12 giugno 2023

E' ORA DI FINIRLA CON QUESTA GUERRA!

 








La guerra dei soldati


Annamaria Manzoni
12 Giugno 2023

La guerra in Ucraina è al centro del racconto mediatico da oltre un anno, poco o nulla è riservato alle altre 58 guerre in corso. Poco o nulla ci viene raccontato dell’esperienza terrificante del contatto diretto, come se quella in Ucraina fosse soltanto una guerra di razzi e non uno scontro tra giovani vite. Poco nulla ci viene detto sui tanti soldati ucraini e russi ai quali sono stati già diagnosticati disturbi conseguenti al trauma. Poco o nulla ci viene spiegato su quello che accade alle bambine e ai bambini, perfino a quelli non ancora nati, la cui vita è già segnata da shock e mine. Intanto, in Italia, che non ha mai smesso di produrre armi ed è quindi ansiosa di venderle, ricompaiono proposte governative per il ripristino del servizio militare, la propaganda mistifica la volontà di un processo di pace come posizione putiniana e il linguaggio bellico domina sui media. Il rifiuto della guerra, che da circa cinquant’anni ha cominciato a farsi strada nel mondo in tanti modo diversi, non è scomparso ma deve fare i conti con tutto questo

“La storia insegna, ma non ha scolari” diceva Antonio Gramsci. Da qui il perpetuo rinnovarsi di ciò che è stato, quale che sia il carico di orrore che si porta dietro, che, se fossimo gli animali razionali che ci vantiamo di essere e che invece non siamo, dovrebbe farcene stare lontano anni luce. Niente di più vero quando si tratta di guerre, che dovremmo ben conoscere essendo un ambito di considerazioni smisurate da parte degli storici, visto che accompagnano la specie umana da sempre e visto che, ora che siamo oltre otto miliardi di individui ad avere colonizzato la terra, riusciamo a combatterne non una per volta, ma molte decine insieme, in ogni angolo, in ogni dove. Attualmente 59, secondo quanto riportato da Armed conflict location & event data project (Alced), organizzazione che si occupa di raccogliere dati per monitorare i conflitti. Di molte non conosciamo quasi nulla e a mala pena sappiamo individuare su una carta geografica i paesi in cui hanno luogo; al momento l’attenzione pubblica, magistralmente guidata da mass media tanto spesso ridotti a cassa di risonanza del potere, è veicolata quasi esclusivamente sull’Ucraina: ma basta e avanza per provare a cogliere quelli che sono i denominatori comuni di tutte le guerre. Anche se le informazioni arrivano spezzettate, incomplete, comunque parziali; anche se la verità è la prima vittima di ogni conflitto.

Per parlare di attualità della guerra, la più disumana tra tutte le attività umane, cercando di riempire i buchi della disinformazione, un grande aiuto lo offre ciò che sappiamo di quelle che hanno insanguinato il secolo scorso, e lo offre in tempi più recenti Svetlana Aleksievic, premio Nobel per la letteratura, che delle conseguenze umane di tanti conflitti si è occupata: i suoi Ragazzi di zinco (edizioni e/o) sono quelli che ritornano, chiusi nelle bare metalliche, dall’Afganistan, dove erano stati mandati a combattere tra il 1979 e il 1989 durante l’occupazione sovietica del paese: lei dice di tutto quello che si sarebbe voluto censurato, ma che le drammatiche testimonianze dei sopravvissuti e delle famiglie fanno emergere dalla volontà di oblio.

Si comincia dal primo grande imbroglio, che ha luogo negli arruolamenti: nel passato a farla da padrona era la grande retorica del richiamo patriottico, per cui, dulce et decorum est pro patria mori, sarebbe dolce e bello morire per la patria, panzana convincente quando la figura dell’eroe conservava un suo fascino, non ancora svilito nella dissacrata immagine che, secondo la demitizzata sintesi di Philippe Zimbardo, lo vede storicamente identificabile non in un invidiabile irraggiungibile superuomo, ma in un maschio adulto assassino. Non manca poi la contemporanea criminalizzazione del nemico, incarnazione del male in tutte le sue poliedriche forme; si può andare oltre la mistificazione della realtà e inoltrarsi nei territori dell’inganno totale, dove sono menzogne plateali a nobilitare la partenza in armi, con la trasformazione del nemico in immagine satanica, icona da annientare per il bene dell’umanità: si andava in Afganistan per aiutare un popolo fratello a costruire strade, a distribuire concimi nei villaggi, mentre i medici militari sono lì ad assistere le partorienti afgane (S. Aleksievic). Si va in Ucraina a liberare la popolazione oppressa dalla dittatura nazista.

