IL ROSSO E NERO, CORPO A CORPO COL NOVECENTO
di Andrea Cortellessa
Il nemico è penetrato nella mia città Post-CSI
E ti vengo a cercare
anche solo per vederti o parlare
perché ho bisogno della tua presenza
per capire meglio la mia essenza…
perché in te vedo le mie radici
EREDITÀ DEL FASCISMO. Stava scritto così, a caratteri cubitali in carboncino grossolano, su un muro ancora-lesionato di San Lorenzo. Migliaia di volte ho letto questo sintagma percorrendo quelle strade, tra Liceo e Università, dall’inizio degli Ottanta alla fine dei Novanta. Lì dove nel luglio del Quarantatré, sotto le bombe delle Fortezze Volanti, il nodo del Fascismo veniva catastroficamente al pettine; e l’Autobiografia del Paese, come all’inizio del Ventennio l’aveva definita Piero Gobetti, a una delle sue pagine più dolorose. Qualche anno dopo l’ossessione gentrificante della giunta Veltroni – proprio mentre con sussiego inaugurava Case della Memoria e della Storia – pensò bene di stendere, su quel muro così eloquente, una mano d’oblio (lo stesso era accaduto – ricordava allora Andrea Zanzotto – sul casolare veneto sulle cui mura si leggeva in precedenza la scritta FAIER: traduzione fonetica d’un anonimo contadino marchiato a fuoco, è il caso di dire, dalle grida della Wehrmacht nell’agosto del Quarantaquattro).
Quell’Eredità, in forma di archivio famigliare (trasmessogli dalla sorellastra Fausta, eccellente grafica editoriale nonché editrice in proprio, e fotografato – unica immagine inclusa nel libro – all’ultima pagina di Storia aperta), perseguita Davide Orecchio almeno da vent’anni. Cioè dalla morte del padre ottantaseienne, nel gennaio 2001, puntuale all’appuntamento: non poteva infatti che morire insieme al suo secolo, Alfredo Orecchio. Se suo figlio ha intitolato un suo libro Mio padre la rivoluzione, potrebbe ben dire pure «mio padre il secolo» di un uomo che, per colmo d’esattezza, era nato nel 1915: giusto all’alba (italiana), cioè, di quello che Hobsbawm ha definito il «secolo breve» (o meglio, col titolo originale, The Age of the Extremes). Nella fondamentale «nota» che conclude Storia aperta – davvero il sugo di tutta questa «storia» – racconta D.O. di aver letto un libro poco dopo la morte di A.O., come lo chiama lui (L’impetuosa giovinezza di antiborghesi senza rimedio, dedicato da Salvatore Palumbo a una serie di collaboratori alla «stampa messinese degli anni Trenta»), alla sua figura in gran parte dedicato: e che, colpo a tradimento al plesso solare, rovesciava come un guanto tutto quello che, sino a quel momento, di suo padre credeva di sapere. Gli aveva raccontato infatti, A.O., di essere stato coscritto da suo padre, a vent’anni, alla Guerra d’Etiopia del ’35: quello del fascismo giovanile, si era sempre giustificato il «compagno spezzato» nel corso della seconda vita passata a collaborare alla stampa organica al P.C.I. (a lungo critico a «Paese Sera»: gli stessi anni, e al tavolo accanto c’è da credere, di un risoluto mai-fascista e non-comunista come Elio Pagliarani), era stato un errore indotto. Non era stata colpa sua. E invece ecco vulnerante la «rivelazione»: scopre D.O., a ceneri calde, che dell’ambiente ribelle dei c.d. “fascisti di sinistra” (quelli che si riferivano a loro stessi, piuttosto, come «super-fascisti»; gli unici restati fedeli alla vera o presunta matrice antiborghese e “svaticanante” del fascismo-movimento delle origini; quelli che il cinismo del Duce – «M.», lo chiama sempre D.O. – e dei suoi gerarchi sempre trattò come “utili idioti”, cioè) A.O. era stato «uno dei protagonisti»: «a diciassette anni già pubblicava articoli e stroncava Montale e Quasimodo» (ovviamente accusati di “grigio” a-fascismo, se non proprio di più o meno nicodemita anti-fascismo), «a vent’anni si era arruolato nella campagna d’Africa. Volontario. Non coscritto dal padre».
