15 dicembre 2017

LA CRITICA VIVA DI F. DE SANCTIS





De Sanctis. Scrivere e agire per fare l'Italia
Giorgio Ficara

Francesco De Sanctis, tutto sommato, non necessita oggi di particolari inviti alla lettura. Il suo piglio, il suo genio, la sua veemenza, i suoi apoftegmi, le sue sciabolate fulminee, i suoi adagia sono irresistibili oggi come cento anni fa. Potremmo chiederci se e come e perché leggere oggi Enrico Nencioni o addirittura Giosuè Carducci, i suoi detrattori di allora. De Sanctis no, lo leggiamo. E grazie a lui, critico militante per eccellenza ci chiediamo innanzitutto: a che serve, oggi, la nostra letteratura? A che servirà?
Se De Sanctis avesse ragione, e il suo Hegel avesse ragione, il nostro Paese, tanto problematico oggi, domani sarebbe progredito in «una coscienza sempre più chiara di sé» e in «una maggiore realtà». Lo spirito ha le sue leggi e anche il male la somma degli attuali mali italiani che abbiamo sotti gli occhi - è, secondo questi leggi, un fenomeno necessario dello spirito «nella sua esplicazione».
In effetti, l'ottimismo d De Sanctis sembrerebbe oggi essere messo duramente alla prova, insieme all'idea stessa dell'avanzare della coscienza unitaria nazionale. Che direbbe De Sanctis, oggi, del suo Sud? Della sua Napoli? D'altra parte, tutto il meraviglioso romanzo della Storia della letteratura italiana non è che un suggerimento, una prefigurazione, un impulso verso un fine: «In questo momento che scrivo le campane suonano a distesa, e annunciano l'entrata degli italiani a Roma»: scrivere e agire, come ci dice questa pagina, sono la stessa cosa e «tempi più umani e civili» (nel suono di quelle campane) sono continuamente e infallibilmente davanti a noi.
L'ideale di De Sanctis non è affatto, come pure si è argomentato, «una sorta di umanesimo in cui l'arte abbia un ruolo subordinato», quanto un mondo in cui l'opera d'arte stessa sia principio di umanità e rinnovato senso morale.
Ancora oggi, tra i formalisti e gli impressionisti più irriducibili, De Sanctis conserva molti nemici giurati. Ma la letteratura non è tutto: non è una religione, né un orizzonte al di là del quale cadremmo nel nulla, né un Dio, né un unico fine.
Una letteratura priva di un fine fuori di sé per De Sanctis non è che ozio o meglio, come diceva lui: «inezie laboriose», buone per «cervelli oziosi e vaghi di sciarade». Ogni grande letteratura, per essere tale, non soltanto deve caricarsi dell'elettricità del mondo e delle cose vive, ma anche determinare un progresso, una civiltà.
Lo diceva Gramsci con ogni chiarezza: De Sanctis, come nessun altro, nel suo lavoro ha unito il sogno di «un nuovo umanesimo, la critica del costume e delle concezioni del mondo, e la critica estetica». La letteratura che è essenzialmente libertà «serve» dunque a qualcosa: è a servizio dell emancipazione e dell'unità dei popoli.
D'altra parte, lo Stato laico emancipato dalla teocrazia e la libertà intellettuale o di coscienza nel senso moderno sono mete raggiunte o raggiungibili solo recentemente. Quando Machiavelli si batteva per la libertà, cioè per la «partecipazione de' cittadini al governo», l'Italia, scrive De Sanctis, era il popolo «meno serio del mondo». Vedere «l'ingegno appiè della ricchezza» era un'immagine straziante. Ed ora questo «basso», questo «peggio», questo «buffonesco» italiani «appiè della ricchezza», se De Sanctis avesse ragione, non torneranno mai più.
Ma invece? Non siamo noi oggi nel punto stesso in cui De Sanctis ha lasciato il suo Machiavelli? Che ne è dello spirito e del suo progredire? Dove sono fuggite la coscienza unitaria nazionale e la letteratura che la rispecchierebbe?
Tra i grandi interpreti di De Sanctis, Gianfranco Contini a proposito della Storia parlava d'una concezione teologica o «emanatistica» della letteratura, in cui ogni testo si integra necessariamente nel successivo, appartiene a una continuità evolutiva, come necessariamente ogni uomo vivo appartiene e opera per il progresso di tutta l'umanità.
Carlo Dionisotti distingueva: da una parte la struttura unitaria del nostro Paese, «che nell'età nostra era giunta a fare così trista prova di sé», dall'altra un capolavoro, la Storia di De Sanctis, che «splendidamente rappresentava l’istanza unitaria del Risorgimento».
Tanto Contini quanto Dionisotti, ci dicono che l'immagine «imminente» dell'Italia è il motore e l'effetto poetico generale presente in ogni pagina della Storia. Tutt’ altro che desanctisiani «politicamente», e non vedendo nessuna «continua realizzazione degli ideali umani» nella storia dell umanità, entrambi ammirano la prosa inquieta del professore napoletano: il «passo innanzi» che egli compie, solo, con le sole sue forze, cioè la letteratura, le parole, verso il nuovo e il meglio.
Ma infine: «il pubblico abbandonando la letteratura, la letteratura è costretta a seguire il pubblico», scrive De Sanctis a proposito del Metastasio: non è così oggi? Non sono perdutamente gettati all'inseguimento del pubblico romanzieri come Baricco, Tamaro, Umberto Eco (peraltro tecnicamente imparagonabili al Metastasio)?
Ripensare a De Sanctis, oggi, significa innanzitutto chiudere la porta. Andarsene. Ammutolire. Non offrire valutazioni, classificazioni, distinzioni nel mercato generale delle lettere. E ricominciare da capo, cercare nei nascondigli, nei doppi fondi dei generi, nel pensiero fisso dell imminenza, dove, se De Sanctis ha ragione, la vera letteratura continua a farsi.

Tuttolibri La Stampa, 14 marzo 2009

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