13 aprile 2016

IL DIARIO LINGUISTICO DI TULLIO DE MAURO





Dal numero 73/ 2016 della rivista nuovi argomenti , riprendiamo il “diario” linguistico di Tullio De Mauro: cinquant’anni di storia d’Italia attraverso l’evoluzione della nostra lingua.

Centenario dantesco
Il primo giugno 1965 cade il settecentesimo anniversario della nascita di Dante. L’accademia italiana organizza grandi manifestazioni. Per dirla con Altan, è tutto un fiorire di iniziative. Un grande e severo studioso, Eugenio Garin, commenta: «Dante fu popolare, non popolari ne sono state le celebrazioni».
Però: per l’occasione del centenario l’IBM e il nascente CNUCE, Centro Nazionale Universitario di Calcolo Elettronico, cui l’IBM aveva donato un potente calcolatore, presentarono un prezioso biglietto da visita: una concordanza della Divina Commedia ottenuta computando elettronicamente le occorrenze delle circa settemila parole del poema. Le rilevazioni elettroniche e, più in genere, la statistica linguistica erano allora viste o, meglio, intraviste come un oggetto misterioso e malfido. Pochi avevano notizie precise della grande impresa di lemmatizzazione delle opere di san Tommaso avviata a Gallarate da padre Roberto Busa con il supporto della IBM. Era restata una rara avis l’inserzione di una voce Statistica linguistica nell’Appendice III, 1961, dell’Enciclopedia italiana. La concordanza dantesca per la prima volta metteva sotto gli occhi di letterati, filologi, linguisti italiani un concreto esempio delle potenzialità dell’elettronica applicata all’analisi di testi. Ma la diffidenza durò, ed è durata ancora a lungo, fino alle soglie del travolgente imporsi della rete nella nostra quotidianità.
E bisogna ricordare un secondo però, fuori delle celebrazioni accademiche: l’impegno della RAI che dalla primavera 1965 a quella 1966 promuove un ciclo di trasmissioni dedicate alla Divina Commedia. In ciascuna trasmissione a un commento introduttivo di Natalino Sapegno segue la lettura di un canto di volta in volta affidata a un attore teatrale di valore come Giorgio Albertazzi, Tino Carraro, Antonio Crast, Carlo D’Angelo, Arnoldo Foà, Achille Millo, Romolo Valli…

Pasolini
Soprattutto «Il Giorno», ma anche altri giornali, fin dal gennaio 1965 continuano a ospitare reazioni e commenti di scrittori, tra cui Alberto Arbasino, Pietro Citati, Ottiero Ottieri e conseguenti repliche di Pasolini alla conferenza tenuta da lui nel dicembre 1964. Nell’ambito delle conferenze promosse ogni anno tra autunno e primavera dall’Associazione culturale italiana diretta e animata da Irma Antonetto, in una settimana l’oratore si spostava dal Teatro Alfieri di Torino a Firenze, dall’Eliseo di Roma a Napoli e Bari. In ogni città amici e gentildonne amiche della signora Antonetto, come a Roma Irma Cardona e il marito Giacinto, organizzavano un ricevimento in onore dell’oratore. La conferenza di Pasolini, intitolata Nuove questioni linguistiche fu prontamente catturata da Michele Rago e pubblicata in «Rinascita» nello stesso dicembre. Pasolini vi parla della scomparsa dei dialetti e della loro ormai sopravvenuta arcaicità e inaugura così quel tema della «morte dei dialetti» che è poi diventato per una trentina d’anni un topos anche tra specialisti, prima che l’evidenza del loro uso pur sempre persistente si imponesse (come si racconta in Storia linguistica dell’Italia repubblicana, p. 112). E in rapporto alla presunta sparizione dei dialetti non solo Pasolini vede o intravede l’espansione dell’uso dell’italiano, ma dichiara solennemente: «Non senza emozione, mi sento autorizzato ad annunziare che è nato l’italiano come lingua nazionale».
[Una nota strettamente personale, una confessione. Allora e ancora per anni ho coltivato il sospetto (non senza un bel po’ di meschino risentimento) che Pasolini avesse conoscenza di un libro che avevo pubblicato un anno prima, Storia linguistica dell’Italia unita. Il libro raccontava, dati statistici alla mano, il difficile cammino delle popolazioni italiane verso la piena conquista della conoscenza e dell’uso della lingua nazionale. Uno o due anni dopo la conferenza di Pasolini un amico comune, Francesco Compagna, mi raccontò di aver chiesto a bruciapelo a Pasolini se conosceva il libro e Pasolini avrebbe scosso il capo rispondendo che quello era un manuale, un testo “scolastico” (avrebbe detto) e che no, non lo conosceva. Oggi penso che fosse nel vero. Pasolini certamente non aveva bisogno della Storia né probabilmente, se la vide, ne tenne conto.]
L’attenzione ai dialetti, alle loro tradizioni diverse, maturò in Pasolini prima e dopo il trasferimento da Udine a Roma, si affinò poi nel contatto con Dell’Arco e Sciascia, nelle ricerche per il Canzoniere italiano, nelle esperienze e notazioni lessicali che utilizza nei due romanzi e si arricchì nel 1963 attraverso i contatti in presa diretta per i Comizi d’amore. Essa era tale da renderlo sensibile al gran sommovimento che tra tardi anni Cinquanta e prima metà degli anni Sessanta andava avvenendo negli strati profondi della società italiana. Altri che intervengono a discutere la sua conferenza sono lontani dall’avere questa competenza vissuta sul campo.
