11 dicembre 2017

F. CARDINI, Sull'arte del saper leggere



Gli antichi declamavano ogni cosa. Poi venne l’uomo che McLuhan definì “tipografico”: e lo studio diventò un fatto interiore. Oggi la tecnologia ci riporta alle origini. Perché leggere, in fondo, è anche un po’ pregare. Una bella riflessione sull'arte del saper leggere.

Franco Cardini

Dal suono al silenzio (e ritorno)

Gli utenti abituali delle ferrovie sono per la massima parte gente che viaggia in “seconda”: specie i funzionari statali, per pochi dei quali è previsto il rimborso della “ prima”. Càpita però che il modesto viaggiatore debba comunque prendere il treno in una giornata di speciale affollamento: e debba quindi farsi per forza il biglietto di “prima”. Il top di tale esperienza è il viaggiare nella “ zona silenzio”: ma chi si sente giunto in un’isola felice, può andar incontro a imbarazzanti sorprese.

Anzitutto non si può telefonare, neppure a voce bassissima; quanto alla conversazione poi, c’è sempre qualcuno che protesta. Sembra che il giudicare sul “tono di voce” sia una delle cose più arbitrarie al mondo. E allora, se il malcapitato ch’è stato più volte redarguito chiede al capotreno: “Ma insomma, cosa posso fare senza che qualcuno si lamenti?”, la risposta arriva naturale: “Leggere, ovviamente”.

Si potrebbe obiettare che no, che non è ovvio per nulla. E ricordare l’ormai classica lezione impartitaci da Marshall McLuhan nel suo celebre Galassia Gutenberg, laddove si contrappone “l’uomo tipografico” alla cultura orale tradizionale e si conclude con l’attribuire buona parte della schizofrenia che ormai da ogni parte ci minaccia all’abbandono di un metodo di lettura che, a voce alta, metteva in gioco almeno due dei cinque sensi — la vista e l’udito — a vantaggio di uno che utilizza soltanto la vista.

Peraltro la lettura dei giorni nostri, che spesso si confronta non già con qualcosa di scritto con l’inchiostro su un supporto cartaceo bensì con labili segni che compaiono su un display, fino ai suoni che oggi ci rimandano gli audiolibri, ci ha disabituato a un mondo nel quale avevano il loro bravo ruolo anche il tatto e l’olfatto, e perfino l’udito era stuzzicato dal fruscio delle pagine.

Chi ha avuto la fortuna di vivere nelle biblioteche d’una volta non dimenticherà l’odore, anzi il profumo delle vecchie carte e la gioia quasi sensuale che si provava accarezzando il duro cartone e il buon vecchio cuoio delle copertine. Quanto al gusto, le metafore sono quanto mai eloquenti: “assaporare le parole”, “gustare una pagina”, “divorare un libro”…

Ma tutto ciò, non si può fare anche leggendo in silenzio, con i soli occhi? Chiunque s’intenda sul serio un pochino di lettura vi risponderà in termini perplessi. Per esempio, il vecchio Alessandro Manzoni consigliava di “leggere con la penna”, e aveva ragione: non c’è nulla di meglio di un passo copiato, cioè trascritto, oppure anche semplicemente riassunto, per penetrare sul serio negli anfratti e nei misteri di un testo. Certo, bisogna metterci attenzione e concentrazione: copiare con l’anima, non solo con gli occhi e le mani. Ma anche quando si legge in silenzio ci accorgeremo che, magari impercettibilmente, stiamo ripetendo quanto leggiamo. Non riusciamo a restar perfettamente muti.
La parola letta con attenzione s’insinua sottile dagli occhi alle corde vocali e sale fino alle labbra, un po’ come succede quando ascoltiamo la musica. E, in fondo, proprio di musica si tratta. Peraltro, non è necessario pensare alla lettura monastica o a quella coranica nelle madrase, o a quella degli scolaretti cinesi che si addestrano a leggere in un idioma nel quale il tono e l’accento sono fondamentali. Chi ha udito leggere in coro dei bambini che stanno affrontando i primi rudimenti della lettura conosce la musicalità dei segni tradotti in emissioni vocali. D’altronde, leggere solo mentalmente fa risparmiare un sacco di tempo.

Qualcuno di voi ricorderà le sensazioni che — era appena arrivato il fatale Sessantotto — ci vennero comunicate dal manuale di Lecture rapide propostoci nel 1969 da François Richaudeau e da Françoise e Michel Gauquelin: e il disprezzo, che sapeva un po’ di futurismo, per tutto quel che procedeva lentamente, che faceva perder tempo. Il “buon lettore” doveva arrivare a leggere quindicimila parole l’ora: i metodi di “lettura rapida” prospettati, ancor avveniristicamente, nella Physiologie de la lecture et de l’écriture di Émile Javal, che è del 1905, sembravano divenuti necessari e obbligatori.

Eppure, fra noi, c’era pur qualche reazionario che ricordava ancora la lezione del Louis Lambert di Honoré de Balzac: il prodigioso lettore veloce, alla lunga, diventa matto. A parte il fatto che a leggere in silenzio e troppo in fretta si rischia spesso di non capirci o di non ricordare nulla: e di dover ricominciare da capo. Leggere lentamente, quindi; tornare a una lettura assaporata. Ciò rimetterà in circolo i metodi di lettura “a voce alta”? Non è detto.

Esiste anche una lettura muta che, proprio in quanto tale, è più intima, più profonda, più preziosamente meditata. Quella domenica 17 giugno del 385 il trentenne rètore Aurelio Agostino di Tagaste, nella basilica che poi sarebbe stata detta “ ambrosiana”, s’incontrava proprio con lui, col grande terribile Ambrogio: e, come ha narrato nelle sue Confessioni (VI, 3), si stupiva nel coglierlo immerso in una lettura silenziosa, una lettura che somigliava alla preghiera del cuore.
Perché leggere e pregare — il termine lectio, appunto, ce lo ricorda — sono operazioni profondamente affini: specie nelle religioni che conoscono una Scrittura Sacra e dove quindi il saper leggere (o l’ascoltar chi legge) è la necessaria porta d’accesso alla parola di Dio. Parola scritta, parola pronunziata; segno veduto, segno ascoltato.

Proprio partendo da ciò si andò sviluppando, nella tarda antichità e nel medioevo, una letteratura “da leggere” alla quale se ne accompagnava — e non necessariamente come ripiego dinanzi all’analfabetismo — una “da ascoltare”.

Sul piano dei generi letterari, per esempio, “ da leggere” intimamente, in silenzio, erano soprattutto i romanzi: specie le scene d’amore; mentre “ da ascoltare” — e quindi, per chi leggeva, da declamare — erano le “canzoni di gesta”, i poemi epici. Scandite, e magari gridate, se fate la guerra; tacete, o sussurrate, se vi apprestate a fare l’amore.

Ma sussurri e grida, lo sapevamo anche prima di Ingmar Bergman, più che opposti sono complementari: e il rumore assordante della cascata può produrre silenzio. Ricordate Paolo e Francesca, che leggevano un giorno “ per diletto”, “ di Lancillotto, e come amor lo spinse”. Era lui che leggeva a lei sempre più piano, sempre più vicino; o lei che leggeva a lui sempre più intima, sempre più commossa? O tacevano entrambi, seguendo lo stesso rigo col cuore in gola, con gli occhi e con le dita che si sfioravano? Non lo sapremo mai. ?


La Repubblica – 3 dicembre 2017

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