carenza
I nuovi programmi chiesero agli insegnanti
di preparare e tenere aggiornata per ciascun alunno una scheda personale
che consentisse di capire nel tempo se e come crescono competenze e
conoscenze nei diversi ambiti. Nel formulare giudizi analitici, però,
gli insegnanti ricorrono spesso a formule stereotipate che piovono sulla
testa di alunni e genitori. Ho colto sul campo e annotato nelle
cronache linguistiche fatte per «Paese sera» e «l’Unità» (qui sotto il
falso nome di Luigi La Vista) un dialogo tra due madri all’uscita di una
scuola media della periferia romana. Un giorno, appena conosciuti i
giudizi, le due madri si scambiano notizie all’ingresso della scuola.
«Com’è annato tu fijo?». «Mah, me pare bene: cià solo na lacuna ‘n
giografia e na carenza de matematica. E er fijo tuo?». «Eh, sto fijo de
na bbona donna cià, lo possino, cià tre lacune e quattro carenze». Ai
rischi dell’antilingua di Calvino una parte della popolazione reagisce
piegando a un senso concreto e specifico espressioni ripetitive,
astratte e generiche. Vent’anni più tardi una vignetta d’Altan mette in
scena questo stesso che vivifica stereotipi astratti piegandoli alla
significazione di realtà concrete. La vignetta è un vero compendio di
storia linguistica (e non solo linguistica) dell’Italia repubblicana. Di
scena sono i due tradizionali metalmeccanici. Altan, come si sa, vive
nel Nord-est, i due metalmeccanici saranno piemontesi o lombardi, ma
nella vignetta il dialogo tra i due si svolge in quell’italiano venato
di romanesco che serve ormai in tutt’Italia ad alludere a una generica
dialettalità. (Paolo D’Achille ha parlato dell’italiano de Roma, ma esiste ormai un romanesco de Italia che
dal nord al sud serve a dare alle nostre espressioni il tono, per lo
più scherzoso e ammiccante, di una dialettalità generica). Il primo
metalmeccanico se ne sta seduto con aria sconsolata e dice: «Nun ciò na
lira e nun so più per chi votà». E il saggio Cipputi commenta: «Ecco er
famoso intreccio tra finanza e politica».
1977-1985: la scoperta dell’uso medio
Nel 1965 Calvino, osservando caratteri e
limiti della traducibilità in italiano di testi letterari di altre
lingue, dopo aver sottolineato le possibilità che la “grande duttilità”
dell’italiano consente al traduttore, aveva però aggiunto: «il vantaggio
del tradurre in italiano è relativo e parziale: per esempio, più si va
nel parlato, nel popolare, specie per le lingue che hanno una dimensione
gergale, più l’italiano fa cilecca, perché al livello popolare sconfina
subito nel localismo e nel dialetto, mentre al livello della
conversazione familiare, scherzosa, “borghese”, è sempre stucchevole e –
siccome il costume cambia di continuo – immediatamente “datato”.
L’”italiano medio”, come ben dice Pasolini, è “una lingua impossibile,
infrequentabile”». Forse già allora non era in realtà più così: la lunga
marcia verso l’appropriazione collettiva dell’italiano anche nel
parlato e negli usi informali comunemente accettati era già cominciata.
Ma la percezione dei due grandi scrittori era quella e confermava quel
che pochi anni prima affermava un intelligente linguista fiorentino,
Emilio Peruzzi, osservando che con l’italiano potevano scriversi poesie o
trattati filosofici, ma non parlare della quotidianità. Tra la fine
degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta emergono valutazioni
nuove che colgono i fatti nuovi. Nel 1977 Giulio e Anna Laura Lepschy
propongono agli inglesi che studiano italiano una presentazione dell’uso
colto della lingua «così come viene effettivamente usata, parlando e
scrivendo». Le vecchie norme puristico-scolastiche sono messe da parte a
vantaggio di un uso comune che si profila sempre più consistente. Negli
anni immediatamente seguenti Francesco Sabatini, con un suo ampio
studio analitico, Gaetano Berruto e altri ancora aprono le porte al
riconoscimento dell’ormai piena affermazione e accettazione di un “uso
medio” o “comune”. L’uso è ricco di tratti spesso reperibili già in
tempi antichi ma tenuti ai margini o condannati da norme puristiche e
insegnamento scolastico. Come osserva in quegli anni Giovanni Nencioni
quello che era stato “laboratorio di scrittori” ora è il lavoro
quotidiano di milioni di persone che parlano e, anche, osano ormai
scrivere esibendo questi tratti.
