In
questi giorni, è stato ripubblicato dalla casa editrice “La vita
felice” un classico del Novecento: Verrà
la morte e avrà i tuoi occhi di
Cesare
Pavese.
Riprendiamo dal sito http://www.leparoleelecose.it/?p=42677
un estratto della nuova prefazione di Tommaso
Di Dio,
seguito da alcune poesie di Pavese
Con
la notte, il gesto
di
Tommaso Di Dio
Verrà
la morte e avrà i tuoi occhi:
questo il verso con cui si apre una delle opere più celebri del
Novecento, un’opera senza eredi, di cui – come per tutti i veri
capolavori – è possibile solo la parodia. Con la prepotenza di un
doppio futuro, questo titolo sembra nondimeno l’affermazione di una
certezza indubitabile. Qualcosa si dà, apodittico, senza possibilità
di replica, e fonda la propria evidenza su di una logica non
conseguenziale, ma metonimica, di prossimità in prossimità animata
da una forza altra, oscura, che presiede alle cose prime e alle cose
ultime: lo sguardo, la morte. Le poesie di cui si compone questo
libro sono state scritte alla metà del Novecento: vengono dal centro
di un secolo i cui spettri non riusciamo ancora a dimenticare e che
qui, in questo esilissimo libro di soli ventuno testi, si mostrano in
un’epitome astratta, assoluta. Ancora, a distanza di più
settant’anni dalla loro prima, postuma edizione, queste poesie,
calibrate rigorosamente sulla misura breve di un verso ipnotico,
litanico, ci costringono al confronto con qualcosa che ancora oggi ci
pare ineludibile. A guardarle per un momento, così stagliate sulla
pagina bianca, così esili, sembrano un monito; come se chi le
scrisse non abbia mai potuto staccarsi dall’idea che dall’essere,
dall’essere pienamente se stessi, non potrà mai essere disgiunta
un’esperienza terribile, abbacinante: «Sarai tu – ferma e
chiara.»
A
chi incontrasse per la prima volta questi versi, vorrei dire: siate
cauti; e leggeteli come se riceveste in dono un segreto. E il segreto
non è il nome proprio che si dischiude, di volta in volta, dietro il
pronome di seconda persona. Queste poesie – lo sappiamo – nascono
dall’incontro con alcune donne (La
terra e la morte del
1947 raccoglie i testi per la scrittrice e analista Bianca Garufi, le
restanti del 1950 sono per l’attrice americana Constance Dowling),
ma tutte sembrano la stessa poesia, un infinito reiterato tentativo
di scrivere la sola poesia che valga la pena di scrivere. Dietro a
ciascuna e a tutte, si avverte la medesima insistenza: come se al di
là del paravento, dell’occasione apparentemente struggente e
patetica – poesie d’amore per amori infelici –, premesse una
dimensione vibrante, ctonia, che solo l’energia di un amore
sbagliato ha avuto la capacità di risvegliare e di condurre alla
superficie della parola. E così dietro a questo «tu» che torna e
ritorna, che batte e ribatte ossessivamente in quasi ogni poesia, si
nasconde qualcosa che non ha e non può avere un nome proprio, che
può soltanto essere invocato da quella parte del discorso che, per
eccellenza, ‘sta al posto di’ e che rimanda al di là del
linguaggio, nel mondo delle cose e dei fatti, dei gesti. Se c’è un
segreto in queste poesie, sta tutto qui: nell’uso di questo pronome
di seconda persona.
