25 dicembre 2017

L'ADORAZIONE DEI PASTORI DI TINTORETTO

Particolare dell' Adorazione dei Pastori di Tintoretto


        Riprendo dal diario di una cara amica, Raffaella Terribile, la splendida decrizione di un capolavoro di Tintoretto:


“La Vergine è pallida e guarda il bambino. Ciò che bisognerebbe dipingere sul suo viso è uno stupore ansioso che non è apparso che una volta su un viso umano. Poiché il Cristo è il suo bambino, la carne della sua carne, e il frutto del suo ventre. L’ha portato nove mesi e gli darà il seno e il suo latte diventerà il sangue di Dio. E in certi momenti, la tentazione è così forte che dimentica che è Dio. Lo stringe tra le sue braccia e dice: piccolo mio! Ma in altri momenti, rimane interdetta e pensa: Dio è là e si sente presa da un orrore religioso per questo Dio muto, per questo bambino terrificante. Poiché tutte le madri sono così attratte a momenti davanti a questo frammento ribelle della loro carne che è il loro bambino e si sentono in esilio davanti a questa nuova vita che è stata fatta con la loro vita e che popolano di pensieri estranei. Ma nessun bambino è stato più crudelmente e più rapidamente strappato a sua madre poiché egli è Dio ed è oltre tutto ciò che lei può immaginare. Ed è una dura prova per una madre aver vergogna di sé e della sua condizione umana davanti a suo figlio. Ma penso che ci sono anche altri momenti, rapidi e difficili, in cui sente nello stesso tempo che il Cristo è suo figlio, il suo piccolo, e che è Dio. Lo guarda e pensa: «Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. È fatta di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Mi rassomiglia. È Dio e mi assomiglia. E nessuna donna ha avuto dalla sorte il suo Dio per lei sola. Un Dio piccolo che si può prendere nelle braccia e coprire di baci, un Dio caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e che vive. Ed è in quei momenti che dipingerei Maria, se fossi pittore, e cercherei di rendere l’espressione di tenera audacia e di timidezza con cui protende il dito per toccare la dolce piccola pelle di questo bambino-Dio di cui sente sulle ginocchia il peso tiepido e che le sorride. Questo è tutto su Gesù e sulla Vergine Maria. E Giuseppe? Giuseppe, non lo dipingerei. Non mostrerei che un’ombra in fondo al pagliaio e due occhi brillanti. Poiché non so cosa dire di Giuseppe e Giuseppe non sa che dire di se stesso. Adora ed è felice di adorare e si sente un po’ in esilio. Credo che soffra senza confessarselo. Soffre perché vede quanto la donna che ama assomigli a Dio, quanto già sia vicino a Dio. Poiché Dio è scoppiato come una bomba nell’intimità di questa famiglia. Giuseppe e Maria sono separati per sempre da questo incendio di luce. E tutta la vita di Giuseppe, immagino, sarà per imparare ad accettare”. 