1980: nascono i “Libri di base”
Alla fine degli anni Settanta sono molte le
suggestioni che vengono da fonti diverse (Gramsci e don Milani, Calvino
e Orwell, Rudolf Flesch e Karl Kraus) e dallo stato della cultura
italiana spingendo a elaborare il progetto di un’“enciclopedia
scomponibile” che abbracci tutti i campi del sapere, tecnico, storico,
filosofico, scientifico, offrendo a chi legge libri redatti in modo
sistematicamente e studiatamente orientato al massimo possibile di
leggibilità e comprensibilità. Il progetto viene esaminato con simpatia
ma rifiutato da diversi editori (Vito Laterza, Tristano Codignola,
Giunti). Approda infine, grazie alla presidente del CIDI Luciana
Pecchioli, sulla scrivania di Roberto Bonchio, che dirige gli Editori
Riuniti, la casa editrice di proprietà del PCI. Bonchio lo accetta. Si
creano gli strumenti minimi indispensabili a garantire la leggibilità
dei testi (un vocabolario di base, alcune elementari regole di
scrittura). Si costituisce un gruppo di progettazione molto composito
quanto a competenze scientifiche e orientamenti politici (questa è una
condizione accettata da Bonchio e, non senza discussioni, dalla
proprietà e da molti suoi intellettuali di riferimento), si definiscono
contratti e si progettano prime annate di pubblicazione (dodici libri
l’anno), si costituisce una redazione, guidata da Elisabetta Bonucci,
capace di controllare e migliorare la leggibilità dei testi (i contratti
con gli autori hanno la forma di contratto per opera collettiva, che
permette l’intervento redazionale sui testi). Nel 1980 appaiono i primi
“Libri di base”.
Nel 1989 i “Libri di base” erano diventati
140, l’ultimo, di Antonio Cassese, dedicato alla legislazione
internazionale sui diritti umani. Nel decennio la vendita media superò
le 17.000 copie per titolo, una tiratura e vendita non consuete in
Italia per testi di saggistica. Alcuni sono veri best e long sellers, come la Guida all’alimentazione di Emanuele Djalma Vitali o L’infinito di Lucio Lombardo Radice o Che cos’è una legge fisica di
Carlo Bernardini. Ma nel 1989 affari interni della segreteria del
Partito e di alcuni familiari dell’allora segretario portano a una crisi
finanziaria della casa editrice e alla sospensione e poi chiusura sia
di “Riforma della Scuola” sia dei “Libri di base”. Curiosi personaggi
subentrano nella direzione di quel che resta della casa editrice (si
aggira nelle stanze tra gli altri Primo Greganti, il “compagno G” poi
ben noto e condannato per le vicende di Tangentopoli e di Milano Expo). I
nuovi dirigenti rifiutano le offerte (di Vito Laterza, di Inge
Feltrinelli) di rilevare in blocco e continuare l’impresa salvando anche
la redazione, licenziano invece i redattori e chiudono la collana. Non
si può dire che i “Libri di base” non abbiano avuto nessun seguito.
Hanno ispirato collane del Mulino e della Editrice Sindacale, forse
hanno aiutato a capire che è possibile anche in Italia una scrittura
saggistica non ermetica. Ma nel complesso sono purtroppo restati
malinconicamente un unicum nell’editoria italiana.
1993: un codice per il linguaggio delle pubbliche amministrazioni
Nel 1992, nominato ministro della funzione
pubblica nel governo Ciampi, Sabino Cassese affronta in modo fattivo il
tema delle pessime caratteristiche del linguaggio con cui le
amministrazioni pubbliche usano comunicare e si rivolgono al pubblico.
Viene insediato un gruppo di lavoro di cui fa parte, tra altre persone,
Emanuela Piemontese, forte delle esperienze di “scrittura controllata”
maturate mettendo a punto una procedura e formula di calcolo automatico
della leggibilità (con Piero Lucisano) e poi redigendo il mensile “di
facile lettura” per bambini e per marginali e svantaggiati «Due parole».
Il gruppo produce in pochi mesi un Codice di stile della comunicazione scritta ad uso delle pubbliche amministrazioni. Negli
anni seguenti, pur con lentezza, diverse pubbliche amministrazioni,
specialmente locali e regionali, hanno cominciato a rifarsi al Codice.
