E’ uscito da poco per Treccani libri Lo stile dell’abuso. Violenza domestica e linguaggio, di Raffaella Scarpa. Proponiamo un estratto ripreso dal sito http://www.leparoleelecose.it/?p=42584
LO STILE DELL'ABUSO
di Raffaella Scarpa
La matrice della forza e insieme della vulnerabilità umana sta in quella postura che viene compendiata da Simone Weil in un passaggio di La personne et le sacré: «qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano […] si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male». Per questa ragione l’ingiustizia che risiede in ogni forma di male subìto corrisponde, più che al dolore in sé, al tradimento di questa aspettativa. Lo sconcerto radicale che sta nella domanda “Perché mi si fa del male?” diventa poi ancora più irriducibile nell’esperienza di un male patito in assenza di qualsiasi ragione plausibile. In questo caso l’interrogarsi sui motivi, alla ricerca di quel parziale lenimento che potrebbe essere offerto dalla comprensione, diventa un rovello pervasivo che supera l’istinto del liberarsi.
Esiste una particolare forma di male subìto che fa dell’assenza di ragione il suo principio costituente, convertendosi poi, in progressione peggiorativa, nel paradosso del voler distruggere dicendo di amare, e questo è l’abuso domestico. L’atrocità che sta nell’impossibile sintesi di amore e annientamento è ulteriormente incrudelita dalla natura degli obiettivi: alienare la donna da ciò che può essere e da ciò che può fare. Infatti, il fine ultimo dell’abuso domestico sta in una forma specializzata di annichilimento che passa per quella che Gilles Deleuze considera la forma suprema del potere, ovvero dividere il soggetto da ciò che può. Per questo ricondurre unicamente alla sfera delle condotte violente – maltrattamento, aggressione, lesione fisica non letale e letale – la volontà maschile di demolizione dell’identità e delle possibilità di azione della donna esercitata attraverso una precisa strategia di assoggettamento significa ridurre straordinariamente la natura del fenomeno, travisandone i presupposti e trascurando un elemento centrale: la funzione del linguaggio nella relazione maltrattante.
Lo scopo di questo libro – che procede dal generale al particolare – è multiplo; esso intende ridefinire l’abuso domestico in rapporto alle nozioni di potere, violenza e linguaggio proponendone una nuova concettualizzazione; evidenziare il ruolo svolto dalla lingua nella relazione d’abuso decrittando le forme linguistiche che mediano l’assoggettamento; descrivere gli stati mentali prodotti da quelle particolari forme linguistiche e identificare, a partire dalla lingua, le ragioni profonde della violenza domestica.
Ciò che emerge in tutta evidenza alla luce dell’analisi è che il regime discorsivo dell’abusante corrisponde a un sistema linguistico fondato nella menzogna, che induce l’assoggettamento attraverso una serie di peculiari comportamenti verbali, costringendo l’abusata in una situazione che si più rappresentare attraverso un incastro di circostanze: quella vissuta da Katja, la protagonista del romanzo di Izrail’ Metter Il quinto angolo, che in una cella della Lubjanka veniva costretta dai suoi persecutori a trovare – sino alla morte – il quinto angolo di una stanza quadrangolare e la condizione di dispercezione, insieme all’alterazione delle capacità di giudizio, testimoniata da molti sopravvissuti all’assedio di Leningrado e di Sarajevo. Se, a ragion veduta, possiamo intendere la violenza domestica come una forma specializzata di tortura innestata in una sorta di stato d’assedio, ciò su cui è stato necessario puntare l’attenzione va identificato nel nesso che sussiste tra il movente dell’abusante e la sua espressione verbale. Questo legame tra mondo interno del soggetto e forma linguistica emerge in quella particolare configurazione della lingua alla quale diamo il nome di “stile”, il luogo in cui si manifesta l’istanza profonda del soggetto anche al di là delle stesse intenzioni del parlante o dello scrivente, poiché «lo stile è l’uomo stesso», come argomentato nel Discours sur le style di M. de Buffon […].
