L’uomo è δεινός (tremendo)
Ho
visto riportata su un quotidiano on line una recente breve intervista
a Claudio Magris: la prima domanda riguardava la natura umana, cos’è
l’uomo? E la risposta dello scrittore triestino è stata che una
buona definizione sia quella riportata nel secondo stasimo (coro)
dell’Antigone di
Sofocle. Questo coro – si ricordi che il ruolo del coro nella
tragedia greca antica è fondamentale – entra in scena subito dopo
che una guardia ha riferito a Creonte, reggente della città di
Tebe dalle
sette porte,
che qualcuno ha dato sepoltura al corpo di Polinice. Ricordo che
Antigone, Ismene, Eteocle e Polinice erano tutti figli dello
sfortunato Edipo, che aveva, beninteso non sospettandolo, ucciso il
padre Laio e sposato la madre Giocasta (sorella di Creonte) dalla
quale aveva appunto incestuosamente avuto i quattro suddetti figli.
Eteocle si considerava il capo di Tebe, ma il fratello Polinice lo
affronta in duello per contendergli il potere. Nel duello entrambi
muoiono, ma Creonte, che funge da reggente, ordina di dare tutta la
dovuta e onorata sepoltura al corpo di Eteocle e di lasciare invece
senza alcun rito funebre quello di Polinice, somma ingiuria e
nefandezza per la religiosità greca dell’epoca. (Detto per inciso,
ricordate che, quando all’inizio di ottobre del 1993 Borìs Él’cin,
strappato il potere a Michail Gorbačëv con un colpo di mano, fece
cannoneggiare il parlamento sovietico, che cercava una mediazione, e
ordinò di non seppellire i corpi dei nemici uccisi?) Antigone non
può tollerare questo trattamento a suo fratello, perché ella
antepone la legge eterna degli dèi a quella degli umani – e qui
sta tutta la grande forza della tragedia – e quindi si appresta, e
riesce, a rimediare allo scempio e a compiere almeno i riti più
indispensabili secondo la tradizione sul corpo di Polinice,
affrontando così il suo destino di morte (che incontrerà infine
assieme al figlio di Creonte).
Dopo dunque l’annuncio della
guardia, che peraltro ancora non sa chi abbia compiuto il rito, il
coro, composto da vecchi tebani, si interroga sulla natura dell’uomo
e le prime parole che pronuncia sono, nella traduzione di Massimo
Cacciari, queste: “Molte potenze sono tremende ma nessuna lo è più
dell’uomo”; vi trascrivo anche l’originale, data la rilevanza
del passo:
πολλὰ τὰ δεινὰ κοὐδὲν ἀνθρώπου δεινότερον πέλει·
la
parola su cui va fatta qualche chiarezza è quell’aggettivo
greco deinòs,
che Cacciari traduce tremendo (mi
avvalgo nello scrivere tutto questo di una molto istruttiva
chiacchierata con il nostro indiano grecista Daniele, che per queste
cose è una sicurezza e che molto ringrazio).
Tutta la questione è
la connotazione di quell’aggettivo che non è univoca: l’aggettivo
tremendo, usato da Cacciari, può essere usato anche in italiano sia
negativamente che positivamente, pensate alla frase “Quel quadro è
tremendamente bello”, forse perché nell’etimologia di tremendo
ci sta l’idea di tremare e si può tremare di orrore ma anche di
grande gioia. Forse è una buona traduzione di deinòs.
Tra le numerose traduzioni esistenti vi propongo qui dunque per
l’intero coro quella di Massimo Cacciari (Einaudi 2007), che suona
così:
Strofa 1:
«Molte potenze sono tremende ma nessuna lo è più dell’uomo. È lui che oltre il mare canuto procede nella tempesta invernale attraverso i flutti che gli si frangono intorno. È lui che anche la dea suprema tra tutti gli dèi, Gaia, inconsumabile, instancabile, rivoltando violenta anno per anno con gli aratri tirati dalla stirpe equina.
