Discorso tenuto da Raniero La Valle alla Biblioteca del Senato il 27 dicembre 2017 per la celebrazione del 70° anniversario della firma della Costituzione promossa dal Coordinamento per la democrazia costituzionale
La Costituzione ed io siamo cresciuti insieme. Siamo fratelli, se non
proprio coetanei. Lei è un po’ più giovane di me, perché quando è nata
io avevo 16 anni; non molti, ma abbastanza per aver conosciuto, pur da
bambino, il fascismo, il re, il duce, la guerra, le bombe in via
Nomentana, i rastrellamenti tedeschi a Porta Pia, la fame e la
liberazione. Tutto questo mi aveva fatto diventare adulto prima del
tempo, sicché quando la Costituzione nacque stavo già all’università,
studiavo diritto, e potevo capire cos’era. Però non sapevo nulla di
Dossetti, di Fanfani, di Moro, di Lelio Basso, di Nenni, di Togliatti
che sarebbero poi stati così importanti per la mia vita. In ogni caso
avevo vissuto abbastanza per rendermi conto, e non per sentito dire,
quale cambiamento essa rappresentasse, non solo rispetto alla mia vita
precedente, ma rispetto a tutta la storia da cui venivamo. Per chi aveva
vissuto, anche di sfuggita, il fascismo, la Costituzione si presentava
come una novità, come la notizia che un altro tipo di regime, di Stato,
un’altra politica erano possibili. Solo più tardi, tuttavia, mi resi
conto che la Costituzione non rappresentava solo una novità, ma
un’alternativa. E potei capire il significato più profondo
dell’affermazione di Moro, che la Costituzione doveva essere non
afascista, ma antifascista; essa non era infatti solo una regola del
gioco, per qualunque gioco, ma doveva essere la scelta di una strada
invece di un’altra, che non era solo la scelta tra due ordinamenti
politici, ma tra due visioni dell’uomo e del mondo.
Aveva detto Moro
alla Costituente, rispondendo al monarchico on. Lucifero che voleva una
Costituzione afascista: “Non possiamo fare una Costituzione afascista,
cioè non possiamo prescindere da quello che è stato nel nostro Paese un
movimento storico d’importanza grandissima il quale nella sua negatività
ha travolto per anni la coscienza e le istituzioni. Non possiamo
dimenticare quello che è stato, perché questa Costituzione oggi emerge
da quella Resistenza, da quella lotta, da quella negazione, per le quali
ci siamo trovati insieme sul fronte della resistenza e della guerra
rivoluzionaria ed ora ci troviamo insieme per questo impegno di
affermazione dei valori supremi della dignità umana e della vita
sociale. .. Non avremmo ancora detto nulla se ci limitassimo ad
affermare che l’Italia è una repubblica, o una repubblica democratica”.
Aveva ragione Moro: bisognava dire che venivamo da una storia, ed ora
si trattava di scegliere un’alternativa, un’altra storia possibile.
Noi venivamo da una lunga storia, ben precedente al fascismo, in cui il
lavoro era stato considerato spregevole, più animale che umano, tanto
che all’inizio era addossato ai servi, e i signori ne erano esenti; poi,
anche dopo la fine della società signorile, il lavoro era giunto fino a
noi come lavoro schiavo, come lavoro merce, come lavoro alienato e
sfruttato; ed ecco che la Costituzione lo metteva a fondamento della
Repubblica democratica.
Noi venivamo da una storia in cui l’idea
della diseguaglianza tra gli uomini era di dominio comune, e perfino
Hegel e Croce avevano filosofato di differenze ontologiche tra mondi
umani diversi, tra popoli della natura e popoli della storia, popoli
senza Spirito e popoli invece capaci di storia; venivamo da un mondo in
cui le leggi, non solo quelle razziali, avevano assunto la
diseguaglianza come un presupposto e tuttora discriminavano classi,
caste, poveri e donne, ed ecco che la Costituzione metteva come prima
pietra l’eguaglianza senza distinzione alcuna, e faceva delle
discriminazioni, anche di fatto, il male da rimuovere.
Noi venivamo
da una storia in cui la guerra era considerata, fin dall’inizio, il
padre e il reggente di tutte le cose, poi era stata presa come
prerogativa assoluta della sovranità, come variabile sempre pronta
all’uso della politica, e infine come criterio stesso del politico,
inteso come contrasto tra amico e nemico, ed ecco che la Costituzione
consegnava alla guerra il libello di ripudio, e non considerava più
nessuno come nemico.
Noi venivamo da una storia in cui gli Stati
sovrani rivendicavano di essere legge a se stessi e non riconoscevano
che ci fosse alcuna cosa o alcun potere al disopra di sé, ed ecco che la
Costituzione metteva la sovranità nazionale dentro la comunità degli
Stati, riconosceva il diritto internazionale come potere esterno e
accettava lo scambio tra la sovranità dello Stato e un ordinamento di
pace e di giustizia tra le Nazioni.
