Massimo Rostagno, DRAGHI: PRESENTE O FUTURO?
La figura di Draghi è come un catalizzatore che accelera reazioni chimiche, altrimenti molto più lente. Queste righe non sono un elogio di Mario Draghi. Sarebbe inutile. L’uomo è l’italiano più conosciuto e riconosciuto al mondo, ha ridato prestigio internazionale al nostro paese, sta affrontando con successo la catastrofe pandemica e rappresenta la garanzia internazionale per l’assegnazione degli ingenti fondi europei. Di fronte ad una tale evidenza dei fatti, non vi è alcun bisogno di aggiungere commenti, perché la realtà si commenta da sé. Piuttosto il vero problema è un altro: l’esperienza del governo Draghi è destinata ad esaurirsi con lui o può essere il seme di una proposta compiutamente politica che ancora non c’è? Se osserviamo i primi mesi del suo governo, l’impatto sul quadro politico appare notevole. I partiti protagonisti della stagione populista e i loro alleati appaiono scompaginati. I penta stellati, che nascono come barbarica forza antiestablishment fanno a gara per allinearsi nel modo più diligente possibile alle decisioni del premier; il partito democratico, in perenne confusione mentale, dopo aver scommesso sull’alleanza strategica con il populismo grillino, si misura con la sua dissoluzione e forse comincia a porsi qualche dubbio. Ma è soprattutto nella Lega che le contraddizioni esplodono producendo uno scenario impensabile fino a qualche settimana fa: il leader finora indiscusso rischia di perdere non soltanto consensi, ma addirittura il proprio partito, osteggiato dalla propria ala “governista”, ormai insofferente alla perenne demagogia del capo. La figura di Draghi, il suo stile politico, la sua tecnica di governo stanno mettendo la maggioranza dei partiti che lo sostengono di fronte alla pochezza delle proprie proposte e del proprio personale politico. È come un catalizzatore che accelera reazioni chimiche, altrimenti molto più lente. L’Italia e l’elettorato italiano sono stati da anni sottoposti alla cura intensiva di messaggi demagogici, mirati ad intercettare i peggiori umori della gente, in una ricerca spesso indecente, del consenso immediato. La cultura del populismo trionfante ha prodotto tonnellate di chiacchiere, dichiarazioni, pose più o meno gladiatorie, con dentro il nulla. La sua egemonia nel dibattito pubblico, con la complicità di gran parte del sistema dell’informazione e dei media, l’ha resa maggioritaria nel paese. Persino un partito come il Partito democratico, nato su presupposti diametralmente opposti e su una base solidamente riformista, di fronte alla potenza dell’ondata demagogica, non ha trovato di meglio che tradire sé stesso per diventarne alleato. Le tragiche elezioni del 2018 hanno consacrato politicamente la forza d’urto populista producendo i due peggiori governi della storia repubblicana: il Conte I e il Conte II. Dopo aver proclamato per legge la fine della povertà, e dichiarato guerra a migliaia di disgraziati che sbarcavano sulle coste meridionali, all’insorgere di un problema vero e drammatico come la pandemia, l’inettitudine di quei governi e di quel ceto politico è venuta al pettine. Colpo di palazzo o meno (nel caso, benvenuto), è stato necessario ricorrere proprio a Mario Draghi per prendere in mano un paese che la sua classe dirigente aveva portato allo sbando. Questo è il contesto in cui è atterrato l’ex presidente della BCE. Che sia o no il salvatore della patria, l’uomo della provvidenza non interessa. Sarebbe un dibattito sterile. Non è sterile invece ricordare come il suo arrivo abbia rappresentato la certificazione del fallimento di un’intera stagione politica e come la sua prassi di governo sia esattamente l’opposto di quanto ci è stato somministrato negli ultimi anni: Persino la modalità comunicativa è stata ribaltata: “prima si fanno le cose, e poi le si comunica”, ha dichiarato poco dopo il suo insediamento, gettando nel panico l’intero sistema mediatico, abituato a costruire audience su annunci, chiacchiere, dichiarazioni tanto fragorose quanto inconcludenti. Ma oltre a tutto questo – che già è moltissimo – Draghi ha soprattutto mostrato di avere una visione chiarissima e non retorica del bene collettivo, dell’interesse generale del paese. Il premier non ha avuto esitazione a dichiarare pubblicamente che strizzare l’occhio ai no vax per lucrare il loro voto equivaleva ad invitare la gente a morire. Matteo Salvini non l’ha presa bene, ma si è adeguato. Draghi sembra peraltro consapevole che il perseguimento del bene pubblico di lungo periodo non è un pranzo di gala. Comporta scegliere tra interessi, colpire resistenze e abbattere privilegi consolidati. Significa non assecondare il sentire comune del momento. Citando Andreatta, ha affermato che occorre fare ciò che è necessario, anche prescindendo dal consenso immediato. Di fronte alla puntuale serie di decisioni precise, nette adottate dal governo i partiti sono obbligati dalle circostanze ad approvare. Non hanno molte scelte. Ma per notificare al mondo la loro esistenza in vita, si vedono costretti a mettere stancamente in scena una rappresentazione teatrale, cui affidare i residui della propria identità politica. Gli scontri quotidiani tra Letta e Salvini, cercati da entrambi proprio per questo, ne sono l’esempio più eloquente. Ormai anche l’elettore medio però è in grado di misurare l’abissale distanza tra l’azione del governo che – la si condivida o no- incide come un bisturi sulla realtà, e il teatrino dei pupi della politica, in cui ci si scambia a giorni alterni il ruolo di Angelica, di Orlando e di Agramante. E qui giungiamo al nocciolo della questione. Se quella che sta mettendo in campo Draghi è alta scuola di governo, può generare qualcosa che diventi patrimonio duraturo della politica italiana, una volta esaurita la sua esperienza, si spera non prima del 2023? Chi sta apprezzando l’azione dell’attuale governo e del suo premier – e stando ai sondaggi sulla fiducia pare che non siano pochi – può accettare di tornare alle risse da talk show, ai selfie, alle dirette Facebook, al bipopulismo e alle demagogie contrapposte in competizione tra loro? Difficile. Sarebbe come bere vino al metanolo dopo aver assaggiato il barbaresco. Non è dato sapere, al momento, quale forma potrà prendere l’eventuale continuazione dell’esperienza del governo attuale: partito di Draghi? Scomposizione e ricomposizione del quadro politico? Assunzione piena ed esplicita dell’agenda del premier da parte di qualche soggetto politico? Si vedrà. La speranza però è che il ‘draghismo’ – inteso come insieme delle prassi messe in opera dal premier – contamini e rigeneri quel che resta della politica italiana. E che i partiti attuali prendano coscienza del fallimento di una stagione e di quanto tossici siano stati i suoi frutti. Sarebbe già molto.
Articolo pubblicato da Il Mondo di Pannunzio, 1 ottobre 2021
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