Antistrofe 1:
È lui che cattura con attorte reti gli uccelli dalla mente alata e le fiere selvagge e gli animali del mare. È lui, l’uomo, capace di pensiero, che ha il potere sulle bestie dei campi e su quelle che vagano sui monti; è lui che aggioga il cavallo crinito e l’infaticabile toro.
Strofa 2:
È lui che la parola e il pensiero simile al vento ha imparato e l’impulso che porta alla legge e a fuggire gli strali tremendi dell’inabitabile gelo sotto l’etere aperto. Ovunque s’apre la strada, in nulla s’arresta. Cosí affronta il futuro. Da Ade solo non ha escogitato scampo, per quanti rimedi abbia inventato a inguaribili mali.
Antistrofe 2:
Oltre ogni speranza e ogni attesa, conosce, fabbrica, inventa, a volte volgendosi al male, altre al bene. Allorché s’accorda alle leggi della sua terra e alla giustizia giurata degli dèi siede in alto nella città; ma se si macchia di azioni malvagie e sfrontata audacia, della città neppure fa parte. Mai gli sarò commensale, mai avrò animo uguale con chi così agisce.
Ma ecco qualcosa di inaudito, che mi turba. Come dubitare che la giovane che vedo sia Antigone? O sventurata figlia di Edipo, che accade? Non sei tu che trascinano, dopo averti catturata mentre, pazza, disobbedivi ai decreti reali? »
Per curiosità, su un vecchio sito del liceo Galvani di Bologna ho poi trovato un interessante breve elenco di piuttosto diverse traduzioni di quei primi due versi che contengono l’aggettivo deinòs e il suo comparativo deinόteron, elenco che vi copio qui, con tra parentesi il traduttore, o la traduttrice:
“Molte sono le meraviglie ma nulla è più portentoso dell’uomo.(C.Sbarbaro)
“Molte ha la vita forze tremende; eppure più dell’uomo nulla, vedi, è tremendo.” (G. Lombardo Radice)
“L’esistere dell’uomo è uno stupore infinito, ma nulla è più dell’uomo stupendo.” – (E. Cetrangolo)
“Pullula mistero. E nulla più misterioso d’uomo vive.” (E. Savino)
“Molti sono i prodigi e nulla è più prodigioso dell’uomo.” (F. Ferrari)
“Molte sono le cose mirabili, ma nessuna è più mirabile dell’uomo.” (R. Cantarella),
in
molte delle quali, come vedete, si perde la voluta ambiguità della
connotazione.
Aggiungo che la citata traduzione di Giuseppina
Lombardo-Radice si trova nella bellissima, ma ormai credo dismessa,
collana Einaudi STS (scrittori tradotti da scrittori) nella quale il
traduttore principale è Friedrich Hölderlin, che usa nella sua
versione l’aggettivo tedesco ungeheuer,
che, a quanto ho potuto vedere in vari vocabolari, mantiene
l’ambiguità di tremendo.
Da questa lettura mi pare di intendere quello che Magris intendeva: l’uomo è qualcosa che va al di là del “normale” nella natura, è qualcuno in grado di intervenire pesantemente su molti dei suoi elementi, nel bene e nel male, appunto. E infine tutto questo giro di pensieri mi ha richiamato alla mente una recente lettura che considero molto interessante e istruttiva, e cioè La nazione delle piante di Stefano Mancuso (Laterza, 2019), nella quale il ruolo di homo sapiens nella natura esterna a lui viene ben analizzato e assai ridimensionato rispetto all’idea comune che è l’uomo il padrone della natura, del pianeta Terra e comunque di tutto quanto conosciamo. L’uomo, chiamando appunto “sapiens” la sua specie del genere homo, non ha fatto che rimarcare la propria presunzione.
Articolo ripreso da: https://www.nazioneindiana.com/2021/10/10/luomo-è tremendo
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