Questo passo è tratto da “Bariona o il figlio del tuono. Racconto di Natale per cristiani e non credenti“, scritto da J.P.Sartre e rappresentato nel campo di concentramento di Treviri davanti ai suoi compagni di prigionia nel Natale del 1940. L’ho riletto recentemente e, per associazione di idee, ho pensato ad una splendida Adorazione dei Pastori di Tintoretto, un’opera che ha sempre colpito la mia immaginazione. Le parole del racconto mi sembravano seguire la trama dei pensieri dei personaggi del dipinto, come i loro sguardi e i loro gesti farebbero intendere. Il dipinto si trova nella Sala Grande della Scuola di San Rocco a Venezia, a pendant con un ovale dove è rappresentata la Tentazione di Adamo ed Eva, con un criterio di stretta corrispondenza inversa (il peccato originale e la sua futura redenzione). Tema fra i più rappresentati dal Medioevo in poi, l’adorazione dei pastori conosce nell’interpretazione di Tintoretto un rinnovamento radicale dei canoni compositivi, come osservò per primo Carlo Ridolfi nel 1648, segnalando la “stravagante invenzione, essendo la Vergine collocata sopra le baltresche di un fienile”. Il pittore ci introduce in punta di piedi nell’atmosfera raccolta di un’umile casa colonica in abbandono, a due piani. Il tetto è parzialmente crollato e, dall’incrocio delle travi rimaste, 13 prive in gran parte della copertura di paglia, lo sguardo ha agio di spaziare oltre, verso un cielo rosseggiante. Una scatola prospettica audace e perfetta, la cui soluzione scenografica sembra precorrere gli esiti stupefacenti della pittura del secolo successivo. Il dipinto è costruito attraverso la trama dei contrasti di un colorismo cupo e vibrante, che si esalta sotto il balenio della luce che scende dal tetto scoperchiato a disegnare i volumi, a scolpire le figure, ad accordare toni di rosso alle stoffe, ad accendere d’oro la paglia della mangiatoia. Il chiaroscuro è intenso, drammatico, e anticipa la suggestiva Annunciazione di Caravaggio. La luce rossastra, densa di vapori, si anima di volti angelici, i cherubini, creature divine che trovano forma fisica nelle volute di fumo, nel vapore sospeso, come nella stupenda Ultima Cena di San Giorgio Maggiore. Abituati come siamo alla Sacra Famiglia in primo piano, scopriamo con sorpresa che i protagonisti qui sono gli umili, i Pastori, con gli animali. Hanno portato offerte semplici, il poco che possiedono. Sull’impalcato di legno, scorciate dal basso, le figure di Maria, Giuseppe e il bambino ricevano l’omaggio di due donne che porgono i doni che i compagni passano loro dal basso. La Madonna si volge verso le donne e solleva un lembo della stoffa che protegge il bambino, per mostrarlo. San Giuseppe la osserva pensoso (“Adora ed è felice di adorare e si sente un po’ in esilio. Credo che soffra senza confessarselo. Soffre perché vede quanto la donna che ama assomigli a Dio, quanto già sia vicino a Dio. Poiché Dio è scoppiato come una bomba nell’intimità di questa famiglia. Giuseppe e Maria sono separati per sempre da questo incendio di luce. E tutta la vita di Giuseppe, immagino, sarà per imparare ad accettare”). Il Vasari definiva Tintoretto “stravagante, capriccioso, presto e risoluto e il più terribile cervello che abbia mai avuto la pittura”, considerava le sue opere “fatte da lui diversamente e fuori dall’uso degli altri pittori”, certamente un omaggio alla capacità inventiva dell’artista, originale nell’interpretazione e coraggioso nella decisione di praticare strade non percorse da altri. “Il più arrischiato pittore del mondo” lo definiva Ridolfi nel 1648, raccontando che nel suo studio l’artista raccoglieva gessi e modellini che poi copiava, studiando gli effetti della luce aiutandosi con una lanterna: allestiva piccole scenografie, prospettive teatrali in miniatura, animate poi da figurine modellate in cera, a volte vestite di stracci, per studiare l’effetto delle pieghe, e illuminava il tutto con delle candele per verificare gli effetti della luce. La gestualità appare marcata, teatrale, e il messaggio si serve di una religiosità popolare, scevra da implicazioni teologiche e scritturali. E’ il linguaggio dei semplici a parlare, la coralità dei poveri, la fede senza compromessi di chi, calpestato dalla storia, continua ad affidare alle preghiere la speranza di un conforto almeno nella vita ultraterrena. Spazio reale, sensibilità “pauperistica” e luce allucinata, straniante, divina, animata da bagliori improvvisi: così Tintoretto rinnova la scena più tradizionale dell’iconografia cristiana, portandoci dentro alla scena e facendoci sentire parte di un “presepe” dove lo stupore dello sguardo ci fa bambini. Un piccolo miracolo che si rinnova.

Raffaella Terribile

Rileggendo uno scritto di qualche anno fa
Alla luce del presente

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