[E’ uscito da poco per Bompiani il saggio di Vanessa Pietrantonio L’idea fissa. Una malattia dell’immaginario. Ne proponiamo qui l’introduzione]
L' IDEA FISSA
di Vanessa Pietrantonio
Per sondare gli angoli bui della mente, in caso contrario condannati a vegetare nell’involucro impermeabile che avvolge la sostanza grigia del pensiero, Baudelaire aveva concepito un libro “sulla potenza dell’idea fissa”. L’opera, destinata a non vedere la luce, è stata scritta da altri, prima e dopo di lui.
Così, alle spalle di quel progetto mancato, immerso in un’asfissiante oscurità, è possibile riconoscere l’immagine riflessa di un’epoca ossessionata dalla scoperta di una nuova entità psichica. Una presenza sorda, risucchiante, dai tratti demoniaci, che sfianca e trascina sull’orlo del precipizio chiunque cada nelle sue spire. Sono solo alcuni degli effetti ricorrenti provocati da questa sostanza imponderabile, e allo stesso tempo fluida, capace di riprodursi in innumerevoli attualizzazioni, creare molteplici figure, incarnarsi in una pluralità di simboli. Tale è la sua pervasività che non stupisce, allora, se per tutto il corso del XIX secolo si è cercato di perlustrare e descrivere il sottosuolo che soggiace a questo modello immaginativo. Del resto, a sottolinearne la natura polimorfa sarà lo stesso Freud molti anni dopo, quando in un saggio del 1909, osserva che “le formazioni ossessive possono essere costituite dai più diversi atti psichici. Esse possono essere definite come desideri, tentazioni, impulsi, riflessioni, dubbi, comandi, divieti”. Forse proprio l’inesauribile potenzialità espressiva del vissuto maniacale – sospeso tra “la presenza estrema dell’istante e la presenza estrema del possibile” – consente di riconfigurare lo spazio della malattia mentale collocandolo all’interno di una assurda, quanto paradossale, antropologia del quotidiano. Un serbatoio di ombre si insedia progressivamente negli inferni casalinghi, mimetizzandosi in manie, passioni, pensieri.
Che c’è di più inventivo di un’idea incarnata e infetta – si chiedeva Valéry nel 1933 – il cui pungolo spinge la vita contro la vita fuori della vita? Essa ritocca e rianima senza tregua tutte le scene e le favole inesauribili della speranza e della disperazione, con una precisione sempre crescente, che supera di gran lunga la precisione finita di ogni realtà […] si è interamente posseduti, ritmati dal pensiero, che trascina, sferza, paralizza.
Con queste parole Valéry definisce l’idea fissa, mentre delinea il vorticoso movimento del pensiero quando è attraversato da “una spina mentale”. Decide di soffermarsi, con puntuale sottigliezza, su un’eclatante antinomia, sottolineando come a un simile fenomeno non corrisponda uno stato di inerzia bensì un incremento di energia. Ascoltiamolo ancora:
Il tipo di dolore che ha come causa apparente un pensiero alimenta questo stesso pensiero, e perciò si genera, si perpetua, si rafforza esso stesso. Di più: in qualche maniera si perfeziona; diventa sempre più sottile, più abile, più potente, più inventivo, più inattaccabile. Un pensiero che tortura un uomo sfugge alle condizioni del pensiero; diventa un altro, un parassita.
Il movimento rotatorio e circolare che si verifica durante il processo di fissazione di un pensiero non comporta, dunque, un semplice arresto, ma anche un’intensificazione prodotta dall’ostinata e inespugnabile ripetizione attraverso cui un’idea irradia la sua presenza, espande il proprio dominio allungandone e prolungandone il raggio di azione. Dapprima appare come un punto focale non ancora precisato, attorno a cui una forza indistinta costringe la mente a percorrere cerchi sempre più stretti dove conta solo ciò che ha un’attinenza tassativa con quell’influsso inesorabile. In tal modo si costituisce una sorta di polo magnetico che non tarda a divenire il perno dell’esistenza, impossibile da scalfire se non attraverso un processo di annichilimento del soggetto.