A metà anni Cinquanta il 64% della popolazione italiana, secondo una stima non contraddetta (fatta nel 1963 nella Storia linguistica dell’Italia unita), parlava abitualmente soltanto uno dei dialetti italiani, il 18% dichiarava di parlare abitualmente solo italiano, il 18% apparteneva a quello che nei decenni seguenti diventa il partito linguistico di maggioranza, il partito di chi parla sia in italiano, specie nei rapporti con estranei e in sedi pubbliche e formali, sia in dialetto, specie in casa e con amici in occasioni informali. I dieci anni successivi vedono un vero e proprio sommovimento della base sociale e culturale del paese. È quello che Pasolini comincia ad avvertire con ansia fin dal 1955. (1) Un esodo enorme, una vera Völkerwanderung, porta milioni di persone dalle campagne verso le città, dal Mezzogiorno verso il Nord, in particolare, all’inizio, verso il “triangolo industriale” Torino, Milano, Genova, sicché nelle grandi città si creano condizioni inedite (verificatesi prima solo a Roma fin dal secondo Cinquecento) di mescolanza tra popolazioni di dialetto diverso. (2) Gli strati poveri, ragazzi e famiglie, premono sulle scuole perché a tutta la nuova generazione sia dato di conquistare la licenza elementare e di proseguire poi gli studi oltre le elementari, ciò cui viene incontro dal 1962 la creazione della scuola media obbligatoria unificata. (3) Dal 1955 esplode l’ascolto televisivo: informazione e intrattenimento a basso costo e, soprattutto, voci italiane entrano in case e ambienti dove mai l’italiano era risuonato. [Con gli occhi di oggi occorre aggiungere un quarto fattore, che negli anni Sessanta sfuggì, tanto era ovvio: la vita politica democratica, la partecipazione attiva di alcuni milioni di persone alle grandi organizzazioni di massa socialcomuniste e cattoliche, e alle associazioni cooperative a partire dai tardi anni Quaranta crearono luoghi e agenzie di intenso interscambio e di crescita culturale comune, anche linguistica, tra centro e periferia e tra periferie diverse.]
Tutto convergeva a rafforzare ed espandere l’uso dell’italiano e ad ampliare anche il suo raggio di azione semantica, che comincia a dilatarsi dai tradizionali contenuti formali verso il mondo della quotidianità e degli affetti fino ad allora tradizionale dominio della dialettalità. Pasolini vede, percepisce l’espansione. Da «bestia di stile» percepisce anche i pericoli degli stingimenti e delle contaminazioni. Non ha gli strumenti per inquadrare e descrivere analiticamente i fenomeni. Non gli interessa averli. Parte a testa bassa contro i pericoli, veri o presunti. Sottovaluta radicamento e persistenza dei dialetti. Commette errori vistosi, che alcuni gli contestano subito, sostenendo che l’italiano va diventando una lingua tecnologica e additando in un brano di Aldo Moro, barese, politico pensoso e giurista, l’esempio del nuovo italiano tecnologico a base settentrionale.
Ma dai tempi della relazione di Manzoni nessuno aveva suscitato tanta passione e tanto interesse per lo stato e le sorti della comunità linguistica nazionale. (La folla di dichiarazioni di intellettuali intervenuti a commentare la conferenza di Pasolini fu poi raccolta dal linguista salentino Oronzo Parlangèli (1923-1969) poco prima della sua scomparsa in un volume, La nuova questione della lingua, poi più volte riedito dalla Paideia di Brescia).

L’antilingua o del terrore semantico
Il 3 febbraio 1965 «Il Giorno» pubblica, tra gli altri commenti alla conferenza di Pasolini, un saggio breve, L’antilingua. Calvino vi mette in scena un brigadiere che raccoglie la testimonianza di un portiere su un furto nelle cantine: le parole semplici e precise del portiere sono tradotte dal brigadiere verbalizzante in antilingua, un impasto di termini giuridici, burocratici, edilizi, aulici e altri di più incerta provenienza ma tutti adatti a tener lontane le parole semplici e dirette che il portiere usa. Questo non è italiano tecnologico, è una incrostazione cui non il solo brigadiere, ma ogni istruito italiano si sente obbligato pur di evitare le espressioni immediate e dirette. Chi scrive in italiano soffre di terrore semantico, di paura e vergogna che lo trattengono dall’uso di parole troppo dirette. Anche le parole precise di tecniche e scienze andrebbero bene, obietta Calvino a Pasolini, se si innestassero in modo appropriato e comprensibile nel tessuto di una lingua viva e diretta. L’italiano non è nato, come pensa Pasolini, piuttosto l’italiano sta morendo, se non si libera del terrore semantico e dell’incapacità di modernizzarsi accogliendo e usando appropriatamente parole delle scienze e delle tecniche.
 Tesi non nuove. Si possono ricordare almeno le ironiche considerazioni di Croce sui «belli parlari», imposti dalle pretese puristiche nelle scuole, e contro il mal abito di usare parole ricercate in sostituzione di quelle che affiorano più spontaneamente nella mente di chi scrive; e, poi, le ironie e polemiche di Antonio Gramsci contro il “neolalismo” degli intellettuali italiani che soffrono di ostentata separatezza dalla massa nazional-popolare; e, più tardi ancora, la polemica denunzia fatta fin dai primi numeri della rivista “Il Mulino” contro i guasti linguistici prodotti dalla pratica dei temi scolastici. Anche la ricordata Storia linguistica aveva documentato la fuga dal parlato prodotta nelle scuole dalla fobia antidialettale: questa spinge a evitare nello scrivere parole come andare, faccia rabbia che abbiano un immediato e quasi esattamente consonante equivalente dialettale, e a sostituirle con parole di sola tradizione letteraria e libresca. L’analisi delle ragioni manca nello scritto di Calvino. Ma il testo sulle autocensure del povero brigadiere è assai efficace, un vero colpo di genio che ha poi alimentato gli sforzi per difendere i diritti e il dovere di una scrittura più diretta, meglio pensata per essere comprensibile.