Il
«tu» è un pronome strano: è il segno di un’alterità che però,
a differenza della terza persona, porta con sé anche il
presentimento e il desiderio di una massima intimità. Ci si rivolge
con questa parola a chi ci è prossimo, così prossimo da essere
oggetto di rabbia, di affetto o dell’amore più carnale; eppure,
per la medesima ragione, è un pronome allucinatorio, spettro
dell’assente e di chi è invocato. «Tu» è un pronome
paradossale: sta alla logica della metafisica quanto sta a quella
dell’incarnazione. È il pronome di un’attesa e di una speranza
che non abita le distanze astratte delle speculazioni teologiche, ma
le viscere e il sangue, perché nel «tu» è sempre in causa il
volto di un’appartenenza, la tremenda speranza che chi manca possa
comparire davanti a noi, sia già accanto a noi, sia già spazio
dentro di noi. Pavese – che ironicamente scriveva di sé «Tu sei
celibe – non credi in Dio»[1] –
sapeva bene che, per lui, l’uso di questo pronome poteva solo
aprire le porte di un abisso senza fine. Lo sapeva ed è stata la
scoperta della sua vita, deposta in questi testi durante i suoi anni
estremi. Il segreto della poesia, aveva scritto, sta tutto in questa
capacità di rievocare la vita «una seconda volta»[2]:
conoscere è ricordare; e favole, miti, profezie e preghiere si
intrecciano alla poesia, che infine non vuole altro che far accadere
nuovamente ciò che si nomina. Scrive ne Il
mestiere di vivere:
«Ecco la poesia, che è magia e rito – religione»[3].
Si scrive la poesia come componendo un’azione nello spazio
sacrificale della pagina; e si scrive «tu» perché il «tu»
arrivi, perché il «tu» avvenga e ricompaia, certo non in una
presupposta realtà, là fuori da qualche parte, ma perché diventi
invece presenza ripetuta nel linguaggio e così, assente, prenda vita
in noi, sia sangue nel nostro sangue: «tu dura e dolcissima/ parola,
antica per sangue/ raccolto negli occhi». Pavese era convinto che
fra rito, mito e dogma intercorresse la stessa tensione che c’è
fra vita, poesia e filosofia[4].
La vita muta dei gesti sta allora al rito come il mito alle parole
della poesia e il momento di «commozione estatica», di cui la
poesia è testimonianza bruciante, non è mai contatto alogico e
primigenio con l’aorgico, ma ricordo di un segno che si trovò
«trasfigurato», terribile «favola». Per Pavese l’infanzia non è
solo il nome che diamo all’area immemore della nostra vita senza
linguaggio, ma quel terribile «vivaio» di «gesti e parole
irreparabili» in cui specchiare «l’orrore adulto»[5];
lì abbiamo imparato «a conoscere il mondo non – come parrebbe –
con immediato e originario contatto alle cose, ma attraverso i segni
delle cose»; e se «si risale un qualunque momento di commozione
estatica davanti a qualcosa del mondo, si trova che ci commuoviamo
perché ci siamo già commossi»[6].
E allora dietro questo «tu» non c’è niente? Il nulla di un
rinvio cieco, vuoto? Un dio assente? Solo linguaggio che rumoreggia,
ricordando se stesso?
No,
certo che no. Per Pavese la poesia era un’altra cosa: slancio
rischioso, rapporto, profonda ricerca formale, «dolore operoso»[7].
Una volta, anni prima, nel 1936, il giovane autore di Lavorare
stanca[8],
rispondendo ad una recensione negativa di un erudito piemontese[9],
dopo aver dichiarato di essere completamente concorde sul fallimento
del suo tribolato primo libro, aveva sostenuto che l’obiettivo
estetico di quelle poesie fosse «rappresentare un mondo», «un
mondo di giovani che vivono contenti e meravigliati delle cose
reali»; Pavese precisa, fra parentesi, che l’autore in quel mondo
dovesse entrare «come un semplice personaggio e non con la
prepotente sicumera del lirico che si canta».