Sottrarsi alla tentazione di un simile destino, alla sua potenza, risulta un’impresa davvero ardua, dal momento che, il demone dell’idea fissa incarna in maniera esemplare l’idolatria dell’abisso, quell’inclinazione mortale che implica – sono parole di Susan Sontag – “una eroicità della malattia, del negativo, del male, un’affermazione dell’io attraverso la sua distruzione”.
Siamo di fronte a un movimento parabolico inciso nella carne di molti personaggi, non solo letterari, le cui azioni seguono i movimenti dei loro pensieri, disegnando e inventando “vibrazioni, rotazioni, vortici, gravitazioni, danze, salti” capaci “di toccare direttamente lo spirito”. L’andatura trasgressiva dell’idea fissa consiste infatti nel tracciare una spirale che si evolve in maniera viva, intensa, proprio nel momento in cui si ripiega e attorciglia su se stessa dischiudendo – suggerisce Deleuze – “una verticalità segreta dove i ruoli e le maschere trovano alimento nell’istinto di morte”.
Il palcoscenico appena allestito da Deleuze, dove le ombre generate dall’idea fissa si muovono assecondando il ritmo sordo della ripetizione, sembra ricalcare perfettamente gli ingranaggi psichici escogitati da Balzac per raffigurare la vita interiore dei suoi protagonisti. Il terreno da lui prescelto non è casuale, ma risponde alla precisa esigenza di mettere in scena il dramma che, attraverso un legame organico, congiunge puntualmente il personaggio all’idea. Per dare corpo a un simile progetto è necessario trovare una soluzione di compromesso fra due modelli letterari opposti: la “Letteratura delle Idee”, e la “Letteratura dell’Immagine”. La prima raggiunge il vertice stilistico con la prosa di Stendhal, mentre la seconda con “l’eminente talento” di Victor Hugo. Ma è la combinazione di queste due forme espressive antagoniste, sembra pensare Balzac, l’unica strada percorribile dalla narrativa moderna che, ai suoi occhi, non può rinunciare a mettere al centro della propria poetica “la potenza dell’azione che il Pensiero esercita sulla Materia”. E così non gli resta che inventarsi un’altra tendenza letteraria per definire il suo nuovo orientamento […]
“Il pericolo maggiore”, annota Gide fra le pagine del suo diario, “è quello di lasciarsi monopolizzare da un’idea fissa”. Un rischio che si verifica quando un pensiero, alimentato da una passione, si protrae verso qualcosa di inaccessibile. Allora “le idee sono sovrane”, non più “subordinate alla volontà dell’uomo”. Queste parole costituiscono un’ulteriore conferma dell’impronta fantasmatica che ha lasciato dietro di sé la nuova inquietudine morbosa diffusasi nel XIX secolo e identificata da Esquirol con il nome di monomania. Inscrivibile in quel territorio che, insieme, congiunge e divide, la mania e la malinconia, essa appare, proprio in virtù della sua discendenza obliqua, dotata di una plasticità in grado di generare una proliferazione di tipologie diverse fra loro: alcune statiche, altre ibride e incerte. Non c’è dunque da meravigliarsi se molti scrittori dell’epoca, tra i quali Balzac come si è appena constatato, abbiano preferito orientarsi verso questa nuove coordinate per deformare, o sospendere, la commedia dei segni con cui ogni personaggio è stato abitualmente costretto a recitare la propria vita interiore.
