03 aprile 2016

LA FINE DEL MITO SECONDO TABUCCHI


Vi riporto da Repubblica un inedito di Antonio Tabucchi scritto nell’estate del 2011, dal titolo La fine del mito. “Costruito come un dialogo per due voci e un coro” come scrive Fabio Gambaro in un pezzo che si trova nella stessa pagina e che potete leggere QUI (e QUI), geo

La fine del mito
Antonio Tabucchi


Questo era quanto dicevano, senza dirlo, le figure di un quadro di una pittrice portoghese un chiaro pomeriggio dell’estate del 2011, a Lisbona, in una casa antica della Costa do Castelo. Guardandolo sentii le loro voci e, come le sentii, ora le trasformo in scrittura. Senza altro aggiungere.
UOMO CHE PARTE — Più mai ti caricherò sulle mie spalle, Padre, come già feci tanti e tanti anni
CORO — Affrettati, la barca sta per salpare, dobbiamo tirare su l’ancora, il tempo stringe.
UOMO CHE PARTE — Padre, devo partire, Ascanio è già sulla barca.
CORO — Non far sapere a tuo figlio che stai partendo! Lui dorme ignaro sulla terra ancora calda degli incendi, non possiamo portarlo con noi, l’Occidente non vuole i bambini, al massimo accetta le tue braccia.
PADRE (sussurrando) — Perché nessuno ha ascoltato Cassandra?
CORO — Perché al Fato non ci si ribella, ha tentato di farlo Laocoonte e gli dèi hanno inviato due serpenti marini a strangolarlo con i suoi figli fra le loro spire. Gli stessi dèi che hanno mandato il cavallo con la pancia di fuoco a distruggere i nostri costumi e a portarci i loro, che chiamano democrazia.
UOMO CHE PARTE — La loro democrazia sono rovine fumanti, morte, disperazione e cenere, e da tutto questo trarranno tanto denaro, perché per loro la guerra è un affare.
CORO — Vieni, stupido uomo in partenza, approfitta della nostra barca, tu non sei nessun eroe, non sei più un cittadino, non sei neppure un uomo, sei solo un migrante.
PADRE — Devi andare, Enea.
CORO — Enea si chiamava una volta, ora si chiama Anonimo. Anonimo, hai forse dei documenti che dicano che sei qualcuno?
UOMO CHE PARTE — Padre, non ti vedrò mai più?
PADRE — Una volta mi ritrovasti nei Campi Elisi, ti guidò la Sibilla fino al regno di Ade. Con lei attraversasti lo Stigi e abbracciasti tre volte la mia ombra.
CORO — La Sibilla è morta da tempo, e l’Ade è chiuso. Al suo posto c’è il fondo del Mediterraneo dove si putrefanno i cadaveri dei migranti che non hanno avuto fortuna.
PADRE — E dopo il terzo abbraccio la mia ombra ti spiegò la dottrina di cicli e rinascite che regge l’universo, e confortato dalla mia spiegazione raggiungesti l’Italia, abitata da gente selvatica, e fondasti Roma, dalla cui civiltà nacque l’Europa.
CORO — Vecchio, non c’è più niente da fondare. Ora l’Europa che nacque dalla città che fondò tuo figlio non vuole più intrusi, si è coalizzata con ferocia, ha delle navi costiere che sorvegliano gli sbarchi, affondano le povere imbarcazioni come le nostre; quelle genti una volta selvatiche ora sono ricche, alcuni di più, alcuni di meno, perché i poveri sono funzionali ai ricchi e senza i poveri i ricchi non potrebbero essere ricchi. Ma i ricchi che ivi comandano non vogliono gente più povera dei loro poveri perché questo svaluterebbe la loro ricchezza e turberebbe l’equilibrio fra i ricchi e i poveri che mantiene la loro società. Affrettati a salire, povero migrante, il passaggio che ti offriamo, anche a nostro rischio e pericolo, ti costa solo duemila denari, nella moneta di oggi esattamente quanto costava a un abitante italico per prendere il piroscafo per le Americhe, a un abitante delle Germanie per fuggire in Argentina, a un lusitano per fare “o salto”. E ora che ciascuno di loro è ben protetto nei confini di uno spazio comune, difficile è forzare le porte di Schengen. Loro sono sbarcati sulla luna, e gli astri non hanno opposto resistenza. Ma è vietato sbarcare sulle rive della Fortezza di Schengen.
UOMO CHE PARTE — E il nostro Mito, Padre?
PADRE — Non so.
CORO — Una volta il Mito era il niente che è tutto. Ora è solo il niente. Partiamo.

Repubblica, 26 marzo 2016, p. 57

Nessun commento:

Posta un commento