Proprio per mettere il linguaggio al centro delle questioni relative ai sistemi di potere, Franco Fortini asseverava che un uomo libero si riconosce da come chiede un bicchiere d’acqua a un cameriere, ponendo in piena luce almeno tre assunti imprescindibili: la funzione-detector dell’analisi linguistica o, in termini più generali, la rilevanza della sensibilità al linguaggio come strumento veritativo (se sono sensibile al linguaggio, se colgo e so interpretare quello che nell’uso della lingua non è programmabile, intenzionale, completamente controllabile come alcuni passaggi di registro, piccole oscillazioni e ambiguità semantiche, stereotipie, silenzi e pause, toni, timbri sono in possesso, né più né meno, di una macchina della verità: proprio attraverso quegli scarti minimi, posso comprendere la natura e i propositi di chi ho davanti possedendo una chiave di accesso privilegiata alla esplicitazione del mondo e uno straordinario strumento di interpretazione, critica e difesa); l’importanza capitale della lingua nell’esercizio del dominio, dalle sue forme assolute e rivelate sino a quello latente e connaturato nelle più comuni pratiche quotidiane (è con la lingua, innanzitutto, che sottometto, coarto, saboto, influenzo, plagio ed è sempre con la lingua che notifico ed evidenzio la mia posizione – sovrastante, soccombente, allineata – rispetto a quella del mio interlocutore ); il linguaggio come spazio soggettivo di militanza per l’esercizio della libertà e per il sabotaggio della convenzione linguistica generata dalla propensione all’assoggettamento come forma di relazione (reversibilmente rispetto al punto precedente: se ho una possibilità di attivismo, di emancipazione e libertà, come diceva Fortini, questo avviene in primo luogo nella lingua e attraverso essa poiché è il luogo dove le istanze più profonde del soggetto emergono ma, anche, quello grazie al quale possono essere convertite) […].
L’esistenza di una grammatica dell’abuso significa che una serie di comportamenti linguistici (lessicali, morfologici, sintattici, testuali, retorici e così via) ritornano con costanza significativa nei testi degli abusanti costituendo un sistema coerente e stabile; questo dimostra che l’espressione linguistica degli uomini maltrattanti nei contesti di potere domestico osserva un’organizzazione interna fissa, trasversalmente verificabile. La tipicità meccanica del regime discorsivo dell’abusante è peraltro una condizione che le donne maltrattate percepiscono con chiarezza, o senza darsene una chiara ragione, ma sentendo tutta la pericolosità di quel particolare uso della lingua che, soltanto apparentemente innocuo, reca in sé la capacità di distruggerle, oppure – più raramente – portando quanto detto a piena coscienza, mettendo in luce un dato di importanza capitale: conoscere la grammatica dell’abusante significa diventarne immuni […].
Capire il nesso tra il mondo interno dell’abusante e sua espressione linguistica equivale a dissigillare il fenomeno dell’abuso domestico decrittando quel fondo inconoscibile di cui si è detto più volte, che sfugge ai quadri descrittivi e alla stessa comprensione di chi attraversa tali esperienze; inoltre, conseguentemente, permette di descrivere quei particolari stati mentali indotti nell’abusata dal regime discorsivo dell’abusante, illustrandone le ragioni. Di tanti metodi di indagine linguistica il solo in grado di centralizzare come obiettivo supremo l’interpretazione del legame tra il mondo interno del soggetto alla sua lingua è quello che pertiene alla più indisciplinata delle discipline, alla stilistica […]. In un’epoca di linguistiche “con il camice bianco”, la stilistica non ha esattamente metodi scientifici ma potenti principi, e la sua libertà, da cui deriva capacità di adattamento, adesione, sintonizzazione e auscultazione del testo (proprio nel senso medico di “ascolto delle parti interne”), ha permesso l’indagine su materiali così refrattari all’interpretazione […].
Anche non essendo pienamente rappresentata in teorie pregresse, la “stilistica del soggetto” che è alla base dell’analisi che propongo sta tutta in questo passo del filologo Victor Klemperer: «Si torna sempre a citare la frase di Talleyrand secondo cui la lingua servirebbe a occultare i pensieri del diplomatico (o più in generale dell’uomo astuto o ambiguo). Ma qui è vero esattamente il contrario. Ciò che qualcuno vuole occultare, o agli altri, o a se stesso, perfino ciò che racchiude entro di sé inconsciamente, la lingua lo porta alla luce. È in fondo il significato della frase Le style c’est l’homme; le asserzioni di una persona possono essere menzognere, ma nello stile del suo linguaggio la sua vera natura si rivela apertamente».