Da tutto questo discendeva un
progetto di società; certo era solo un progetto, e solo dopo dovevamo
capire quanto quel progetto fosse difficile a realizzarsi. Ma quando
venivano i momenti più difficili, le contraddizioni e le smentite più
crudeli a quel disegno e a quelle speranze, il solo fatto che quel
progetto, pur contraddetto, ci fosse, fosse scritto sulla carta, non
fosse un vago ideale ma diritto positivo, patto e non contratto, opera e
non visione, bastava ad attivare la resistenza, a ravvivare le forze, a
salvare la Repubblica.
Lo si è visto con i colpi di coda del
fascismo, i falliti golpe, il terrorismo, la notte della Repubblica. Ma
anche in momenti meno drammatici, quando si trattava di uscire dalla
stanchezza, di aprire una nuova fase, di riprendere un cammino, la
linfa, il movente, la forza stava nel rievocare quel progetto, nel
rifarsi a quel momento fondativo della Repubblica, per ricordarsi
com’era, per chiedersi dove si era sbagliato, per riprendere a tesserne
l’ordito.
Voglio portare un solo esempio. Nel 1976, quando la
Democrazia Cristiana è stremata, il quadro politico sta mutando e si
avverte che c’è da cambiare strada, il segretario della DC Zaccagnini
scrive a un costituente, Giorgio La Pira, che già era stato quel sindaco
di Firenze che sappiamo, chiedendogli di tornare in Parlamento. Si
trattava non solo di riprendere in mano quel disegno delle origini, ma
di tornare allo spirito e alla metodologia che lo avevano fatto
concepire, cioè, dice Zaccagnini, la metodologia del “dialogo tra tutte
le componenti che” avevano concorso “ad abbattere il fascismo” ed il suo
istinto di guerra.
E La Pira accetta e gli risponde: “Caro
Zaccagnini, tu mi inviti a riprendere il progetto della casa comune che
noi costituenti concepimmo con una architettura armonica e, in certo
senso, unica ed originale, progetto che è rimasto incompiuto”. E ne
ricorda i parametri essenziali: i diritti della persona ma, essenziali
come questi, i diritti sociali, senza i quali la libertà stessa della
persona non sarebbe garantita; e ciò comportava un mutamento:
“L’accettazione strutturale dell’ordinamento giuridico-economico non
solo in totale opposizione a quello fascista, ma anche come superamento
della concezione liberale borghese perché in uno Stato di capitalismo
avanzato affidarsi alle sole leggi della libera concorrenza e del
mercato avrebbe significato la creazione di monopoli e discriminato
l’uguaglianza e la libertà. Libertà per tutti, quindi. Sì, ma anche
lavoro per tutti, ospedali, case, scuole, ecc. “. Però La Pira
constatava che le ‘attese della povera gente’ - (e qui si autocita) –
non erano state adempiute; dunque c’era più che mai “un obbligo politico
e morale” a far sì che quei valori non fossero disattesi. Per quanto
riguardava la comunità internazionale bisognava passare dalla
contrapposizione dei blocchi al superamento dell’equilibrio del terrore,
per giungere “al disarmo generale e completo, alla liberazione e al
progresso fondato sulla giustizia”.
E quanto al modo di giungervi,
diceva La Pira, “nei due ordini, quello nazionale e quello
internazionale, la metodologia è quella della ‘costruzione di ponti’, è
quella del dialogo, che tu hai tanto giustamente indicato”.
La Pira
non poté poi riprendere alla Camera, dove fu eletto, l’attuazione di
quel progetto, perché il 5 novembre 1977 morì. Ma quella VII legislatura
fu quella in cui veramente la Costituzione fu messa alla prova. Era
stato per riprendere il dialogo tra le forze popolari che avevano fatto
la Costituzione, comunisti, socialisti, cattolici, che Zaccagnini aveva
chiesto a La Pira di tornare in Parlamento; e fu per far cadere i muri
che erano stati rialzati tra di loro, che in quella stessa legislatura
noi rompemmo l’unità politica dei cattolici nella Democrazia Cristiana e
restaurammo quel dialogo dall’interno come indipendenti nelle liste del
PCI; e fu per soffocare nel sangue quel nuovo processo costituente da
cui il vecchio potere sarebbe uscito politicamente sconfitto, che
vennero le Brigate Rosse, con il sequestro e l’uccisione di Moro.
Eppure, proprio nel momento del massimo attacco contro di essa, la
Costituzione vinse, perché quelle che furono chiamate Brigate Rosse
furono sconfitte senza leggi eccezionali, senza stati d’assedio e senza
che venissero rimesse in gioco le libertà dei cittadini.