Comincia così la quête che occuperà il figlio per i vent’anni conclusi dalla stesura e dalla pubblicazione di Storia aperta. C’è da chiedersi perché definisca «aperta», questa storia. «Città aperta», in omaggio solo formale alla convenzione dell’Aia del 1907, era stata com’è noto dichiarata nell’agosto del ’43 la Roma (bombardata, infatti, anche in seguito) – nella quale A.O. si schiera definitivamente “dalla parte giusta” e opera nei GAP, partecipando a diverse azioni armate contro i fascisti e l’occupante «lupo nazista» (episodi narrati nel capitolo X del libro) nottetempo guidato dalla lettura, tutt’altro che ovvia, di Saba e Montale. Aperta è però anzitutto la sua storia: fisicamente liberata dai legacci che racchiudevano l’involucro di quell’archivio (e figurano sulla copertina del libro, virata di rosso cupo: «un diario di carta, inchiostro, spago, cartoncino verde»); ma soprattutto, metaforicamente, dagli impacci e dalle reticenze che silenziavano, in vita, il racconto paterno. In un inquieto dialogo con Daniele Giglioli, qualche anno fa, si chiedeva D.O. «perché ho dovuto inventarmela, questa storia, e in parte tradirla? Forse […] perché l’ho avuta in casa, incarnata in una figura paterna dalla quale ero distante, anagraficamente, più di mezzo secolo. Un uomo che aveva attraversato il fascismo da giovane, che poi era stato partigiano, infine giornalista comunista nell’Italia democratica e repubblicana; ma che a me non raccontava nulla. Quasi una sfinge. La fonte primaria era muta».
Il tema del silenzio dei reduci, almeno dal Benjamin del saggio sul Narratore, è un tòpos nella riflessione degli eredi. Ma in particolare nella circostanza alludeva, D.O., alla singolarissima forma nella quale l’ha manipolata, questa storia, prima di consegnarla a noi lettori. Il metodo della Storia aperta, infatti, è lo stesso del sorprendente libro d’esordio Città distrutte, pubblicato da un piccolo editore curioso come Alberto Gaffi, nel 2012, al termine di una serie di eloquenti rifiuti editoriali (e ripubblicato nel 2018 dal Saggiatore, con bella postfazione di Goffredo Fofi). Quel libro ha per sottotitolo Sei biografie infedeli e racconta appunto sei vite “esemplari”, come si dice, ma che se risultano tali è proprio in quanto inventate e in parte tradite: vite “vere”, cioè (con l’eccezione della prima e più commovente, quella della desaparecida argentina Éster Terracina), ma dall’autore modificate talora in misura radicale (come quella, esilarante quanto dolente, del cineasta russo in esilio Valentin Rakar: che adombra un ipotetico Andreij Tarkovskij privo di talento, e soprattutto di successo), attribuendo loro gesti e parole appartenenti ad altri, e così conducendole a esiti del tutto diversi da quelli “davvero” avuti in sorte. Le carte vengono scoperte, o piuttosto aperte, nelle fitte note che corredano in coda ciascun “racconto”: il quale si picca – per colmo di scrupolo “filologico” da parte dello storico di vocazione, e di temperamento, che è Orecchio – di distinguere con diverse virgolette le citazioni «vere» da quelle “deviate” e da quelle ‘manipolate’.
Non in molti allora se ne accorsero, ma fra quelle biografie infedeli c’era anche quella di suo padre Alfredo, al quale veniva attribuito lo pseudonimo (se così si può definire) di «Pietro Migliorisi». Nomen omen (come quello del suo biografo-portavoce), non tanto per la collocazione nell’ala c.d. «migliorista» del P.C.I., quanto appunto – si capisce solo ora, a posteriori – per il tentativo strenuo, e chissà fino a che punto consapevole, di “migliorare” la sua problematica biografia: agli occhi propri, c’è da credere, prima che dei suoi cari. Prima che il suo infedele biografo era stato lo stesso A.O., dunque, a “distruggere” la sua vita e a “ricostruirla” (questo il significato del titolo di quel primo libro, spiegato da un’altra sua protagonista, «Betta Rauch», che adombra invece la madre di D.O., Oretta Bongarzoni: «la storia è fatta di città distrutte e poi ricostruite»): in modo più confacente alle proprie aspirazioni, ai propri rimpianti, ai propri astratti furori. Se D.O. ha potuto adibire la sua «letteratura come menzogna» a più profonda chiave interpretativa della “realtà” storica (e di una storia tutta particolare come quella che letteralmente circola nelle sue vene), è per contrappasso nei confronti della menzogna, tanto comprensibilmente umana quanto insidiosamente infedele, che ha tenuto in vita suo padre.