Cosa ne è di quella pretesa, dieci anni dopo? Per descrivere «un
mondo», è bastato fare di sé un personaggio fra i tanti? In Verrà
la morte e avrà i tuoi occhi la
pretesa giovanile di ‘realismo’ sarà perseguita con altrettanta
forza, ma ben oltre l’ingenua equivalenza fra mondo e «cose
reali». Pavese, da questo punto di vista, va decisamente al di là
dell’assunto neorealista, a tal punto che il suo – come per
i Dialoghi
con Leucò[10],
vero testo a fronte di queste poesie – è stato un tentativo quasi
incomprensibile per l’epoca e finanche sospetto di essere
reazionario. Il realismo di Verrà
la morte e avrà i tuoi occhi è,
infatti, tutto risolto nella rappresentazione di un sentimento e, per
paradosso, non c’è niente di meno soggettivo del sentimento. Il
sentimento, che una vulgata pseudoromantica vorrebbe legato
indissolubilmente all’espressione di una claustrale soggettività,
è invece sempre effetto di ciò che si impone dall’esterno, è il
segno del ‘fuori’ dentro di noi; il sentimento è ciò che apre e
spazia il mostro monologico dell’io e lo dischiude alla verità del
dialogo di cui è costituito, abitato com’è dal «noi» sociale e
dal «tu» di un’appartenenza. In questa opera estrema, il
tradizionale soggetto della poesia lirica, l’io, cessa di essere un
personaggio fra gli altri, come era accaduto in Lavorare
stanca,
e scompare quasi del tutto; ciò che lascia sulla pagina è una
scena: di poesia in poesia, assistiamo alla composizione strutturale
di un paesaggio oggettivo di simboli. Lo ritroviamo ad ogni verso:
«Anche tu sei collina e sentiero di sassi/ e gioco nei canneti,/ e
conosci la vigna/ che di notte tace». Pavese già anni prima lo
aveva scritto, avvicinando il termine ‘descrizione’ a quello di
‘sentimento’: «mi pare comunque esatto che sentimento sia il
descrivere propriamente»; e aggiunge che «adoperare le commozioni
per scoprirvi rapporti è infatti già elaborare razionalmente queste
esperienze»[11].
Se dunque il sentimento è una dimensione oggettiva come quella
propria di una descrizione accurata, altrettanto lo è il simbolo,
che per Pavese non è altro che «l’attimo estatico», momento di
fuoriuscita dal sé, in una dimensione che è sì «supertemporale»,
ma che si arricchisce della trafila storica dei nostri gesti,
accumulatasi nella memoria[12].
Di ciò parlano queste poesie, che sono interamente costruite sul
rapporto reciprocamente evocativo fra sentimento e paesaggio. Quello
che Pavese chiama «il puro pezzo mimetico», il sentimento, non è
che l’accordo fra un «tu» che, perdendo definitivamente il nome
proprio, diviene simbolo, che si dà nel linguaggio mediante metafora
e metonimia; l’io è ciò che resta, ovvero lo spazio di questo
avvenimento. Ecco perché tanta parte di queste poesie sono costruite
sulla reiterazione di una medesima struttura che vede il pronome di
seconda persona, implicito o esplicito, affiancarsi ossessivamente ad
un verbo copulativo a cui si lega, nella posizione predicativa, un
elemento simbolico del paesaggio. È la reiterazione perfetta di
questa macchina retorica che fa di Verrà
la morte e avrà i tuoi occhi un
libro così suggestivo, così potente, così inquietante. Da un lato,
è capace di dare voce al senso di spossessamento che provoca il
sentimento amoroso; dall’altro, a questa espropriazione dà un nome
preciso: e il suo nome è morte
[…]
_______________________________
[1] Si
veda Cesare Pavese, Il
mestiere di vivere,
21 novembre 1947: «Sapere che qualcuno ti attende, qualcuno ti può
chiedere conto dei tuoi gesti e pensieri, qualcuno ti può seguire
con gli occhi e aspettarsi una parola – tutto questo ti pesa,
t’impaccia, t’offende. Ecco perché il credente è sano, anche
carnalmente – sa che qualcuno lo attende, il suo Dio. Tu sei celibe
– non credi in Dio.»
[2] Cesare
Pavese, Il
mestiere di vivere,
26 settembre 1942: «Non esiste un ‘veder le cose la prima volta’.
Quella che ricordiamo, che notiamo, è sempre una seconda volta».
[3] Si
veda Cesare Pavese, Il
mestiere di vivere,
cit., 11 dicembre 1947: «… the hunting, fighting, or what not, the
thing done, is never religious; the thing re-done with heightened
emotion is on the way to become so. The element of action re-done,
imitated, the element of μίμησις is, I think, essential… Not
the attempt to deceive, but a desire to re-live, to re-present»
(HARRISON. Themis. 26 p. 43). Non corrisponde al tuo vedere mitico,
alla tua «seconda volta»? E in questa mimesi c’è il segreto
della poesia. Ripresentare una cosa fatta, una caccia, una battaglia,
non è raccontarla? Ripresentarla prima che avvenga, per farla
accadere (magìa), non è profetarla? Ecco la poesia, che è magìa e
rito – religione.» L’autore sta commentando una frase tratta
dall’opera di Jane E. Harrison, Themis. A
study of the Social Origins of Greek Religion,
Cambridge University Press, Cambridge 1912.