La propaganda dell’arruolamento spesso non ha successo per l’obiettiva difficoltà a convincere ragazzi giovanissimi, magari con la testa infilata nella musica o nell’attesa di un futuro allettante, a imbracciare armi e ad andare a uccidere degli sconosciuti. O a farsi uccidere da loro. E quindi, oltre al reclutamento dei militari, c’è quello obbligatorio dei carcerati, quello apparentemente libero di coloro che pensano che almeno avranno uno stipendio con cui mantenere la famiglia; di quelli che non hanno nessuno che, se mai, li piangerà.

La discesa agli inferi della brutalità è rapidissima: la trasformazione anche di un ragazzo che trasgrediva tutt’al più fumando spinelli in una macchina di morte è affare di un tempo breve: l’ingresso è in un territorio dove gli ordini tanto spesso insensati sono urlati a squarciagola, la regola è ubbidire senza ribattere, la fatica è disumana e prima sconosciuta; il terrore panico di sfiorare la morte, l’odore del sangue e della carne bruciata, le urla atroci del tuo amico che non riesce a morire nonostante le viscere siano uscite dal suo corpo, fanno di te un altro, un altro che fa agli altri tutto quello che spera non sia fatto a lui. Bene lo raccontano alcuni spaccati del film The search (sulla guerra dei russi in Cecenia, 1999, visibile su RaiPlay) dove la giovane recluta è ad un passo dal cedere davanti all’orrore delle cose e al sadismo aggiuntivo e gratuito dei suoi compagni più anziani: offeso, umiliato, percosso, sconvolto nel contatto con il suicidio di un altro ragazzo che non ha retto, finisce per fare sue le regole devastanti che dominano il contesto e diventare come gli altri una macchina da guerra.

Sono corsi accelerati quelli alla violenza, che è virale nel propagarsi come il peggiore dei virus. L’attuale guerra, anche se usa missili, bombe, razzi, non protegge dall’esperienza terrificante del contatto diretto: dalla prima guerra mondiale, che non a caso continua ad essere ricordata come la Grande Guerra per il numero smisurato di vittime, sono progressivamente arrivati i racconti e le immagini di corpi smembrati, fatti a pezzi, di ferite spaventose eppure incapaci di zittire il battito impazzito di un cuore che resiste; di visi che si sciolgono in maschere mostruose.

“Un’intera nottata accasciato a fianco ad un compagno massacrato, guardando quella bocca serrata, a denti stretti, con i suoi occhi rivolti alla luna piena, guardando le sue mani gonfie che penetrano nel mio silenzio” (Veglia, Giuseppe Ungaretti)

è esperienza apocalittica che solo qualche spirito di forza eccezionale riesce a sublimare scrivendo lettere piene d’amore e attaccandosi visceralmente alla vita. Per gli altri, per tutti gli altri, è devastazione fisica e morale, è annientamento, è esperienza mortifera e agghiacciante: sono in tanti a non reggere e a superare il confine fittizio tra sanità e follia.

Vale la pena ricordare che furono migliaia, nella prima guerra mondiale, i soldati che soffrirono drammatiche conseguenze mentali: allora non si aveva consapevolezza di quella che sarebbe poi divenuta una categoria ufficialmente diagnosticata, quel Disordine da Stress Post Traumatico (PTSD) che solo dal 1980 ha ufficialmente inquadrato le conseguenze di esposizioni a fatti traumatici: si era all’inizio della comprensione di quello che venne inizialmente definito shell shockshock da esplosione, riferito ai soldati che, pur in assenza di ferite fisiche, soffrivano di palpitazioni, si paralizzavano, erano invasi da tremori e tormentati da incubi e insonnia, perdevano la capacità di parlare. Si cominciavano a inquadrare i sintomi come conseguenza dell’esposizione a uno stress prolungato e a ricoverare chi ne soffriva. Ma ciò non impediva che vi fosse nei loro confronti il sospetto di simulazioni che bisognava smascherare, sulla base di accuse di codardia e tradimento, e lo si faceva con metodi spaventosi a base di scosse elettriche che aggiungevano terrore al terrore, allo scopo di riuscire a rimandarli al fronte quanto prima. E si sta parlando di decine di migliaia di soldati, molti dei quali a fine conflitto finirono chiusi nei manicomi, spesso oggetto di scherno e pregiudizio, accusati di scarsa virilità: l’espressione scemi di guerra divenne un modo comune per riferirsi a quel che restava di loro, povere ombre umiliate e per sempre sconnesse dalla realtà. Una realtà rimossa perché non fa onore a chi la gestì, e perché si tratta di un implicito atto di accusa a tutte le guerre, al loro potere generatore di sofferenze mai del tutto riconosciute.