Nata all’ombra di Saturno, che continua a dispensare le sue radiazioni fredde e bianche, l’idea fissa altera la propria forma primitiva[1] attraverso le molteplici combinazioni fra l’universo melanconico e quello maniacale, ridisegnando lo spazio psichico in una serie indefinita di monomanie, ognuna delle quali rispecchia – osserva Jacques Rancière – dei “corpi malati di pensiero”. All’interno di un tale regime di onnipotenza la corporeità non è più “uno strumento,” ma, piuttosto “il teatro” nel quale opera l’idea. Lo spazio transizionale – avrebbe detto Winnicott –, creato dalla sinergia di entità contrapposte, determina una rottura che infrange la secolare polarizzazione dicotomica in cui era rimasta intrappolata la rappresentazione della follia, dischiudendo corrispondenze e rovesciamenti fra tipologie patologiche, e patiche, non più così rigidamente distinte. Si tratta – afferma Fédida – di “un isoformismo fra melanconia e mania” che rivela “una dinamica interna tra le espressioni”, da cui traspare un’affinità dietro l’apparente opposizione. In tal modo Esquirol riesce ad inglobare nel campo semantico della monomania “tutte le misteriose anomalie della sensibilità, tutti i fenomeni dell’intelletto umano, tutti gli effetti della perversione delle nostre inclinazioni, tutti gli squilibri delle nostre passioni”, garantendo un principio unico alle più variegate aberrazioni della vita morale. Ci troviamo di fronte a una definizione tutt’altro che rigida, dove il sostrato passionale che ne costituisce l’embrione trova il proprio significante psichico nelle pieghe oscure di un delirio parziale, il quale trasforma il moto pulsionale in un meccanismo ossessivo, nascondendolo dietro un’apparente normalità. I monomani, folli raziocinanti, si comportano in maniera diversa, secondo la propria particolare inclinazione custodita nel lembo sotterraneo di un’idea delirante attorno a cui si profilano scenari patologici permeati da un’inquietante familiarità.
Emerso dalle profondità più remote della medicina antica, il delirio parziale, prima che la psichiatria dell’Ottocento lo ponga al centro della propria indagine, ricompare in una breve annotazione di Kant, che, con un certo scetticismo, si chiede se sia davvero possibile stabilire una sostanziale “differenza fra la pazzia generale (delirium generale) e quella attinente ad un determinato oggetto (delirium circa obiectum)”. A fugare ogni dubbio sarà proprio Esquirol, che, isolando la monomania, riuscirà a restringere il campo del delirio avvolgendolo nelle pieghe di un desiderio esclusivo. L’elemento passionale, centro di irradiazione della malattia, si riproduce attraverso infinite varianti e trova nell’eccitazione la propria unità di misura. Su una tale scansione si fonda quella che Rancière definisce “la grande ossessione intellettuale”, la quale taglia trasversalmente tutto il tessuto sociale di un’epoca ormai dominata “dall’appetito democratico”, dalle “eccitazioni dei sensi e le aspirazioni dello spirito”, come accade per esempio a Madame Bovary. Ma prima di lei, grazie alla penna di Balzac, le ambizioni e gli ideali, le passioni o i sentimenti erano già diventati il segno dell’intensità corporea del personaggio.
Con sfumature e gradazioni diverse l’eccitazione si conferma il barometro psichico attraverso cui è possibile rilevare la spinta erotica presente, a livello subliminale, in ogni mania. Consustanziale alla vita stessa, ai ritmi moderni della produzione, la monomania funziona come uno specchio – avrebbe detto Stendhal – portato lungo la strada nella quale si riflettono anche le principali diramazioni sociali. Così l’onda d’urto provocata dalla monomania sulla superficie del reale è simile “a una crepa, a una fessura” che diventa una linea d’ombra di densità variabile in cui vibrano le tinte oscure di una patologia dai tratti ordinari. Nello sguardo concentrato, ma anche indeterminato, del monomane affetto da delirio parziale è impresso il moto di una caduta che può essere lenta e progressiva oppure di tale velocità da non potersi arrestare. Il percorso tracciato dall’idea fissa non è affatto uniforme, ma si sviluppa, al contrario, seguendo linee temporali eterogenee: alternando momenti di esaltazione maniacale ad altri di abbattimento, sempre accompagnati da “una mobilità interna e da una sorta di agitazione vuota e silenziosa”, anche quando rimangono velati da una illusoria staticità. In questa armonia dissonante tra posture contrapposte si dispiega – suggerisce ancora una volta Fédida – “la presenza viva e intensa di un pensiero interiore che non cessa di agire”. Il volto assume, allora, la funzione di una vera e propria “facciata psichica dove la fisionomia è il segno di un eccessivo investimento passionale trasformato in sintomo. Tutto appare, e allo stesso tempo si cela, sulla superficie del visibile: come se la segnatura fosse l’opera di una forza esterna. Nell’espressione assente, a tratti minacciosa nella sua immobilità, esibita spesso dal monomane, è possibile scorgere il riflesso di una meccanica mentale governata dall’automatismo, dietro cui riaffiora il fantasma ancestrale della possessione, trapiantata, però, in un contesto secolarizzato che ne rovescia la gerarchia predeterminata degli effetti.