Gli Episodi dalla vita di Pietro Migliorisi sono però, in Città distrutte, solo «episodi» appunto. In abbrivo scriveva D.O.: «quest’uomo che è diventato per me il più sconosciuto e insieme il più vicino, vorrei ritrarlo come si deve lasciando che con lui parlassero cuore e cervello, fatti e testimoni, lirica e prosa […]. Vale più della mia penna balbuziente. Ogni volta che decido di partire penso che forse c’è ancora da rovistare per farsi un’idea e mi fermo. La mia indolenza ha potenzialità inesplorate. Ma ho scoperto le armi che la vincono: l’incompiuto e l’omesso. Prima o poi scriverò la storia di Pietro Migliorisi. Oggi però, giorno d’autunno e poco dopo la mezzanotte, aggiro l’ostacolo. Lo sminuzzo. Mi allontano e quello diventa piccolo, ne racconterò frammenti. (Presto sarò all’altezza dell’Intero. Domani. Non ora. Aspettatemi.)»
A questa promessa ha dato infine adempimento Storia aperta: non episodi, non frammenti, nessuna balbuzie. Ora la storia è aperta perché è quella dell’Intero; niente vi resta d’incompiuto e di omesso; la penna di D.O. è non meno potente e coraggiosa della sua acribia documentaria e della sua mens narrativa, e non arretra di fronte a nessuna sfida. Né al tambureggiare epico delle scene di guerra (nell’arco breve della sua “prima vita” A.O. non se ne perde una: dall’Africa alla Spagna, dalla Grecia alla Roma gappista), né ai ripiegamenti tormentosi degli esami di coscienza che, fra un’esplosione di non meno tormentosa vitalità e l’altra, accerchiano di interrogativi Migliorisi; per poi definitivamente soffocarlo nella sua “seconda vita”: quando il Partito – che Tutto Sa –in ogni modo gli fa capire la sua cronica mancanza di fiducia nei suoi confronti, e intanto esige da lui sempre più impegnative prove di fedeltà.
Per concertare queste diverse tonalità, il talento pluristilistico di D.O. («polifonico», l’ha definito su «Tuttolibri» Helena Janeczek, sottilmente quanto opportunamente mutuando un aureo concetto di Bachtin) alterna con sapienza i registri, in modo ancora più libero e plastico di quanto non facesse in Città distrutte (e molto deve aver contato il “ritorno” su questa modalità di scrittura del più maturo e virtuosistico Mio padre la rivoluzione). Ai capitoli più franti, scanditi da punti fermi dalla mera valenza ritmica, che più da vicino guardano alla lirica, personalmente preferisco quelli in prosa, mirabilmente screziati di venature indirette libere, nelle quali a fungere da “interpunzione” musicale sono allora le tessere variamente apocrife, le sempiterne virgolette rivelatrici, le voci altre cioè che vanno a comporre quella di Pietro Migliorisi. Ma è l’insieme di questi toni, e di questi ritmi, a fare della Storia aperta il capolavoro che è: come molte prove maiuscole della nostra narrativa recente (da quelle di Francesco Pecoraro a quelle di Giorgio Vasta, da Giorgio Falco alla stessa Janeczek), un’opera “neomodernista” che, per conseguire l’oltranza delle grandi narrazioni moderne, non si perita di adottare stratagemmi compositivi di matrice che invece, storicamente, sarebbe “postmodernista” (è quello che dice, con rimarchevole onestà intellettuale, un critico con questi ultimi mai troppo indulgente quale Fofi).
Il combinato disposto della non-fiction applicata a figure “vere”, ancorché non così universalmente note, e della loro manipolazione pseudo-documentaria (esilarante la pseudo-bibliografia di pseudobiblia che si affianca alla bibliografia “vera”, sterminata, addotta nelle quasi ottanta fitte pagine di note conclusive: con titoli come i Bestiari del fascismo, i Sillabari rossi, la Prosopografia del comunismo italiano o il Dizionario biografico del Se) deriva infatti dal più prestigioso archimandrita del postmodernismo letterario, il Borges della Storia universale dell’infamia (1935): il suo libro, cioè, che più ha salato il sangue ai narratori delle generazioni successive («la postmodernità inizia con Borges», ha tirato corto Javier Cercas nelle conferenze del Punto cieco) e che, a scanso di equivoci, figurava in esergo al capitolo di Città distrutte dedicato a Migliorisi. Il jeu de mots borgesiano sull’«infamia» (che verrà ripreso da un suo lettore accanito come Michel Foucault) mette in relazione la mancanza di fama delle vite raccontate con l’infamia che, più denotativamente, contrassegna l’ethos di alcune di loro; nonché, forse in primo luogo, quello di colui che si arroga il diritto di così spregiudicatamente manipolarle (senza neppure sognarsi – va detto – l’onestà deontologica del suo discepolo di ottant’anni dopo…).