Poco da nascondere perché il fenomeno si è ripresentato con i reduci del Vietnam e non ha potuto essere ignorato nel corso delle altre guerre (AfganistanIraq, rilevato tra i soldati Nato) quando c’è stato qualcuno a occuparsi anche dei soldati o delle centinaia di metri di terra conquistati o persi. Oltre un secolo dopo, arrivano notizie anche dall’Ucraina, dove, nella regione di Kharkiv, sta funzionando un centro di riabilitazione dei militari, che vengono diagnosticati come affetti da disturbi conseguenti al trauma: oltre al PTSD con i suoi scatti d’ira, i disturbi del sonno, i flashbacks e tutti i sintomi più diffusi, anche sensi di colpa per avere ucciso: si può in questo caso meglio parlare del trauma del perpetratore (PITS, Perpetration Induced Traumatic Stress Disorder) vale a dire di chi non ha subito, ma inflitto morte e distruzione. Si tratta di una patologia di più recente definizione che apre ulteriori spiragli di conoscenza sulla psiche umana, e racconta di come perpetrare il male può, per alcuni o per molti, avere conseguenze traumatiche quanto il subirlo. A ciò si somma la sindrome del sopravvissuto: vale a dire un senso di colpa per essere vivo mentre altri, i compagni, gli amici, hanno fatto una morte spesso spaventosa e sono talmente tanti quelli visti morire che l’essere ancora vivo viene vissuto come un’imperdonabile colpa: i pensieri suicidari tentano di pagare il conto. Un rovesciamento della dinamica dei tempi di pace, quando perché proprio io è la domanda senza risposta a ogni disgrazia che ci tocca subire; in guerra a ogni fortuna immeritata. Troppo bello sarebbe poter pensare che il centro di Kharkiv abbia a cuore il benessere dei soldati, meritevoli di un accudimento e un sostegno che li ripaghino delle terrificanti esperienze attraversate: non illudiamoci, perché lo scopo è recuperare il prima possibile i soldati per rimandarli al fronte. Per morire solo un po’ più sani. Una logica terrifica che ricorda quella dei cacciatori che si preoccupano della salute degli animali per farli giungere vivi e possibilmente sani fino all’apertura della stagione di caccia: per ucciderli di persona.

Un pensiero inconsolabile va ai soldati di tutte le guerre di tutti i tempi e luoghi che certamente hanno vissuto sofferenze analoghe: semplicemente l’assenza di una conoscenza che riconoscesse diritto di cittadinanza alla loro sofferenza ne ha impedito il riconoscimento: solo a secoli o decenni di distanza ne possiamo prendere atto grazie anche alle magistrali ricostruzioni di una mirabile filmografia che con film quali Il gladiatore o Salvate il soldato Rayan, ha mostrato lo sconvolgimento degli attacchi al nemico e il terrore panico di quei morituri che della morte avevano terrore. Ma tant’è: a decretare il successo di quei film fu molto di più lo spirito guerriero che li animava che non le denunce che contenevano.

Ancora qualche flash dall’Ucraina: l’indifferenza dei capi, civili e militari, alla vita e alla morte dei soldati (e dei civili) trasuda da ogni parola: ci saranno molti morti, dichiarazione che spesso preannuncia un’imminente attacco, è una specie di mantra che dovrebbe sdoganare l’ineluttabilità di quello che si va a compiere ed è invece disinteresse per le vite altrui; a volte si dovrebbe meglio parlare di spinte a suicidi di massa, perché i soldati vengono mandati allo scoperto e subito falcidiati dal nemico. Sapendolo prima. Ancora una volta, tragici dejà vu: è bene ricordare che la firma dell’armistizio che segnava la fine della prima guerra mondiale fu firmato alle 5 del mattino dell’11 novembre 1918 per andare in vigore alle 11 dello stesso giorno: e nondimeno i soldati alleati furono costretti a compiere tutte le azioni di attacco contro i tedeschi già programmate. Azioni che provocarono in quelle 6 ore 2.700 morti e oltre 8.200 feriti: ad armistizio firmato! L’ultimo americano della Grande guerra venne ucciso alle 10:59, un minuto prima che al massacro mondiale fosse ufficialmente posta la parola fine. Ma tanto che non ci fosse niente di nuovo sul fronte occidentale era la narrazione ufficiale. Insomma lo spregio degli alti comandi della vita dei singoli soldati è spesso la cifra di ogni guerra: pedine reificate, al loro servizio, utili a celebrare a cose finite la retorica del patriottismo e del coraggio, sdebitandosi con qualche medaglia al valore, da appuntare sul petto di madri o figlie o vedove, nel corso di manifestazioni che continueranno a celebrare la magnificenza del combattere. E dell’altrui morire.