La casalinga di Voghera, e non lei sola
Nell’aureo periodo in cui la RAI continua a svolgere con intensità un’azione di innovazione culturale (memorabili le telelezioni per adulti analfabeti Non è mai troppo tardi di Alberto Manzi, svolte dal 1960 al 1968) tra le varie articolazioni aziendali opera il «Servizio opinioni» diretto da Pompeo Abruzzini. Il Servizio pubblica una serie di «Appunti del servizio opinioni». La veste è modesta, sono fascicoli ciclostilati. Il contenuto è spesso prezioso, come nel caso del fascicolo 37 «Risultati di un’indagine sulla comprensione del linguaggio politico». L’indagine, svolta nel 1966, è molto accurata e resta quasi un unicum per quanto riguarda l’accertamento della comprensione di testi parlati. Una sobria premessa avverte che sono stati intervistati mille adulti, maschi e femmine. Non si tratta di un campione stratificato, che voglia essere statisticamente rappresentativo della popolazione italiana, ma di un sondaggio, un “carotaggio” in profondità, nella realtà linguistica e nelle capacità di comprensione di cinque gruppi di adulti e adulte tra 25 e 45 anni. I gruppi sono volutamente eterogenei: casalinghe di Voghera, senza o con sola licenza elementare; contadini di Andria, senza o con sola licenza elementare; operai di Milano, con licenza elementare o media inferiore; casalinghe di Bari, con licenza media inferiore o superiore; impiegati di Roma, con licenza media superiore o laurea. Agli intervistati si chiede di indicare, rispondendo a test a scelta multipla, la o le definizioni preferibili di venti vocaboli chiave dell’informazione politica (da scrutinio leader ministro senza portafoglio potere esecutivo, fino a mozione legislatura). Inoltre si sottopongono agli stessi due brevi testi parlati, uno standard e un altro rielaborato in forma più lineare, saggiando il diverso grado di comprensione. Abbastanza prevedibilmente (almeno per i pochi che avevano allora e hanno ancora oggi un’idea dei livelli di scolarità e della loro relazione con le capacità linguistiche) il gruppo che rivela minori capacità di comprensione dei vocaboli e dei testi è quello delle casalinghe di Voghera. Queste, nelle reazioni di commento ai dati, divertite, spesso solo folcloristiche e approssimative, diventano il simbolo stereotipato della parte di popolazione col più basso livello linguistico e culturale. Ma avrebbero meritato attenzione anche gli impiegati laureati di Roma. Anche tra loro le percentuali degli incompetenti che ignorano il senso di vocaboli chiave sono ragguardevoli; 22% per ramo del Parlamentolegislatura 47%, dicastero promulgazione di una legge 50%, mozione 58%. Un ceto dirigente più attento, oltre che ridere degli abbagli, avrebbe potuto trarre già allora conclusioni operative e mettere almeno mano a un progetto di rimozione degli ostacoli alla comprensione. Così non fu. Restarono senza eco le parole con cui Abruzzini concludeva la presentazione del lavoro: «Il complesso di queste interviste […] dà un succinto panorama della diffusa ignoranza del significato dei principali termini del linguaggio politico e permette quindi di intuire l’importanza di alcune barriere che si frappongono fra il mondo della vita politica ed ampi strati della popolazione nazionale, pregiudicandone un’attiva e consapevole partecipazione».
Dialetto anche con i continentali
Dal 1964 mi era stato dato a Palermo un incarico di glottologia nella Facoltà di Lettere sul posto lasciato libero da Marcello Durante, che aveva cominciato la sua risalita universitaria verso il nord. Incontrai subito Giuseppe Cocchiara, preside della Facoltà, con una certa emozione: era un grande amico, forse il più intimo, del mio professore, Antonino Pagliaro (la leggenda vuole che tutte le sere si telefonassero per consultarsi sulle vicende e persone dell’università), ed era il grande antropologo e demologo che aveva ravvivato questi studi in Italia. Scoprii che era un lettore attento dei miei lavori di aspirante linguista. Forse la mia provenienza (Pagliaro, insieme a Salvatore Battaglia, era un nume tutelare dell’università siciliana), forse la stima e simpatia di Peppino Cocchiara, forse anche la rete di amicizie di mio fratello, da molti anni giornalista dell’«Ora», mi aprirono la via verso strette amicizie con i colleghi locali e verso tutta la loro affettuosa ospitalità. Nelle due settimane al mese che passavo a Palermo all’insegnamento si accompagnava una intensa vita di relazione con i colleghi dell’università e loro consorti, e anche con Leonardo Sciascia. Tra cene e pranzi osservavo l’andamento delle conversazioni e cominciai a intravedere un paio di regole generali. (1) In pranzi e cene le mogli siedono tutte vicine a un estremo della tavolata, i maschi tutti insieme vicini da un’altra parte (l’impressione è che le mogli si vedano tra loro solo in queste occasioni). (2) La conversazione comincia a svolgersi in italiano, ma imparo presto a capire che questa è per la parte maschile del tavolo una gentilezza verso l’ospite continentale. Se la conversazione si scalda, se si comincia a parlare con passione di politica o di studi o di letteratura, tra i maschi l’italiano cede rapidamente il passo all’uso del dialetto, il dialetto nobile, demunicipalizzato, della borghesia colta dell’antica capitale. Solo le donne continuano a parlare italiano, sempre. Conoscendole meglio capisco che conoscono benissimo il dialetto nativo, ma l’italiano è una scelta che tendono a fare sempre più di frequente, anche con amiche meno o più conosciute, anche in casa, specie con i bambini. Per la prima volta vedo affiorare una tendenza che poi si è rivelata sempre meglio: le donne, specie le più giovani, sono le principali attrici, le protagoniste dell’espansione dell’uso dell’italiano accanto al dialetto e più in generale sono diventate poi protagoniste della crescita culturale collettiva. [Una dozzina d’anni dopo, scrivendo un capitolo sulla cultura per un volume Laterza, Dal ‘68 a oggi. Come siamo come eravamo, ho potuto riprendere quest’ipotesi rafforzandola con i primi dati statistici Doxa sull’uso di italiano e dialetto, sulla lettura, sull’andamento scolastico: già alla fine degli anni Settanta era o avrebbe dovuto essere evidente la superiorità culturale delle donne rispetto ai connazionali maschi].
Qua e là nell’italiano, specie femminile, mi pareva che affiorasse qualche parola ipercorretta tipo porgimi il sale per passami dammi il sale. E c’era qualche elemento regionale che, come allora ho imparato, può salire fino all’italiano formale che si parla in una lezione universitaria o in una conferenza: sconoscere “ignorare”, da recente “di recente”. [Se la memoria non m’inganna colgo già allora come tratto locale settimana scorsa “la settimana scorsa”, mese passato “il mese passato”, che almeno dai primi anni Duemila, come attestano la rete e risposte a quesiti della Crusca, ormai si colgono spesso in persone d’ogni provenienza regionale. Queste omissioni d’articolo sono talora accusate di settentrionalismo, ma credo non bene: sono infatti frequenti e anteriori le attestazioni napoletane, oltre che siciliane].