[4] Si
veda Il
mestiere di vivere,
cit., 20 dicembre 1947: «Che il rito preceda sempre il mito e il
dogma è la grande legge delle cose spirituali. Se per rito dici vita
e per mito e dogma poesia e filosofia, la cosa è chiara.»
[5] Ivi,
27 Novembre 1937: «Tutti gli uomini hanno un cancro che li rode, un
escremento giornaliero, un male a scadenza: la loro insoddisfazione;
il punto di scontro tra il loro essere reale, scheletrico, e
l’infinita complessità della vita. E tutti prima o poi se ne
accorgono. Di ciascuno bisognerà indagare, immaginare il lento
accorgersi o il fulmineo intuire. Quasi tutti – pare –
rintracciano nell’infanzia i segni dell’orrore adulto. Indagare
questo vivaio di retrospettive scoperte, di sbigottimenti, questo
loro angoscioso ritrovarsi prefigurati in gesti e parole irreparabili
dell’infanzia. I Fioretti del Diavolo. Contemplare senza posa
quest’orrore: ciò ch’è stato, sarà.»
[6] Si
veda Il
mestiere di vivere,
cit., 31 agosto 1942: «Da bambino s’impara a conoscere il mondo
non – come parrebbe – con immediato e originario contatto alle
cose, ma attraverso i segni delle cose: parole, vignette, racconti.
Se si risale un qualunque momento di commozione estatica davanti a
qualcosa del mondo, si trova che ci commuoviamo perché ci siamo già
commossi; e ci siamo già commossi, perché un giorno qualcosa ci
apparve trasfigurato, staccato dal resto, per una parola, una favola,
una fantasia che vi si riferiva. Naturalmente a quel tempo la
fantasia ci giunse come realtà, come conoscenza oggettiva e non come
invenzione. (Giacché che l’infanzia sia poetica è soltanto una
fantasia dell’età matura.)»
[7] Così
in risposta ad una lettera Torino, in risposta ad una lettera
timbrata 23 novembre 1925, all’amico di studi giovanili Mario
Sturani.
[8] Cesare
Pavese, Lavorare
stanca,
Firenze, Solaria, 1936; la pubblicazione del libro – che fu
per lo più ignorato – avvenne mentre Pavese stava scontando una
pena triennale al confino a Brancaleone Calabro, che si concluse con
il rientro a Torino nel marzo del 1936, essendo stata infine
accettata la richiesta di grazia proposta dalla sorella.
[9] Si
veda Cesare Pavese, Vita
attraverso le lettere,
a cura di L. Mondo, Einaudi, Torino, 2014; la lettera del giugno del
1936 è rivolta a Giuseppe Cassano: «In poche parole, l’idea delle
mie poesie, astratta di volta in volta per decantazione, non
anticipata in tesi, era questa: rappresentare un mondo (in cui
l’autore entrasse come un semplice personaggio e non con la
prepotente sicumera del lirico che si canta), un mondo di giovani che
vivono contenti e meravigliati delle cose reali, che si muovono con
mattutina spensieratezza tra gli uomini, che non rifiutano di fare
una risata o una nuotata o una bevuta o anche, perché no?, una
chiavata, ma che soprattutto amano i gesti semplici e netti, le
situazioni chiare, il riposo dopo la fatica, la fatica dopo il
riposo.»
[10] I Dialoghi
con Leucò furono
scritti dal 1945 al 1947, anno della loro pubblicazione per Einaudi.
Il libro, carissimo al loro autore, quasi ignorato alla sua uscita, è
dedicato a Bianca Garufi. Pavese ne aveva una copia con sé, quando
fu trovato in una camera dell’albergo Roma di Torino. Sulla prima
pagina fu trovata la sua ultima nota di diario: «Perdono tutti e a
tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».