La provenienza della maggioranza dei soldati dalle fasce più diseredate della popolazione è garanzia che non ci saranno conseguenze: solo un dolore sordo delle famiglie, di cui non ci si farà carico. Forse molto ci sarebbe da dire anche sul concetto di figlicidio, sulle spinte inconsce che inducono a procurare morte ai giovani da parte di chi, nelle alte sfere decisioniste, giovane non è: considerazioni che, anni fa, hanno indotto lo psicanalista Emanuele Bonasia alla provocatoria proposta ai suoi colleghi di un documento che preveda che nel corso di guerre, dichiarate sempre da ultracinquantenni, siano arruolabili solo le persone tra i 50 e gli 80 anni e che il Capo dello Stato, il Primo Ministro e il Ministro della Difesa siano tenuti a partecipare materialmente in prima linea alle operazioni belliche. È fortemente probabile che molti massacri non sarebbero sdoganati con tanta sicura tranquillità.

La guerra in corso in Ucraina non solo è incommensurabile tragedia odierna, soprattutto per gli ultimi, per gli indifesi, per gli offesi di sempre: sono anche quelli che sopravviveranno, sono anche le bambine e i bambini non ancora nati a esserne sicure vittime. Le vite future sono già messa a repentaglio da quel tappeto di mine in cui il territorio è stato trasformato, che sono un’ipoteca sul futuro, perché continueranno a esplodere anche in tempo di pace, quando mai verrà, e feriranno, mutileranno, sfregeranno altre vite, altre infanzie. Mentre il mondo occidentale nel suo cinismo non si vergogna di discutere già sui termini della ricostruzione di territori devastati, non si intravedono preoccupazioni per la devastazione psichica di chi sopravviverà, per i loro figli e nipoti, per le prossime generazioni, che continueranno a vivere di sponda i traumi delle loro famiglie: perché il trauma è anche quello intergenerazionale, che si propaga da una generazione all’altra, colpendo l’integrità psichica nel tempo proprio come fanno le mine con quella fisica.

Il corso della storia è stato puntellato da figure solitarie di pacifisti, che hanno testardamente difeso la necessità ineludibile della pace anche in mezzo al proliferare di guerrafondai. A partire dagli anni Settanta del secolo scorso queste idee elitarie si sono propagate vorticosamente tra le giovani generazioni e hanno portato, in alcuni paesi tra cui il nostro, a un rifiuto viscerale della guerra, che non aveva nemmeno più bisogno di esprimersi perché entrato a radicarsi nel DNA di ognuno come parte integrante del nostro esistere. Quanto questo radicamento riuscirà a resistere ai fatti attuali è da stabilire: l’Italia non ha mai smesso di produrre armi ed è quindi ansiosa di venderle, ricompaiono proposte governative volte al ripristino del servizio militare se pure facoltativo, le immagini delle indicibili crudeltà quotidiane impattano in tante menti creando assuefazione ma talvolta desiderio di emulazione, una propaganda ossessiva che mistifica la volontà di un processo di pace come posizione putiniana e quindi la svilisce e la degrada, il linguaggio bellico sdoganato dai giornali, delineano un percorso lineare verso un nuovo bellicismo, dalle conseguenze spaventose. Abbiamo gli anticorpi per innescare la retromarcia, prima che sia troppo tardi? Ci chiediamo ancora, come molti decenni fa Bob Dylan incitava i giovani a fare, quante volte dovranno volare le palle di cannone prima che vengano bandite per sempre? E per quanto tempo possa un uomo girare la sua testa fingendo di non vedere? E quanti morti ci dovranno essere affinché lui sappia che troppa gente è morta? A distanza di mezzo secolo la risposta che nessuno è riuscito a dare sta ancora volando nel vento.

Articolo ripreso da https://comune-info.net/la-guerra-dei-soldati/

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