Il boom della linguistica
Dalla metà degli anni Sessanta il buon successo di alcuni libri di linguistica appena pubblicati dal Saggiatore e da Laterza induce gli editori ad aprire i loro cataloghi a testi fondamentali della linguistica europea e nordamericana. Michele Rago scrive in quegli anni che per decenni i linguisti italiani avevano «montato la guardia sulle Alpi» per impedire l’ingresso allo straniero. Forse Rago eccedeva. Certo però dopo Ascoli si era creato un forte distacco tra linguistica italiana e linguistica mondiale (lo aveva rilevato nel 1932 Leo Spitzer recensendo la miscellanea in memoria di Ascoli). A metà anni Sessanta le frontiere si aprono. Più che la glottologia accademica established sono allora giovani linguisti e rari cattedratici come Luigi Heilmann (in genere sono gli stessi che nel 1996 danno vita alla Società di Linguistica Italiana), a rimontare la china con l’aiuto decisivo dell’editoria e di alcuni giornalisti attenti, come Rago, Gianfranco Corsini, l’assai più giovane Enzo Golino. Laterza pubblica in rapida successione gli Elementi di linguistica generale di André Martinet, curati da Giulio Lepschy, che accompagna il libro con un prezioso glossario plurilingue, e poi testi di Leroy, curato da Anna Morpurgo, Coseriu e Robins, entrambi tradotti e curati da Raffaele Simone, Le strutture della sintassi di Chomsky, curato da Francesco Antinucci, Shaumian, curato da Eddo Rigotti, gli Itinerari filosofici del semanticista statunitense Paul Ziff, La linguistica americana di Charles Hockett, tradotto da Giorgio Cardona, la silloge di saggi sulla comunicazione verbale e non verbale di altri animali e degli umani sovrintesa da Robert Hinde, tradotta da Raffaele Simone, il Manuale di linguistica generale di John Lyons, curato da Francesco Antinucci. Feltrinelli pubblica nel 1966 i Saggi di linguistica generale di Roman Jakobson, curati da Luigi Heilmann. L’anno stesso il Mulino inaugura, diretta da Heilmann, redattore capo è Luigi Rosiello, una nuova e a lungo fortunata rivista, «Lingua e stile», aperta agli apporti italiani e stranieri di teoria generale e di impronta prevalentemente, ma non esclusivamente, strutturalista, cui seguono volumi di Rosiello e Durante. Einaudi pubblica nel 1966, La linguistica strutturale di Giulio Lepschy, diventato un testo standard nelle università dei molti paesi in cui viene tradotto, e poi un grande classico, i Fondamenti della teoria del linguaggio di Louis Hjelmsev, curato dallo stesso Lepschy. Boringhieri pubblica tre volumi degli scritti degli anni Sessanta di Chomsky. Bompiani, a parte il succedersi delle opere di Umberto Eco, pubblica la monumentale Zoosemiotica curata da Sebeok. Si impegnano anche editori minori. Nel 1965 presso l’editore Morano di Napoli Tristano Bolelli pubblica, curandola con i suoi allievi, l’antologia Per una storia della ricerca linguistica. Ubaldini pubblica i Principi di noologia di Luis Prieto. L’elenco precedente dà una buona idea dell’effervescenza editoriale che accompagna la linguistica in quegli anni, quasi un fenomeno di massa. Qualcosa del genere può dirsi, per l’immediato e durevole successo editoriale, del Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure, pubblicato nel 1967 e da subito e poi più e più volte ristampato e riedito ogni tre quattro anni da Laterza. L’apparato di introduzione, commento al testo, notizie biografiche e critiche, fu poi tradotto in francese, nel 1972, dall’editore Payot in quella che è diventata l’edizione standard del Cours de linguistique générale, assunta a base delle molte successive traduzioni dell’opera in altre lingue.
Guerriglia urbana
Una notte di fine aprile del 1966 siamo seduti a terra in circolo, alcuni professori ma soprattutto studenti, in un andito dei corridoi dell’Istituto di Fisica dell’Università di Roma. Discutiamo dello stato e delle prospettive dell’occupazione della Sapienza che dura da alcuni giorni.
Il 26 aprile una banda di picchiatori fascisti guidati da Stefano Delle Chiaie e Serafino Di Luia assale e pesta ragazze e ragazzi che, sulla scalinata di ingresso a Lettere, distribuiscono volantini delle varie liste che concorrono alle elezioni del parlamentino degli studenti universitari, l’ORUR, organismo rappresentativo universitario romano. L’impresa fascistica non era cosa nuova. Da anni e anni, specie in occasione delle elezioni studentesche, bande di fascisti mandavano all’aria i panchetti dei seggi elettorali e, lasciando da parte i neofascisti della Caravella, pestavano duramente i rappresentanti delle altre liste. Spesso arrivavano capeggiati da qualche parlamentare del movimento sociale italiano che agiva sicuro protetto com’era dall’immunità nel caso sopravvenisse la polizia. Caso altamente improbabile: il garante dell’ordine nell’intera Sapienza era un mite poliziotto in borghese che arrivava trafelato, ovviamente sempre a cose fatte, per constatare i danni e consolare i più malconci. I giornali romani il giorno dopo titolavano “Scontri tra opposte fazioni all’università”. Quando gli studenti andavano a protestare dal Rettore costui a volte li riceveva e sempre faceva l’equidistante invitandoli a evitare scontri con i fascisti.
Ma il 26 aprile le cose andarono diversamente. I fascisti agirono con assai maggior violenza. Qualcuno prese a spintoni uno degli studenti presenti, un giovane cattolico e socialista candidato dell’unione goliardica romana, Paolo Rossi, e lo fece cadere dal ripiano più alto della scalinata. Il ragazzo entrò in coma per il trauma cranico. La reazione degli studenti, ma anche di alcuni docenti, fu immediata: per protesta la Facoltà fu occupata. L’equidistante Rettore chiamò la polizia per sgombrare la Facoltà. L’intervento della celere fu di inusuale violenza. Nei locali di Filosofia alcuni docenti e studenti si erano sdraiati a terra per opporre resistenza passiva allo sgombro della polizia. I poliziotti acchiappavano per i piedi i resistenti e li trascinavano stesi a terra nei corridoi e poi anche per le scale fino all’esterno. Ricordo ancora Maria Corda Costa, una valorosa pedagogista, ma anche ragazzine allora mie alunne, come Chiara Ingrao, rimbalzare doloranti e protestanti sugli scalini. Scene assurde. Una rinnovata reazione si estese a tutte le Facoltà, l’intera università fu occupata. Mentre giungeva la notizia della morte di Paolo Rossi. La protesta, attraverso assemblee notturne, andò acquistando forma. Si chiedevano le dimissioni del Rettore e una riforma dei chiusi ordinamenti accademici. Cortei di operai e di studenti delle scuole superiori, spesso con i loro insegnanti, e intellettuali di spicco, come Alberto Moravia, Pasolini, Vito Laterza, venivano a portare la loro solidarietà. Le cose erano a questo punto quella notte d’aprile quando discutevamo nei corridoi di fisica.