“Lo smarrimento passionale”, ipotetico nucleo di ogni manifestazione monomaniaca, diventa il dispositivo attraverso il quale si riorganizza la percezione soggettiva del mondo, dominata e agita dal protrarsi di un desiderio il cui residuo onnivoro viene accentuato dalla progressione di un sacrificio idealizzante. In tal modo il processo di fissazione, trasformatosi in uno stato passionale esercita sul corpo l’intensità di tutta la sua forza, innalzandolo, o rovesciandolo, fino a raggiungere il punto estremo, oltre il quale si percepisce la follia. È un nodo cruciale su cui si fonda il paradigma dell’idea fissa rispetto al meccanismo della nevrosi ossessiva che verrà, in seguito, messo a punto da Freud. Dal canto suo Esquirol non potrebbe essere più esplicito nel metterne in luce la natura passionale:
La monomania è essenzialmente una malattia della sensibilità, essa risiede completamente sulle nostre affezioni.; il suo studio è inseparabile dalla conoscenza delle passioni, è nel cuore dell’uomo che trova la propria sede […] Questa malattia presenta tutti i segni che caratterizzano le passioni.
All’incrocio tra l’apparato psichico e la cornice somatica la monomania presenta una scena abitata da un dispiegamento conflittuale di “affezioni” che possono arrivare a un grado di violenza inaudita, oppure arrestarsi sul fondo oscuro di una procrastinazione estenuante. In ogni caso sono sempre di corpi pensati e agiti da un’idea.
Non è un caso, allora, se questa sorta di colpevole passività che contraddistingue la condizione del monomane – sempre all’oscuro di se stesso e in uno stato di perpetuo patimento – trovi nell’ estasi del martirio un’ipotetica compensazione alla riprovevole, e irreparabile, mancanza di libertà prodotta dalla malattia. Modellando dall’esterno i sintomi di una patologia destinata a restare altrimenti invisibile, la diagnosi medica si incrocia con la raffigurazione artistica che immobilizza in uno spazio psichico quei corpi gelati – secondo un vero e proprio ossimoro – da un’inesorabile irrequietezza.
“L’attenzione troppo fissa” che, secondo Georget, allievo di Esquirol, costituisce l’habitus mentale del monomane entra con prepotente invadenza iconografica nella serie di dipinti eseguiti da Géricault alla Salpêtrière tra il 1820 e il 1824. In queste tele l’immobilità impenetrabile dello sguardo, che custodisce, e allo stesso tempo adombra, la forza enigmatica di una passione univoca, conferisce ai volti un’espressione vaga e stranita, come se i malati – precisa John Berger – stessero “guardando altrove, di sbieco”, incapaci di “vedere quel che è vicino”, ma non solo: incapaci addirittura di vedere qualsiasi cosa, potremmo anche aggiungere.