[11] Si
veda Il
mestiere di vivere,
cit., 1 novembre 1935: «È interessante l’idea che il sentimento
in arte sia il puro pezzo mimetico, l’esatta descrizione della
bonaccia. Una descrizione cioè, fatta con termini propri, senza
scoperte di rapporti immaginosi e senza intrusioni logiche. Ma se è
concepibile una descrizione che non conti immagini (che forse la
natura stessa del linguaggio nega), può darsi una descrizione al di
qua del pensiero logico? Non è già espressione di giudizio
osservare che l’albero è verde? O se pare ridicolo trovare un
pensiero in simile banalità, dove finisce la banalità e comincia il
vero giudizio logico? Rimando a miglior filosofo il secondo
capoverso. Mi pare comunque esatto che sentimento sia il descrivere
propriamente. Adoperare le commozioni per scoprirvi rapporti è
infatti già elaborare razionalmente queste esperienze.»
[12] Si
veda Il
mestiere di vivere,
cit., 17 settembre 1942: «La novità di quest’oggi è che l’attimo
estatico corrisponda al simbolo, che sarebbe quindi la pura libertà.
Viviamo nel mondo delle cose, dei fatti, dei gesti, che è il mondo
del tempo. Il nostro sforzo incessante e inconsapevole è un tendere
fuori del tempo, all’attimo estatico che realizza la nostra
libertà. Accade che le cose i fatti i gesti – il passare del tempo
– ci promettono di questi attimi, li rivestono, li incarnano. Essi
divengono simboli della nostra libertà. Ognuno di noi ha una
ricchezza di cose fatti e gesti che sono i simboli della sua felicità
– essi non valgono per sé, per la loro naturalità, ma c’invitano
ci chiamano, sono simboli. Il tempo arricchisce meravigliosamente
questo mondo di segni, in quanto crea un gioco di prospettive che
moltiplica il significato supertemporale di questi simboli. Che è
quanto dire che non esistono simboli negativi, pessimistici, o
semplicemente banali: il simbolo è sempre attimo estatico,
affermazione, centro».
*
da Verrà
la morte e avrà i tuoi occhi
di
Cesare Pavese
Tu
sei come una terra
che
nessuno ha mai detto.
Tu
non attendi nulla
se
non la parola
che
sgorgherà dal fondo
come
un frutto tra i rami.
C’è
un vento che ti giunge.
Cose
secche e rimorte
t’ingombrano
e vanno nel vento.
Membra
e parole antiche.
Tu
tremi nell’estate.
[29
ottobre 1945]
*
Sei
la terra e la morte.
La
tua stagione è il buio
e
il silenzio. Non vive
cosa
che più di te
sia
remota dall’alba.
Quando
sembri destarti
sei
soltanto dolore,
l’hai
negli occhi e nel sangue
ma
tu non senti. Vivi
come
vive una pietra,
come
la terra dura.
E
ti vestono sogni
movimenti
singulti
che
tu ignori. Il dolore
come
l’acqua di un lago
trepida
e ti circonda.
Sono
cerchi sull’acqua.
Tu
li lasci svanire.
Sei
la terra e la morte.
[3
dicembre 1945]
*
Verrà̀
la morte e avrà̀ i tuoi occhi –
questa
morte che ci accompagna
dal
mattino alla sera, insonne,
sorda,
come un vecchio rimorso
o
un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno
una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così
li vedi ogni mattina
quando
su te sola ti pieghi
nello
specchio. O cara speranza,
quel
giorno sapremo anche noi
che
sei la vita e sei il nulla.
Per
tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà̀
la morte e avrà̀ i tuoi occhi.
Sarà
come smettere un vizio,
come
vedere nello specchio
riemergere
un viso morto,
come
ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo
nel gorgo muti.
[22
marzo 1950]
*
The
night you slept
Anche
la notte ti somiglia,
la
notte remota che piange
muta,
dentro il cuore profondo,
e
le stelle passano stanche.
Una
guancia tocca una guancia –
è
un brivido freddo, qualcuno
si
dibatte e t’implora, solo,
sperduto
in te, nella tua febbre.
La
notte soffre e anela l’alba,
povero
cuore che sussulti.
O
viso chiuso, buia angoscia,
febbre
che rattristi le stelle,
c’è
chi come te attende l’alba
scrutando
il tuo viso in silenzio.
Sei
distesa sotto la notte
come
un chiuso orizzonte morto.
Povero
cuore che sussulti,
un
giorno lontano eri l’alba.
[4
aprile 1950]