Tre o quattro posizioni si fronteggiano. I pessimisti sono convinti che l’occupazione non possa durare ancora a lungo. Ma durare è un obbligo verso il sostegno che si va profilando nel paese: bisogna resistere almeno finché il Rettore non si dimetta. Altri, terza posizione, aggiungono: finché i partiti di sinistra non presentano in parlamento proposte di legge di riordino dell’università. Ma qualcuno ha dubbi, si profila una quarta posizione: è inutile stare chiusi nell’università, bisogna uscirne. Un giovane docente di filosofia, Alberto Gianquinto, che ha appena ricevuto l’incarico di insegnamento di Logica (materia finalmente istituita nella Facoltà di Lettere), è il più deciso. Bisogna uscire dall’università e, dice, organizzare la guerriglia urbana. Solo un anno dopo cominciarono a circolare alla macchia scritti di Carlos Marighella, solo nel 1969 Feltrinelli pubblica Guerriglia urbana in Brasile. Quella notte d’aprile parecchi sentirono per la prima volta questa espressione che risultava oscura, annunzio di prospettive ancora più oscure.
[Il Rettore Giuseppe Ugo Papi poi, in quegli stessi giorni, si dimise. La terza posizione acquistò forza. Il partito comunista dovette intuire che questo in realtà apriva il varco alla quarta posizione. Due esponenti dell’ala sinistra, Pietro Ingrao e Rossana Rossanda, furono mandati a parlare con gli occupanti per persuaderli ad abbandonare l’occupazione in cambio dell’impegno a promuovere una legge di riforma dell’università. Noi occupanti cedemmo, nei primi giorni di maggio sgombrammo le Facoltà, come decise, senza apparenti opposizioni, un’affollata assemblea nell’aula magna di Giurisprudenza. Nella prima fila sedeva Tristano Codignola, l’unico che alcuni anni dopo fece qualche passo concreto per avviare il rinnovamento degli ordinamenti universitari. Tale fu la legge da lui sostenuta e approvata in Parlamento nel dicembre che 1969 per consentire ai diplomati di tutti i canali di scuola media superiore, e non più ai soli uscenti dal liceo classico, l’accesso agli studi universitari. Ma i licenziati dalle superiori erano una minoranza delle classi anagrafiche: più della metà di ragazze e ragazzi venivano espulsi dalla media inferiore prima di ottenere la licenza ed erano quindi ben lontani non solo dalla laurea e dall’università, ma anche dal poter accedere alla scuola media superiore].
1967: Lettera a una professoressa
Scritto dagli alunni della scuola di Barbiana guidati da don Lorenzo Milani il libro è pubblicato dalla LEF, Libreria Editrice Fiorentina. Scuote, allora e da allora, le coscienze di chi lo legge. Per chi si occupa di linguaggio è una spinta decisiva a cercare di capire «ce qu’il fait» (per riprendere le parole che usò Ferdinand de Saussure) e cercare di farlo il meglio possibile anche a fini di pubblica utilità.
Centenario olivettiano
Nel 1968 ricorre il centenario della nascita di Camillo Olivetti. Adriano, suo figlio, geniale imprenditore e appassionato politico antifascista e democratico, teorico e realizzatore di un’impresa che reinveste i profitti in ricerca e cultura e nella qualità della vita dei dipendenti, promotore negli anni Cinquanta dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, del Movimento di Comunità e dei centri omonimi di grande rilievo per la vita intellettuale da Roma (dove il Centro fu diretto da Guglielmo Negri) al sud, creatore della fondamentale casa editrice Comunità e della rivista omonima, diretta poi da Renzo Zorzi, era morto improvvisamente nel 1960 per un ictus (ma allora e poi aleggiarono sospetti sulla sua morte, non seguita da autopsia). Cadono fuori dei limiti cronologici di questi Fogli alcune grandi produzioni industriali della Olivetti che hanno segnato epoche dell’organizzazione concreta dell’attività intellettuale: nel 1950 la macchina per scrivere portatile Lettera 22 (esposta poi in permanenza al MOMA di New York) e la Lexicon Electrica, nel 1956 la Divisumma 24 [La cosa non merita in sé interesse, ma per dare un’idea posso dire che buona parte dei numeri della Storia linguistica non sarebbero mai stati messi insieme senza che l’autore carpisse periodicamente la Divisumma a Lydia e a Luigi Spaventa], nel 1959 il grande calcolatore Elea, nel 1963 la nuova portatile Lettera 32. Per gli amatori delle cose che potevano essere e non sono state (abbiamo cioè lasciato che non fossero) si può ricordare ancora che nel 1965 a New York viene presentato l’Olivetti Programma 101, anticipatore dei personal computer, ultimo canto del cigno della straordinaria capacità innovativa della Olivetti di Adriano. Ma già erano cominciati lo smembramento, la dissipazione delle strutture di ricerca e le cessioni per far cassa da parte dei nuovi azionisti. E già si disperdeva quell’altra realtà straordinaria che fu il gruppo di intellettuali, non solo ingegneri e grandi designer, ma letterati, sociologi, filologi, raccolti all’Olivetti da Adriano: Renzo Zorzi e Riccardo Musatti, Geno Pampaloni, Nello Ajello, Muzio Mazzocchi Alemanni, Franco Ferrarotti.
Per celebrare il centenario di Camillo Olivetti si tiene a Milano (l’organizzazione è affidata a Umberto Eco) un grande convegno internazionale: “I linguaggi nella società e nella tecnica”. I maggiori linguisti e teorici logici del linguaggio di tutto il mondo, come Yehoshua Bar-Hiller, Richard Montague, Emile Benveniste, Marvin Minsky e Roman Jakobson, vi partecipano insieme a tecnici delle ICT e sociologi. Grande è la risonanza. Per il pubblico intellettuale è così definitivamente consacrata la centralità del linguaggio nella realtà umana e la correlata centralità del suo studio tra le scienze umane e non…
1972: esistono minoranze linguistiche in Italia?