Però non
c’è dubbio che in quella legislatura, dal 1976 al 1979, il progetto
disegnato dalla Carta Costituzionale fu intercettato, sfigurato e
impedito dallo scatenarsi di una reazione inaudita, interna e
internazionale, e da lì cominciò la decadenza italiana, che non è ancora
giunta alla fine. Poi ci ha pensato la globalizzazione economica, a
cominciare da quella europea di Maastricht, a mettere fuori gioco, se
non addirittura fuori legge, i capisaldi egualitari e solidaristici
della Costituzione italiana e a espropriare la Repubblica del compito
che l’art. 3 le aveva assegnato di rimuovere gli ostacoli che
impediscono la libertà e l’eguaglianza dei cittadini e la loro
partecipazione alla determinazione della politica nazionale.
Sicché
oggi celebrare i 70 anni della Costituzione, fuori di una vuota
retorica, non può che voler dire riprendere quel progetto, e difendere
l’edificio costituzionale contro i poteri antagonistici che ancora non
si sono rassegnati alle sconfitte subite nel tentativo di abbatterlo, e
certamente torneranno alla carica. Il 4 dicembre non abbiamo vinto per
sempre.
Tuttavia questo non basta più, perché oggi siamo di fronte a
una nuova sfida altrettanto epocale di quella che affrontammo nel 900. A
metà del Novecento ci si trovò di fronte al fallimento della politica e
delle sue dottrine che avevano portato il mondo alla catastrofe.
Oggi siamo di fronte al fallimento dell’economia e delle sue dottrine che non sono più in grado di reggere la vita del mondo.
L’economia fallisce perché quando aveva sacralizzato la legge della
domanda e dell’offerta, aveva proclamato la sovranità e l’efficienza
della mano invisibile del Mercato e aveva messo la concorrenza, la
competizione e il profitto a governare i processi, o quando per altro
verso aveva basato tutto sul valore-lavoro, aveva dinnanzi a sé un
Mercato fatto da persone umane, merci prodotte da lavoro umano,
transazioni fatte da operatori umani e padroni fatti di capitalisti
umani. Ma oggi enormi volumi di domanda e offerta sono scambiati non tra
uomini, ma tra circuiti informatici automatizzati, spesso alla velocità
di un milionesimo di secondo, il mercato è gestito dalle macchine, le
merci sono prodotte da macchine che dialogano con altre macchine, e i
capitalisti sono essi stessi figure alienate di sistemi impersonali
altrimenti che umani. Per questa ragione come ha detto qualche giorno fa
il prof. Dogliani a un’assemblea dell’Associazione per il rinnovamento
della sinistra, non c’è più solo il problema caro alla sinistra del
lavoro sfruttato, precario, alienato, ma c’è il problema che il lavoro è
soppresso; in quanto costo di produzione da ridurre o da abbattere, il
lavoro umano è soppresso. Ciò è avvenuto non gradualmente, in tempi
fisiologici, come all’inizio della rivoluzione industriale, quando il
luddismo non era giustificato, ma è avvenuto con enorme rapidità, anche
perché sono stati fatti massicci investimenti nell’innovazione
tecnologica proprio allo scopo di distruggere lavoro umano; oppure per
delocalizzarlo in zone meno protette, dove non costa nulla, o
addirittura c’è di nuovo il lavoro schiavo; come ha spiegato l’altro
giorno Luigi Ferrajoli a Napoli, ci sono 45,8 milioni di schiavi oggi
nel mondo, di cui 18,35 solo in India; ma ciò devasta il lavoro
salariato dappertutto.
La perdita del lavoro fa sì che oggi negli
Stati Uniti l’unico lavoro che aumenta è quello della cura alle persone,
ed è lì che si realizza la tanto lodata mobilità e il magnificato
abbandono del mito del posto fisso; solo che perché di questo lavoro ce
ne sia abbastanza per tutti, bisognerebbe augurarsi che tutto il mondo
si trasformi in un immenso cronicario.
E il fallimento
dell’economia sta in ciò: che produce sempre più merci e altre utilità, a
basso costo e con alti profitti, ma scarta i lavoratori, li rende
esuberi e superflui, e così li esclude dalla vita; ma in tal modo scarta
anche i consumatori, e così non si può più né comprare né vendere, ciò
che non a caso nell’Apocalisse di Giovanni è considerato un segno della
fine; e perciò l’economia che uccide, come dice papa Francesco, uccide
anche se stessa; e per questo l’altro ieri, nel messaggio di Natale,
egli ha messo insieme i venti di guerra e “il modello di sviluppo ormai
superato che continua a produrre degrado umano, sociale e ambientale”.
Superato, cioè finito.
Questo vuol dire però oggi, settant’anni
dopo, tenendo ben ferma la Costituzione che abbiamo, aprire una nuova
stagione costituente, ma ormai per un costituzionalismo non solo
italiano, ma globale, tanto quanto lo è la globalizzazione. Una stagione
costituente che, mettendo in sicurezza le conquiste già raggiunte,
cambi il disegno dell’ordine economico del mondo, così come nel
Novecento cambiammo il disegno del suo ordine politico.
Io credo che questa sfida, questo compito, siano alla nostra portata, siano alla portata delle giovani generazioni.
Raniero La Valle