Ma non c’è traccia di questo divertissement deliziatamente amorale in Orecchio: che viceversa si piega, sulle verità e sulle menzogne di suo padre, con pietas infinita perché infinitamente minuziosa. È solo attraverso questo cortocircuito morale che può realizzare il miracolo (dopo romanzi storici al medesimo periodo dedicati, tanto fortunati quanto inefficaci, affetti come sono da inemendabile cartapesta linguistica: letterariamente inerti e dunque tanto storicamente che moralmente trascurabili) di una compiutamente narrativa anatomia del fascismo: la più sottile e lancinante analisi, cioè, di come fascisti si diventi, di come nel fascismo si cerchi una forza immaginaria e dunque immeritata, di come il fascismo lo si finisca per odiare in sé stessi e volontaristicamente, in sé appunto, lo si «uccida» così cercando di depurarsene una volta per tutte; ma anche di come, per questa via, in effetti lo si censuri, lo si cancelli, lo si dimentichi: all’inizio per nasconderlo agli altri, in realtà per obliterarlo a sé stessi. E così la crudeltà di quell’anatomia, così necessaria, pure si finisca per dimenticarla: per eccesso, diciamo, di cauterizzazione.
È davvero questa di Orecchio, allora, la Biografia di un Paese. “Vera” in quanto deliberatamente tutta “mentita”: per rispondere all’altrui menzogna, in una litote trascendentale nella quale – come nel paradosso del Cretese meglio di tutti enunciato e dunque praticato, a suo tempo, da un altro discepolo di Borges quale Giorgio Manganelli – due menzogne, l’una contrapposta o meglio sovrapposta all’altra, dicono la verità. Una verità tutta umana, distantissima dalle “verità” pelose e maramalde di chi in questi decenni ha spiato dal buco della serratura le vite dei «redenti» o dei «voltagabbana», scandalisticamente annoverando ogni minima pagliuzza negli occhi di protagonisti del dopoguerra messi al muro del tornaconto personale; e così ignorando (cioè volendo ignorare) la torsione psicologica, la frammentazione etica, il sacrosanto tradimento che di quei fascisti ha fatto degli antifascisti: dei “veri” antifascisti. (Appunto una mancata analisi del provvido tradimento, proprio o del proprio padre, era la lacuna che dimidiava libri senz’altro coraggiosi – ma non fino in fondo – come Accanto alla tigre di Lorenzo Pavolini o L’eco di uno sparo di Massimo Zamboni.)
Nella bibliografia “vera” di Orecchio occhieggiano titoli – per lo più di memorie redatte, da questi personaggi, a chiarezza di sé – una volta assai noti, e oggi per lo più impolverati dall’oblio, che si possono leggere come guide alla lettura del suo libro. Per esempio Una vita, tante vite di Fausto Coen (di «Paese Sera» a lungo direttore), che dice bene del “coro” di biografie che quella di Migliorisi annoda e risolve; oppure Archivio rosso di Luca Canali, che dice della tonalità insieme accesa e a lungo meditata di tante di queste “seconde vite”; Il colpevole di Felice Chilanti, che enuncia apertis verbis il mood dominante nella “seconda vita” del collega, e vero alter ego, che fu per lui A.O.; Esame di coscienza di un comunista di Fabrizio Onofri, che di quella colpa è lo strumento e insieme l’esito (memore di quello di un letterato del Renato Serra all’altro capo del secolo, ma anche degli esercizi spirituali persecutoriamente parodiati dal P.C.I. postbellico). E poi soprattutto due: Il lungo viaggio attraverso il fascismo di Ruggero Zangrandi, prototipo di questa galassia bibliografica che terremotò le coscienze dei primi anni Sessanta, e La vita indivisibile di Franco Calamandrei.