La domanda e il dubbio aleggiavano tra i parlamentari del tempo. Per cercare di rispondere il Servizio Studi di Montecitorio avvia un’indagine che per la prima volta censisce le almeno tredici minoranze alloglotte presenti in Italia da secoli. Le minoranze dunque esistono. Nei decenni successivi a più riprese vengono elaborati progetti di legge che cercano di onorare l’articolo 6 della Costituzione. Uno, eccellente, nel 1989 supera l’approvazione di Montecitorio, ma, anche per la fiera opposizione del Partito Repubblicano dell’epoca, viene fatto decadere nel passaggio al Senato. Solo nel 1999 (cinquantuno anni dopo la Costituzione) il Parlamento approva una legge in materia. Mediocre, ma, come si dice, meglio del niente semisecolare.
1973: «Parlare, leggere, scrivere»
Con questo titolo dal 12 settembre la RAI manda in onda in prima serata un ciclo di cinque trasmissioni, ciascuna di un’ora, per raccontare vicende passate e presenti della realtà linguistica italiana. Il regista è Piero Nelli, autori sono De Mauro e Umberto Eco. Dall’interno dell’azienda le trasmissioni sono state promosse e seguite da Fabiano Fabiani, Emmanuele Milano e Enzo Golino. [«Un’altra RAI» ha commentato molti anni dopo Aldo Grasso.]
1974: rilevazioni dell’uso di lingua e dialetti
La Doxa ha derivato dal suo geniale fondatore, Paolo Luzzatto Fegiz, un rigoroso metodo nelle rilevazioni campionarie e quella grande attenzione anche agli aspetti culturali della vita delle popolazioni che rende tuttora preziosi i volumi Il volto sconosciuto dell’Italia (1956, 1984). Nel 1974, in coda a un’indagine di mercato rivolta ad altri fini, la Doxa compie la prima rilevazione statistica sull’uso dell’italiano e dei dialetti quale risulta dalle dichiarazioni del campione di intervistati. Il 23,0% dichiara di parlare sempre italiano, il 51,3% dichiara di non parlare italiano ma sempre e solo uno dei dialetti, il 23,7% dichiara di alternare l’uso di italiano (in contesti formali o con estranei) e di dialetto (in contesti familiari e con amici). I dati riflettono bene le evoluzioni verificatesi tra anni Cinquanta e Sessanta rispetto alle stime del 1963, fatte a partire da dati del 1955, quando si stimò che sempre e solo italiano parlasse il 18% della popolazione e sempre e solo dialetto il 64%.
In anni successivi la Doxa ripete il sondaggio e aggiorna altre volte i dati. Dal 1982 cominciano le rilevazioni dell’ISTAT, su campioni di popolazione assai più ampi nel quadro delle indagini sulla vita quotidiana degli italiani, sulla loro cultura in senso rigorosamente scientifico e antropologico. Grazie a Doxa e ISTAT è stato possibile seguire attraverso dati statistici il variare dell’uso alterno di italiano e dialetto, l’espandersi dell’uso dell’italiano nel linguaggio parlato e la correlativa regressione dell’uso esclusivo del dialetto.
1974-75: gli insegnanti organizzano il loro autoaggiornamento
Alle tradizionali organizzazioni “generaliste” cattoliche degli insegnanti, l’UCIIM (insegnanti medio superiori) e l’AIMC (maestri), e laiche, la FNISM, Federazione Nazionale Insegnanti Scuola Media, fondata nel 1901 da Gaetano Salvemini, e il movimento di cooperazione educativa, si affianca ora il CIDI, Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti (elementari e medi). Tra le associazioni di settore alla Mathesis, Società italiana di scienze matematiche e fisiche, fondata nel 1895, si affianca un raggruppamento interno alla SLI, Società di Linguistica Italiana, il GISCEL, Gruppi di Studio e Intervento nel Campo dell’Educazione Linguistica (insegnanti elementari e medi e ricercatori e docenti universitari). Le associazioni hanno dato un contributo prezioso al rinnovamento di metodi e contenuti degli insegnamenti e all’elaborazione di nuovi programmi della media inferiore (1977) e delle elementari (1985) e successive sperimentazioni nella media superiore, opera in questa direzione anche la rivista «Riforma della Scuola» fondata nel 1975 da Dina Bertoni Jovine, Lucio Lombardo Radice, Mario Alighiero Manacorda, Alessandro Natta e altri intellettuali legati al PCI ma (secondo l’espressione di Lombardo Radice) “rompiscatole”.
1977: i “nuovi programmi” della media inferiore
Varata nel 1962, la scuola media inferiore unificata ha stentato e stenta ancora a funzionare come scuola capace di far crescere le capacità e le conoscenze di tutte e tutti. Lo hanno già da anni rivelato la denunzia appassionata dei ragazzi di Barbiana, ma anche un magistrale studio analitico di Fiorella Padoa Schioppa, Scuola e classi sociali, che chiama in giudizio l’intero apparato dell’istruzione. Una legge del Parlamento offre la necessaria cornice legislativa al lavoro di un’ampia commissione incaricata dal ministro di redigere nuovi programmi che orientino la didattica verso la realizzazione degli obiettivi di effettiva inclusione di tutte e tutti attraverso anzitutto la crescita di adeguate competenze linguistiche e matematiche di ogni singolo alunno. L’educazione linguistica assume un ruolo centrale nell’apprendimento di tutte le materie, come qualche anno prima avevano chiesto le Dieci tesi per una educazione linguistica democratica. Negli anni seguenti a più riprese si è constatato che i “nuovi programmi” sono restati poco noti e ancor meno praticati per la grande maggioranza degli insegnanti. Sorte non migliore hanno avuto le Dieci tesi. Il GISCEL, che elesse le Dieci tesi a suo manifesto fondativo e ha svolto un intenso lavoro di collegamento tra ricerca linguistica e azione di rinnovamento dell’educazione linguistica nelle scuole (lo testimoniano gli oltre quaranta volumi della sua collana di studi), ha promosso a cadenza decennale indagini sulla notorietà delle Tesi e sulla loro effettiva presenza nella pratica didattica: è risultato che solo il 20% circa degli insegnanti medi sa dell’esistenza di quel testo e meno del 10% dichiara di attenervisi nel suo insegnamento. Il dato merita menzione perché alcuni bravi studiosi, come Michele Loporcaro e Maurizio Dardano, hanno ritenuto e scritto che quel testo sarebbe all’origine di ciò che loro sembra lo sfacelo dell’intera scuola italiana.