Quel “distacco dall’oggetto” al quale, in pagine oramai imprescindibili, Lévinas riconduce il solipsismo dell’esperienza visiva si impone, così, nella sua declinazione più drastica: dal momento che ai volti raffigurati da Géricault spetta quasi il compito di incarnare l’esautoramento della fisiologica cinesi in base alla quale – secondo un’antica genealogia filosofica ripresa da Lévinas – si riesce a vedere, cioè “siamo nella luce nella misura in cui incontriamo la cosa nel nulla”. Si tratta di un processo del tutto interdetto a questi volti. È solo “il nulla della cosa” ciò che, viceversa, possono incontrare. Si vede, si vede, si continua a vedere senza sosta, ma unicamente per sperimentare l’opacità di uno sguardo ripiegato su se stesso. Ecco il paradosso da loro esibito senza reticenze.
A tale mancanza di focalizzazione, di presa sulla realtà, corrisponde una sospensione sonnambolica di vigile attesa che dissolve la struttura scenografica della reclusione, per cui quei ritratti erano stati predisposti, in una solitudine dolorosa decisamente più tangibile. La vertigine dell’insensatezza trapela nell’impasto macchiato di uno sfondo oscuro che, oltre a dislocare la follia in una topografia indeterminata, amplifica la contraddizione fra pietà e impotenza inerente a queste immagini.
In ogni dipinto l’unità della composizione appare incrinata dal pregnante disorientamento ostentato dagli occhi – veri e propri “ricettacoli di emozioni” – la cui particolarità consiste nel “rispecchiare le tracce lasciate da passioni diventate abituali”, suggerisce Margaret Miller. Con scrupoloso rigore Géricault infonde nelle orbite oculari dei suoi ipotetici pazienti quella “intensità anormale” portata alla luce a suo tempo da Spinoza, che improvvisamente sembra ritornata a sopravvivere nel ritmo esistenziale del monomane, ormai diventato l’emblema di una dilagante patologia sociale.
Attorno a questa galassia inesauribile di osmosi tra affezione e pensiero la monomania si appresta a radicalizzare i propri tratti peculiari, assumendo il ruolo di un’insostituibile controfigura letteraria protesa a sovvertire l’inconciliabile polarità fra stasi e azione. La continua inversione di queste condizioni opposte finisce per innescare un’espansione illimitata di raffigurazioni, animate da un movimento di rotazione implacabile. Spostandosi senza seguire intenzionalmente una precisa direzione, il monomane nutre, sulla scia di Louis Lambert, una particolare “ossessione per il vortice” a cui affida la propria cronometria mentale, circolarmente infinita. Le sue oscillazioni tra euforia e disforia tracciano il percorso serpentino di una vita vissuta all’insegna “di passioni esaltate e dominanti”, in un succedersi di tensioni e gesti drammatici.
Una logica governata dall’ostinazione di un pensiero cieco e insondabile sembra posarsi come un’ombra nei recessi più profondi della coscienza, ormai divenuta il riflesso sonnambolico di se stessa. Tra le forme quasi clandestine che può assumere questo sovraccarico di energia possiamo annoverare, sulle tracce di Melville, la “depravazione naturale: una depravazione secondo natura” che consiste, nei casi maggiormente eclatanti, in un uso “ambivalente della ragione per mettere in atto l’irrazionale”. Agendo come un fuoco sotterraneo la monomania può essere dotata, a volte, di una fredda e sinistra lucidità. Solo allora l’insensatezza del male rivela tutta la sua consistenza.
Non siamo lontani da quanto alcuni anni prima aveva teorizzato Poe nel Genio della Perversità designando con quel termine, che funge da titolo del racconto, l’esistenza di un impulso primitivo, la cui affermazione spinge “a fare il male per l’amore del male”.
Non c’è da stupirsi se Baudelaire imbattutosi in una simile teoria ne sia rimasto soggiogato. “Nati con il marchio del male”, i personaggi di Poe gli appaiono sotto l’impronta di una segnatura satanica: sintomo evidente di un’attrazione verso l’abisso che risucchia, come una vertigine nervosa, tutta la sua opera, impregnandola di un inossidabile timbro melanconico.
Pezzo ripreso da https://www.leparoleelecose.it/?p=47003
Nessun commento:
Posta un commento