Davvero lungo, tanto nel tempo di elaborazione che nella necessaria estensione finale, è stato il viaggio di Davide Orecchio: nella vita di Alfredo attraverso il fascismo (prima e soprattutto dopo averlo «ucciso»: il viaggio non è «solo attraverso il fascismo ma molto più in là»). A.O. figlio, ci viene raccontato all’inizio, di un ferroviere. Lo era stato pure Elio Vittorini, come lui siciliano destinato a dolorosi quanto rivelatorî ritorni nell’isola: nonché lo scrittore che forse meglio di tutti, nell’Age of the Extremes, ha impersonato le sue stesse contraddizioni, i suoi stessi «astratti furori». Il furore e l’astrazione di biografie come quella di A.O. stanno tutti nella pervicacia di ricondurre a una volontaristica indivisibilità vite una volta per tutte divise invece, in modo sanguinoso, appunto dal fascismo. Questa la ferita mai chiusa, quella che resta sempre aperta; proprio come la storia che quel sangue analizza con infinita pazienza, e che tutti i frammenti riconnette senza mai davvero ricucire le commessure, le lacerazioni che la storia a quella vita ha inferto: «il partito ti tiene dentro ma fuori. E tu ti senti fuori ma dentro. Allora sei un comunista spezzato. Un marito spezzato. Un padre spezzato. Sei nel mezzo di un secolo che si spacca come una mela, rossa di qua e nera di là, e ti laceri come un’albicocca». La divisione è politica, si capisce, ma anche esistenziale per non dire spirituale. Chi «nasce due volte», come nell’Ecce homo di Nietzsche, è colui che si trasvaluta, si trasfigura, «diventa ciò che è». Ossia s’incarna: «la seconda volta che nasce, Pietro Migliorisi s’incarna, è un bambino nella propria carne».
A ben vedere è proprio questa diacronia a dividere, dagli uomini spezzati del Novecento, noi uomini di dopo. Noi tutti d’un pezzo, noi che tutto abbiamo studiato e, ciò malgrado o forse proprio per questo, nulla siamo più in grado di cambiare. Sia che li vogliamo dimenticare e abbandonare alle nostre spalle, come ha scelto di fare la più parte di noi, sia che viceversa ci sforziamo di interrogarli, di indagare le loro ragioni e sragioni e siamo insomma da loro non meno che ossessionati, a differenza loro noi in effetti non siamo, non possiamo dirci «diacronici». Noi da loro ipnotizzati, da loro medusati, da loro intossicati, noi restiamo prigionieri di un eterno presente e del suo mal d’archivio («servi delle memorie archiviate»); siamo immersi nella «criosfera», nella Caina d’un tradimento sofferto ma mai davvero consumato (ed è in questa metafora, forse, che va cercata la chiave del libro precedente di Orecchio, Nel regno dei fossili, che ho creduto irrisolto ma, forse, non ho davvero capito): «noi che studiamo i bambini diacronici non sappiamo viaggiare davvero, davanti alla vastità della steppa ci manca il coraggio, temiamo la siccità, la calamità e di smarrirci in una tempesta di sabbia e morire, invece i bambini diacronici sanno sfidare il deserto del tempo».
Come è spezzato il «compagno» Migliorisi, divisa è la storia del Paese (la città “aperta”, in effetti, risponde piuttosto al paradigma di quella che Nicole Loreaux ha chiamato La città divisa): che, allo stesso modo, nessuna “riconciliazione” artificiale basata su mani d’oblio, gentrificante o istituzionale, potrà mai riconciliare davvero. Per questo definisce Migliorisi, D.O., un «bambino diacronico»: perché si vede dalla sua biografia, in corpore vili, come il passare del tempo, e le offese del tempo, radicalmente possano cambiare chi nel tempo è irriducibilmente conficcato: per esempio «uccidendo il nero e mettendo al mondo il rosso». «Diacronico» è insomma l’uomo storico, che dagli agenti tossici della storia è tanto affetto quanto il decorso della storia la sua esistenza è volta a modificare: per esempio raccontandola (a un certo punto si evoca, a proposito di Migliorisi, il principio di indeterminazione di Heisenberg: tanto valido in storiografia – come dovrebbe essere ormai acquisito – quanto lo è nella fisica quantistica). Lo sa bene D.O. che nel capitolo forse più perturbante del libro, l’XI, à la Ph. K. Dick (o à la Ágota Kristóf) ci consegna una terza versione dei fatti (dopo quella edulcorata restituitagli in vita dal padre, e dopo quella da lui ri-visitata a posteriori) ipotizzando un Migliorisi ben peggiore di quello raccontato nel resto del libro, «uomo patologico» e mistificatore impenitente: «Pietro il nero» insomma, che l’uccisione del fascista dentro di sé l’avrebbe solo simulata, opportunisticamente, per il suo «conveniente presente». È solo una «possibilità», sostiene il Dizionario biografico del Se: un Migliorisi ipotetico, virtuale, un Migliorisi what if.