2001
Si conclude la prima indagine
internazionale sulle competenze di lettura, scrittura e calcolo delle
popolazioni adulte di alcuni paesi, tra cui l’Italia. L’indagine è stata
promossa da Statistics Canada negli anni Novanta e per la parte
italiana è stata svolta dal cede, Centro Europeo Dell’Educazione, allora
diretto da Benedetto Vertecchi. Le capacità linguistiche sono accertate
non sulla base di autovalutazioni (come nelle indagini ISTAT), ma in
modo “osservativo”, cioè verificando in un campione stratificato di
popolazione adulta in età di lavoro (16-65 anni) le capacità di
rispondere correttamente a cinque questionari di difficoltà crescente. I
primi due questionari individuano le (in)capacità di adulti che sono
sotto il livello minimo di competenze sufficienti a capire testi
semplici relativi alla vita quotidiana, sono cioè analfabeti funzionali (decifrano
lettere e numeri, ma stentano a mettere a frutto queste conoscenze). I
tre questionari successivi (cui accede chi ha superato i primi due)
determinano fasce crescenti di competenza. I risultati per l’Italia
attestano che una percentuale notevole (5%) non riesce nemmeno a
decifrare il testo del primo questionario, è cioè immersa nel più
completo analfabetismo strumentale. In complesso il 70% della
popolazione si colloca ai due primi livelli. È cioè al massimo
analfabeta funzionale, quando non è analfabeta strumentale.
I risultati sono presentati con una
conferenza stampa tenuta al Ministero della Pubblica Istruzione. La
notizia cade nella disattenzione pressoché totale degli organi di
informazione e delle forze politiche.
2013. Parlare l’italiano. E leggerlo?
Nell’ottobre Maria Chiara Carrozza,
studiosa di bioingegneria industriale di rilievo internazionale e al
momento ministra dell’istruzione, dichiara con molta schiettezza ai
giornali: «Quando ho letto quei dati ho fatto un salto sulla sedia! Non
volevo crederci». I dati che hanno fatto sobbalzare il ministro sono
quelli dell’indagine PIAAC, Programme for International Assessment of
Adult Competencies, svolto dall’OCSE in una trentina di paesi e
realizzato per l’Italia dall’ISFOL. La ministra non si limita a
sobbalzare. D’accordo con un altro ministro del governo Letta, Enrico
Giovannini, ministro del lavoro, vuole cercare di capire se e che fare,
nomina un gruppo di lavoro di economisti, pedagogisti, insegnanti, che a
tempi rapidi (due mesi) fornisca indicazioni operative. Il gruppo di
lavoro consegna il suo rapporto nel febbraio 2014, il giorno prima che
l’ormai proverbiale «Stai sereno» detto da Matteo Renzi a Letta sortisca
il suo noto effetto, le dimissioni di Letta e del suo governo e il
passaggio di mano all’augurante Renzi. I due ministri fanno a tempo a
leggere e approvare il rapporto e a pubblicarlo nei siti dei ministeri,
dove resta come una sacra apparizione achiropita cui nessuna mano e nemmeno occhio di successivi ministri ha osato accostarsi.
I dati PIAAC sono di sicuro interesse
economico, per capire le ragioni di fondo del lungo ristagno produttivo
dell’economia italiana dai primi anni Novanta, e di immediata rilevanza
linguistica. Un’utilizzazione in questa prospettiva ho cercato di dare
in Storia linguistica dell’Italia repubblicana. Come già
avevano rilevato due precedenti indagini internazionali sulle competenze
alfanumeriche degli adulti del 2001 e 2006, la popolazione italiana
adulta si segnala per bassi livelli di comprensione della lettura e di
calcolo e uso di ragionamento scientifico. Il 70% degli adulti italiani
si colloca sotto i livelli minimi di competenze alfanumeriche che
internazionalmente sono ritenuti necessari “per orientarsi nella vita di
una società moderna”. Poiché un’altra fonte preziosa di dati,
l’indagine multiscopo dell’ISTAT, fa stimare pari al 95% la percentuale
di popolazione che usa l’italiano nel parlare o in modo esclusivo (circa
50%) o in alternativa con un idioma locale, dialetto o lingua di
minoranza (45%), i dati suggeriscono l’immagine di una popolazione che
ormai e finalmente usa molto la sua lingua nel parlare ma solo per meno
di un terzo la possiede e usa con quel sufficiente livello di padronanza
che soltanto la consuetudine con la lettura può dare. Se è la lingua
che ci fa eguali, come dicevano don Lorenzo e i suoi allievi, ci
troviamo dunque dinanzi a un paese che, più di altri, nel suo linguaggio
è ancora segnato da diseguaglianze che possono sfuggire ai più se chi
le conosce e studia non sa chiarirne ad altri la portata.
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