Lo “stile dell’abuso” quindi può essere descritto come un sistema linguistico a più direttrici che operano di concerto, in sinergia. Alle descrizione di ciascuna delle direttrici stilistiche ho assegnato dei titoli che richiamino l’istanza specifica, o motivazione profonda, che sta alla base di quel particolare sotto-sistema stilistico e che motiverò nel corso della trattazione. I titoli-istanza sono i seguenti: 1) Costruzione del soggetto: “Tu sei così”; 2) Decostruzione del soggetto: “Tu non sei”; 3) Creazione di realtà: “È stato così”, “Sarà così” “È così”; 4) Interdizione del soggetto: “Te lo dimostro”; 5) Accerchiamento: “Sono lì”; 6) Autorappresentazione: “Non sono io”.
[…] le dinamiche che muovono l’abuso domestico obbediscono a una legge incognita, contraddittoria, straniante e l’impossibilità di comprenderla induce gli stessi protagonisti a interpretare il proprio vissuto mediante una logica correttiva (abusata) e compensatoria (abusante), producendo una narrazione falsificata e bloccata nelle sue incongruenze. Inoltre, il sistema incoerente dell’abuso può essere spiegato soltanto parzialmente attraverso l’apparato concettuale offerto dalle teorie della violenza e del potere – il “dominio maschile”, in particolare – poiché risponde a una forma specializzata di potere, il “potere domestico”, un dispositivo di assoggettamento che si realizza in buona misura per via linguistica, sino ad arrivare a identificarsi con quella particolare configurazione del discorso che ho chiamato “lo stile dell’abuso”. È proprio nel rapporto tra usi stilistici ed esiti prodotti che è possibile misurare la rilevanza del linguaggio come mezzo di asservimento e annichilimento, infatti lo “stile dell’abuso” è un sistema linguistico assoggettante che produce nell’abusata una costellazione di stati mentali equiparabili a quelli prodotti dalla tortura e dallo stato d’assedio e che possiamo così schematizzare: 1) destabilizzazione e annichilimento dell’identità; 2) sabotaggio della capacità di giudizio; 3) dispercezione dei realia; 4) ostruzione dell’azione sino all’immobilità; 5) riduzione al silenzio.
Emerge, a questo punto, un dato determinante, ovvero che l’obiettivo ultimo del potere domestico non corrisponde alle istanze generalmente attribuite alla relazione d’abuso (sottomissione, controllo, prevaricazione e così via), ma a quella che le comprende tutte, le travalica e le trascende. Infatti, considerando l’effetto congiunto degli stati mentali che abbiamo sintetizzato, appare evidente come l’azione del potere domestico miri sempre, anche laddove non intervengano aggressione e lesione, al dare la morte: un soggetto annientato nell’identità, privato della capacità di giudizio su sé stesso e sul mondo, incapace di interpretare i dati realtà, bloccato nell’azione, indotto all’immobilità e ridotto al silenzio non è più in vita, o è come se non lo fosse […]. Dunque, come la lesione fisica che nella violenza domestica può arrivare ad essere letale uccidendo, così il potere domestico, attraverso l’azione combinata delle direttrici stilistiche proprie del discorso d’abuso, conduce al suo omologo ontologico-esistenziale, il non essere in vita.
Il dare la morte, che abbiamo riconosciuto come l’obiettivo reale della relazione d’abuso, non va però considerato il fine, ma il mezzo per esercitare la più estrema tra le azioni di potere, il sopravvivere all’altro, poiché «la situazione del sopravvivere è la situazione centrale del potere» (Canetti). Ciò che l’abusante sembra mettere in atto è infatti una prova di sopravvivenza per via contrastiva, un permanere in vita contro la vita dell’abusata, in funzione della sua soppressione biologica oppure ontologico-esistenziale. L’effetto di quello che potremmo definire un rituale di morte è una sorta di vitalizzazione reattiva che l’abusante si procura grazie alla soppressione dell’abusata, perché non ci sente mai tanto vivi come al cospetto della morte dell’altro.
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