L’intenzionalità dello sguardo
Sara CostanzoIl primo gesto educativo non consiste tanto nel dire o fare qualcosa, bensì nel guardare e nell’ascoltare. «Lo sguardo presuppone che si aprano intenzionalmente gli occhi per vedere – scrive Sara Costanzo – E per farlo è necessario “trovarsi in presenza” dell’altro, assaporarne i contorni, le diversità, le sfumature…». In realtà occorre prima di tutto imparare a liberarci dal desiderio di tenere sotto controllo le persone e le cose e rinunciare a una visione totalizzante e chiarificatrice scandita da tempistiche veloci e serrate. Appunti tra pedagogia e fenomenologia
Il compito pedagogico desidera essenzialmente assicurare alla persona le condizioni del suo fiorire, e mira a creare il terreno culturale e umano più adeguato affinché queste proprietà fondamentali e costitutive della persona si sviluppino pienamente.
Lo sguardo fenomenologico osserva l’essere umano come soggettività psichica e individualità che si realizza nella libertà, nell’autonomia e nella responsabilità, ed è in grado di cogliere quegli aspetti non quantificabili che pure hanno un senso fondamentale nell’esperienza educativa (Husserl, Merleau-Ponty). Il compito della fenomenologia in campo pedagogico, pertanto, è quello di stabilire come la persona diventi tale, più che ricercare che cosa sia una persona.
Come scriveva Edith Stein, “la pedagogia deve re-imparare a cogliere le cose stesse abbandonandosi ad esse”. Il primo gesto educativo non consiste quindi tanto nel dire o fare qualcosa, bensì nel guardare e nell’ascoltare l’esperienza. È costitutivo del nucleo teorico della fenomenologia questo atteggiamento del “lasciar vedere” e del “lasciar emergere” il fenomeno, anziché ricondurlo a qualcosa d’altro. La fenomenologia intesa come attitudine educativa allena dunque la sensibilità della persona a significare e ri-significare la propria esperienza. Osservare è il primo grande atto educativo. Lo sguardo presuppone che si aprano intenzionalmente gli occhi per vedere. E per farlo è necessario “trovarsi in presenza” dell’altro, assaporarne i contorni, le diversità, le sfumature.
«Osservare – scrive Pierre Durrande – non è un atto di voyeurismo. Si entra in punta di piedi alla porta dell’Altro, occorre bussare alla sua porta. E se il nostro è uno sguardo appassionato, è probabile che l’Altro apra la porta e si lasci incontrare».
Oggi siamo molto condizionati dal desiderio di tenere sotto controllo le persone e le cose, al punto di vedere di fatto nell’altro solo le immagini che captiamo o proiettiamo. Certo è molto arduo esercitare un lavoro “di sgombero” che permetta all’altro di esistere, mostrandosi nella propria coloritura personale. Tuttavia è dentro questo esercizio di consapevolezza che si gioca la qualità del legame educativo. Uno sguardo libero sull’altro è uno sguardo vero. Non sarà spontaneamente uno sguardo “nuovo”, nel senso che si porterà con se le rappresentazioni che noi ci facciamo dell’altro, ma su questo è possibile lavorare e crescere, accettando di volta in volta il rischio di abitare la relazione.
In questo approccio educativo il campo della relazione è fondamentale. Non c’è un dispositivo esterno da sovrapporre alla realtà della persona, ma ciascuna persona, proprio grazie alla relazione, è in grado di sviluppare un suo “dispositivo” interno e autonomo attraverso il quale può orientarsi e camminare nel mondo. Come scriveva la Stein, ”il dovere ultimo dell’attività educativa (ed anche il limite oltre il quale non può spingersi) è proprio quello di condurre il soggetto all’autoeducazione e all’autoformazione“. Nel lavoro educativo ogni persona infatti è un intero in costruzione che esige di essere riconosciuto e accolto nella sua fisionomia essenziale. L’intenzionalità pedagogica consiste proprio nello sviluppare un approccio educativo idoneo a rendere conto di questa unicità.
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Ciascuno di noi è certamente il risultato dei condizionamenti interni ed esterni che ci hanno coinvolto e che tutt’oggi ci formano, ma accanto ad essi gioca un ruolo fondamentale la nostra capacità di autodeterminarci liberamente. Nella prospettiva fenomenologica l’educatore va oltre la cura per cedere il passo alla responsabilità autoformativa dell’Altro. L’educatore è colui che aiuta l’Altro – in questo viaggio, a diventare protagonista della propria avventura esistenziale e formativa.
Nella scuola per esempio uno sguardo fenomenologico è contrario al modello frontale di educazione, dove il docente “trasferisce” nella mente del discente il suo sapere superiore secondo un ordine “a senso unico“, culturalmente e socialmente basato sul vassallaggio. Adottare uno sguardo fenomenologico in educazione significa osservare la classe come una comunità di persone che sia in grado di diventare nel tempo responsabile della propria autoformazione. Lavorare come insegnante quindi, per uscire dal ruolo del docente-capo di una struttura classe univocamente dipendente, è un ‘obiettivo pedagogico che diventa anche un ottimo antidoto contro l’omologazione crescente. Certo occorre tempo, dedizione, cura, fatica.
«C’è sempre un “di più” da conoscere, c’è sempre da amare di più, perché l’attesa della speranza non ha limiti (Pierre Durrande, “L’arte di educare alla vita”)».
Assumersi l’incarico di educare in una prospettiva fenomenologica è aiutare l’altro ad assaporare la propria intenzionalità esistenziale, orientarlo nella scoperta di sé all’interno di un costante dialogo intersoggettivo con le “cose del mondo”. Perché questo accada, occorre uno sguardo sull’altro che sia capace di ospitare i simboli, le immagini, i sogni, inclusi i dubbi, le contraddizioni, i dilemmi e i conflitti che lo attraversano. Occorre rinunciare a una visione totalizzante e chiarificatrice scandita da tempistiche veloci e serrate, in favore di una messa a fuoco più graduale, di uno sguardo più diffuso, partecipativo – a tratti direi quasi onirico – sulla nostra quotidiana esperienza di alterità.
«Forse vale la pena – suggerisce Paolo Mottana in “Miti d’oggi nell’educazione e opportune contromisure” – commisurare i nostri passi al mistero di ciò che ci circonda, affinare la nostra sensibilità, migliorare lo stile dell’accoglienza e della riconoscenza, ricostruire una graduale devozione verso l’apparire delle cose».
Sara Costanzo, pedagogista, cura da diversi anni la rassegna “Fare Anima in Educazione” che si svolge nella città di Pisa in settembre e che ha come riferimento il pensiero dello psicoanalista e filosofo statunitense James Hillman.
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