Na lacuna e na carenza
I nuovi programmi chiesero agli insegnanti di preparare e tenere aggiornata per ciascun alunno una scheda personale che consentisse di capire nel tempo se e come crescono competenze e conoscenze nei diversi ambiti. Nel formulare giudizi analitici, però, gli insegnanti ricorrono spesso a formule stereotipate che piovono sulla testa di alunni e genitori. Ho colto sul campo e annotato nelle cronache linguistiche fatte per «Paese sera» e «l’Unità» (qui sotto il falso nome di Luigi La Vista) un dialogo tra due madri all’uscita di una scuola media della periferia romana. Un giorno, appena conosciuti i giudizi, le due madri si scambiano notizie all’ingresso della scuola. «Com’è annato tu fijo?». «Mah, me pare bene: cià solo na lacuna ‘n giografia e na carenza de matematica. E er fijo tuo?». «Eh, sto fijo de na bbona donna cià, lo possino, cià tre lacune e quattro carenze». Ai rischi dell’antilingua di Calvino una parte della popolazione reagisce piegando a un senso concreto e specifico espressioni ripetitive, astratte e generiche. Vent’anni più tardi una vignetta d’Altan mette in scena questo stesso che vivifica stereotipi astratti piegandoli alla significazione di realtà concrete. La vignetta è un vero compendio di storia linguistica (e non solo linguistica) dell’Italia repubblicana. Di scena sono i due tradizionali metalmeccanici. Altan, come si sa, vive nel Nord-est, i due metalmeccanici saranno piemontesi o lombardi, ma nella vignetta il dialogo tra i due si svolge in quell’italiano venato di romanesco che serve ormai in tutt’Italia ad alludere a una generica dialettalità. (Paolo D’Achille ha parlato dell’italiano de Roma, ma esiste ormai un romanesco de Italia che dal nord al sud serve a dare alle nostre espressioni il tono, per lo più scherzoso e ammiccante, di una dialettalità generica). Il primo metalmeccanico se ne sta seduto con aria sconsolata e dice: «Nun ciò na lira e nun so più per chi votà». E il saggio Cipputi commenta: «Ecco er famoso intreccio tra finanza e politica».
1977-1985: la scoperta dell’uso medio
Nel 1965 Calvino, osservando caratteri e limiti della traducibilità in italiano di testi letterari di altre lingue, dopo aver sottolineato le possibilità che la “grande duttilità” dell’italiano consente al traduttore, aveva però aggiunto: «il vantaggio del tradurre in italiano è relativo e parziale: per esempio, più si va nel parlato, nel popolare, specie per le lingue che hanno una dimensione gergale, più l’italiano fa cilecca, perché al livello popolare sconfina subito nel localismo e nel dialetto, mentre al livello della conversazione familiare, scherzosa, “borghese”, è sempre stucchevole e – siccome il costume cambia di continuo – immediatamente “datato”. L’”italiano medio”, come ben dice Pasolini, è “una lingua impossibile, infrequentabile”». Forse già allora non era in realtà più così: la lunga marcia verso l’appropriazione collettiva dell’italiano anche nel parlato e negli usi informali comunemente accettati era già cominciata. Ma la percezione dei due grandi scrittori era quella e confermava quel che pochi anni prima affermava un intelligente linguista fiorentino, Emilio Peruzzi, osservando che con l’italiano potevano scriversi poesie o trattati filosofici, ma non parlare della quotidianità. Tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta emergono valutazioni nuove che colgono i fatti nuovi. Nel 1977 Giulio e Anna Laura Lepschy propongono agli inglesi che studiano italiano una presentazione dell’uso colto della lingua «così come viene effettivamente usata, parlando e scrivendo». Le vecchie norme puristico-scolastiche sono messe da parte a vantaggio di un uso comune che si profila sempre più consistente. Negli anni immediatamente seguenti Francesco Sabatini, con un suo ampio studio analitico, Gaetano Berruto e altri ancora aprono le porte al riconoscimento dell’ormai piena affermazione e accettazione di un “uso medio” o “comune”. L’uso è ricco di tratti spesso reperibili già in tempi antichi ma tenuti ai margini o condannati da norme puristiche e insegnamento scolastico. Come osserva in quegli anni Giovanni Nencioni quello che era stato “laboratorio di scrittori” ora è il lavoro quotidiano di milioni di persone che parlano e, anche, osano ormai scrivere esibendo questi tratti.
1980: nascono i “Libri di base”
Alla fine degli anni Settanta sono molte le suggestioni che vengono da fonti diverse (Gramsci e don Milani, Calvino e Orwell, Rudolf Flesch e Karl Kraus) e dallo stato della cultura italiana spingendo a elaborare il progetto di un’“enciclopedia scomponibile” che abbracci tutti i campi del sapere, tecnico, storico, filosofico, scientifico, offrendo a chi legge libri redatti in modo sistematicamente e studiatamente orientato al massimo possibile di leggibilità e comprensibilità. Il progetto viene esaminato con simpatia ma rifiutato da diversi editori (Vito Laterza, Tristano Codignola, Giunti). Approda infine, grazie alla presidente del CIDI Luciana Pecchioli, sulla scrivania di Roberto Bonchio, che dirige gli Editori Riuniti, la casa editrice di proprietà del PCI. Bonchio lo accetta. Si creano gli strumenti minimi indispensabili a garantire la leggibilità dei testi (un vocabolario di base, alcune elementari regole di scrittura). Si costituisce un gruppo di progettazione molto composito quanto a competenze scientifiche e orientamenti politici (questa è una condizione accettata da Bonchio e, non senza discussioni, dalla proprietà e da molti suoi intellettuali di riferimento), si definiscono contratti e si progettano prime annate di pubblicazione (dodici libri l’anno), si costituisce una redazione, guidata da Elisabetta Bonucci, capace di controllare e migliorare la leggibilità dei testi (i contratti con gli autori hanno la forma di contratto per opera collettiva, che permette l’intervento redazionale sui testi). Nel 1980 appaiono i primi “Libri di base”.