Ma qual è questo «se»? Quale il vero turning point che del sé «nero» ha fatto un sé «rosso»? Ci sono i traumi di guerra, certo (è in Etiopia che spezza la fede fascista di Migliorisi una scena sconvolgente, «un alfiere della milizia che canta Faccetta nera» e col calcio del fucile spacca la testa a una «vecchia matriarca […] immobile in mezzo alle nostre fiamme imperiali»: «vi prego fatemi uscire dal tempo», suona allora – ma solo nell’indiretto libero del figlio – «il lamento di Pietro»; è in Grecia, nel gelo sul monte Tomori, che si percepisce, definitivamente ormai, come un «vincitore sconfitto»), ma non credo di sbagliare nell’opinare che, messo alle strette, D.O. risponderebbe diversamente. Fra le resipiscenze più torturanti di A.O. c’è quella che chiama in causa il mestiere, l’attitudine, la scelta etica abbracciata da suo figlio: la letteratura. Che era pure la vocazione di suo padre (e di sua madre), una vocazione sabotata dagli astratti furori di prima, ma anche da quelli di dopo.
L’Orecchio che a vent’anni, su una rivista nerissima, stronca il Montale degli Ossi di seppia colpevole, con la sua proverbiale negatività, di non «immedesimarsi nello spirito della nuova epopea», è lo stesso Orecchio – ma, «diacronico», in verità non lo è – che nel penultimo capitolo della Storia lascia scritto di voler essere cremato dopo la sua morte, bruciato insieme a quel libro di Montale, proprio, che lo aveva accompagnato nelle serate di paura ai tempi dei GAP e ha poi troneggiato sino all’ultimo sul suo comodino: «a Prima Porta la bara entra nel fuoco. Un giorno a gennaio. Poeticamente. La spingono il motore e i suoi cingoli sopra i binari. Un libro, una poesia, un corpo e una custodia di legno vanno nel fuoco. Un bambino diacronico entra nel fuoco. Un soldato entra nel fuoco. Un giovane padre entra nel fuoco. Un partigiano entra nel fuoco. Un poeta entra nel fuoco. Un giornalista entra nel fuoco. Un compagno entra nel fuoco. Tu entri nel fuoco e non sei fascista, non sei fascista, non sei fascista. E io non vedo che il rosso».
Così suo figlio conclude la storia di Pietro Migliorisi, e insieme quella di A.O. Ma ben più interrogativa che percussivamente anaforica, in precedenza, era stata la sua diagnosi di quell’atto mancato (o sin troppo compiuto) del ventenne nero: «se un’opera è senza gloria, senza orizzonti, disperata, lui stronca con l’odio di un povero, perché l’arte riuscita è ricca ed è d’oro, perché lui viene dal nulla e non è nulla ma per miracolo vede bellezza, e per questo la odia e chiede: qualcuno può aiutarmi ad amarla?, c’è un altro mondo dove non s’imbrattano capolavori?». A queste domande non sa darsi risposta, il Migliorisi ventenne diacronico; e forse non poteva rispondere neppure l’A.O. che nel dopoguerra (dopo il relativo successo del Sospetto, un libro pubblicato da Feltrinelli nel ’56) si vedrà rifiutati tutta una serie di testi volontaristicamente «rossi» che non sapevano piegarsi, in sé stesso, sulle spoglie del «nero» messo a morte.
A rispondergli invece – troppo tardi per farlo in vita, ma non troppo tardi in assoluto: se non è troppo tardi per sé – è chi, con talento pari alla risolutezza, ha saputo finalmente aprirla, questa storia. Un poeta aereo come Rilke poteva associare l’oro all’invisibile: la sostanza sottile che splende nella poesia. Più terrestre, Montale poteva insegnare all’uomo diviso A.O. che unica verità perseguibile è quella che ci dice «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Ancora più vicino a noi, Davide Orecchio ha capito che è solo frugando nelle sue ceneri – la cenere non così lieve del vissuto – che a chi in quel fuoco s’è consumato si potrà restituire, in morte, l’oro che tanto aveva desiderato in vita. E davvero seicento e passa pagine di questa densità non sono, di quest’oro, una pagliuzza così lieve.
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Davide Orecchio, Storia aperta, Bompiani, 2021, pp. 665, € 22
Recensione ripresa dal sito http://www.leparoleelecose.it/?p=42650
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