Nel 1989 i “Libri di base” erano diventati 140, l’ultimo, di Antonio Cassese, dedicato alla legislazione internazionale sui diritti umani. Nel decennio la vendita media superò le 17.000 copie per titolo, una tiratura e vendita non consuete in Italia per testi di saggistica. Alcuni sono veri best long sellers, come la Guida all’alimentazione di Emanuele Djalma Vitali o L’infinito di Lucio Lombardo Radice o Che cos’è una legge fisica di Carlo Bernardini. Ma nel 1989 affari interni della segreteria del Partito e di alcuni familiari dell’allora segretario portano a una crisi finanziaria della casa editrice e alla sospensione e poi chiusura sia di “Riforma della Scuola” sia dei “Libri di base”. Curiosi personaggi subentrano nella direzione di quel che resta della casa editrice (si aggira nelle stanze tra gli altri Primo Greganti, il “compagno G” poi ben noto e condannato per le vicende di Tangentopoli e di Milano Expo). I nuovi dirigenti rifiutano le offerte (di Vito Laterza, di Inge Feltrinelli) di rilevare in blocco e continuare l’impresa salvando anche la redazione, licenziano invece i redattori e chiudono la collana. Non si può dire che i “Libri di base” non abbiano avuto nessun seguito. Hanno ispirato collane del Mulino e della Editrice Sindacale, forse hanno aiutato a capire che è possibile anche in Italia una scrittura saggistica non ermetica. Ma nel complesso sono purtroppo restati malinconicamente un unicum nell’editoria italiana.
1993: un codice per il linguaggio delle pubbliche amministrazioni
Nel 1992, nominato ministro della funzione pubblica nel governo Ciampi, Sabino Cassese affronta in modo fattivo il tema delle pessime caratteristiche del linguaggio con cui le amministrazioni pubbliche usano comunicare e si rivolgono al pubblico. Viene insediato un gruppo di lavoro di cui fa parte, tra altre persone, Emanuela Piemontese, forte delle esperienze di “scrittura controllata” maturate mettendo a punto una procedura e formula di calcolo automatico della leggibilità (con Piero Lucisano) e poi redigendo il mensile “di facile lettura” per bambini e per marginali e svantaggiati «Due parole». Il gruppo produce in pochi mesi un Codice di stile della comunicazione scritta ad uso delle pubbliche amministrazioni. Negli anni seguenti, pur con lentezza, diverse pubbliche amministrazioni, specialmente locali e regionali, hanno cominciato a rifarsi al Codice.
2001
Si conclude la prima indagine internazionale sulle competenze di lettura, scrittura e calcolo delle popolazioni adulte di alcuni paesi, tra cui l’Italia. L’indagine è stata promossa da Statistics Canada negli anni Novanta e per la parte italiana è stata svolta dal cede, Centro Europeo Dell’Educazione, allora diretto da Benedetto Vertecchi. Le capacità linguistiche sono accertate non sulla base di autovalutazioni (come nelle indagini ISTAT), ma in modo “osservativo”, cioè verificando in un campione stratificato di popolazione adulta in età di lavoro (16-65 anni) le capacità di rispondere correttamente a cinque questionari di difficoltà crescente. I primi due questionari individuano le (in)capacità di adulti che sono sotto il livello minimo di competenze sufficienti a capire testi semplici relativi alla vita quotidiana, sono cioè analfabeti funzionali (decifrano lettere e numeri, ma stentano a mettere a frutto queste conoscenze). I tre questionari successivi (cui accede chi ha superato i primi due) determinano fasce crescenti di competenza. I risultati per l’Italia attestano che una percentuale notevole (5%) non riesce nemmeno a decifrare il testo del primo questionario, è cioè immersa nel più completo analfabetismo strumentale. In complesso il 70% della popolazione si colloca ai due primi livelli. È cioè al massimo analfabeta funzionale, quando non è analfabeta strumentale.
I risultati sono presentati con una conferenza stampa tenuta al Ministero della Pubblica Istruzione. La notizia cade nella disattenzione pressoché totale degli organi di informazione e delle forze politiche.
2013. Parlare l’italiano. E leggerlo?
Nell’ottobre Maria Chiara Carrozza, studiosa di bioingegneria industriale di rilievo internazionale e al momento ministra dell’istruzione, dichiara con molta schiettezza ai giornali: «Quando ho letto quei dati ho fatto un salto sulla sedia! Non volevo crederci». I dati che hanno fatto sobbalzare il ministro sono quelli dell’indagine PIAAC, Programme for International Assessment of Adult Competencies, svolto dall’OCSE in una trentina di paesi e realizzato per l’Italia dall’ISFOL. La ministra non si limita a sobbalzare. D’accordo con un altro ministro del governo Letta, Enrico Giovannini, ministro del lavoro, vuole cercare di capire se e che fare, nomina un gruppo di lavoro di economisti, pedagogisti, insegnanti, che a tempi rapidi (due mesi) fornisca indicazioni operative. Il gruppo di lavoro consegna il suo rapporto nel febbraio 2014, il giorno prima che l’ormai proverbiale «Stai sereno» detto da Matteo Renzi a Letta sortisca il suo noto effetto, le dimissioni di Letta e del suo governo e il passaggio di mano all’augurante Renzi. I due ministri fanno a tempo a leggere e approvare il rapporto e a pubblicarlo nei siti dei ministeri, dove resta come una sacra apparizione achiropita cui nessuna mano e nemmeno occhio di successivi ministri ha osato accostarsi.
I dati PIAAC sono di sicuro interesse economico, per capire le ragioni di fondo del lungo ristagno produttivo dell’economia italiana dai primi anni Novanta, e di immediata rilevanza linguistica. Un’utilizzazione in questa prospettiva ho cercato di dare in Storia linguistica dell’Italia repubblicana. Come già avevano rilevato due precedenti indagini internazionali sulle competenze alfanumeriche degli adulti del 2001 e 2006, la popolazione italiana adulta si segnala per bassi livelli di comprensione della lettura e di calcolo e uso di ragionamento scientifico. Il 70% degli adulti italiani si colloca sotto i livelli minimi di competenze alfanumeriche che internazionalmente sono ritenuti necessari “per orientarsi nella vita di una società moderna”. Poiché un’altra fonte preziosa di dati, l’indagine multiscopo dell’ISTAT, fa stimare pari al 95% la percentuale di popolazione che usa l’italiano nel parlare o in modo esclusivo (circa 50%) o in alternativa con un idioma locale, dialetto o lingua di minoranza (45%), i dati suggeriscono l’immagine di una popolazione che ormai e finalmente usa molto la sua lingua nel parlare ma solo per meno di un terzo la possiede e usa con quel sufficiente livello di padronanza che soltanto la consuetudine con la lettura può dare. Se è la lingua che ci fa eguali, come dicevano don Lorenzo e i suoi allievi, ci troviamo dunque dinanzi a un paese che, più di altri, nel suo linguaggio è ancora segnato da diseguaglianze che possono sfuggire ai più se chi le conosce e studia non sa chiarirne ad altri la portata.
03/03/2016  Tullio De Mauro

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