LA VERITA' DELLA FINZIONE
di Roberta Colombi
È stato da poco pubblicato da Carocci La verità della finzione. Il romanzo e la storia da Manzoni a Nievo di Roberta Colombi. Ne pubblichiamo un estratto per gentile concessione dell’editore. https://www.leparoleelecose.it/?p=47023
Storia e finzione: una lunga infedeltà
Questo lavoro è l’esito del percorso compiuto per rispondere ad una domanda scaturita dalla prima lettura delle Confessioni, diversi anni fa. La forza della sua fascinazione, la seduzione che aveva esercitato su di me risiedeva probabilmente nelle riflessioni sulla vita e sulla storia, nel loro valore etico, e nel modo in cui, sfruttando le risorse della retorica narrativa, l’autore rendeva possibile una conoscenza che, passando attraverso la via delle emozioni, si traduceva in percorso esperienziale.
Tradizionalmente concepito come il romanzo storico del nostro Risorgimento, il testo nieviano presentava le caratteristiche di un modello narrativo molto vicino alla tradizione moderna del novel e ai suoi meccanismi di immedesimazione ma, pur inserendosi all’interno di quella importante tradizione affermatasi nel nostro Ottocento, non godeva della stessa fortuna del modello manzoniano.
La sua vicenda critico-letteraria, che ne ha condizionato senz’altro la ricezione, suscitava delle domande. Le ragioni di questa scarsa fortuna andavano approfondite per comprendere perché a questo romanzo che poteva, sia sul piano narrativo che su quello etico, offrirsi come modello, era mancato il riconoscimento che meritava, pur mostrando in questi due aspetti caratteri di straordinaria modernità e attualità. Il suo “caso” poteva offrire l’occasione di riflettere su una tappa importante della difficile affermazione del romanzo nella nostra storia letteraria e in particolare sulla tradizione del genere storico nel quale si era inserito introducendo un modello molto diverso da quello manzoniano: quello del romanzo storico-testimoniale o pseudo-autobiografico, ancora oggi vitale.
Per rispondere a queste domande si è subito imposta la necessità di allargare lo sguardo alla tradizione del romanzo di argomento storico e alle questioni che quello, sin dai suoi esordi, ha portato con sé. Nievo, avendo istituito, come è noto, il capitale passaggio dal modello della “storia documentata” di origine manzoniana a quello della “storia testimoniata” (Mengaldo 2011, p. 165), introduceva la possibilità di un nuovo rapporto tra romanzo e verità storica. Se Manzoni aveva legittimato il genere grazie alla relazione stabilita con la storiografia, nel clima risorgimentale in cui scriveva Nievo questa relazione andava evidentemente assumendo altri connotati. Il modello da lui proposto poneva subito al centro, infatti, la novità di un patto con il lettore al quale il narratore chiedeva di essere creduto e che testimoniava la mutata necessità di appellarsi alla verità storiografica.
La trasformazione che avviene, nell’arco di pochi decenni, di questo capitale rapporto tra letteratura e storia, ha suggerito l’ipotesi di ricostruire il percorso di emancipazione in cui, dopo Manzoni, la finzione tenta, ancora tra molte resistenze, di affermare il suo diritto di cittadinanza nella cultura letteraria italiana. Una cultura che, nonostante il romanzo godesse di buona salute da ben due secoli, manifestava ancora, a inizio Ottocento, la sua condanna moralistica per la menzogna romanzesca, la diffidenza verso la sua forza persuasiva, e poneva ancora al centro dei dibattiti la vexata quaestio del rapporto tra invenzione e verità, finzione e storia. Questioni al centro ancora della riflessione manzoniana che, protraendosi fino agli anni Cinquanta, di questa tradizione critica rappresentava, se non il punto di arrivo, il momento di massima lucidità teorica.
È necessario dunque ripartire da lì per ricostruire, attraverso il diverso peso attribuito nel corso di un cinquantennio al binomio verità/finzione, la storia dell’accettazione nella nostra cultura della dimensione finzionale legata al romanzo. Ed è altrettanto necessario, alla luce dell’attenzione che il recente dibattito teorico-critico ha rivolto alla permeabilità sempre maggiore dei confini tra fiction e non fiction nelle forme narrative, affrontare la questione anche da una prospettiva attenta alla dinamica storica, tentando ad esempio di ricostruire la natura e le trasformazioni di questo rapporto a partire proprio dall’esperienza manzoniana.
La cultura preunitaria, sicuramente meno indagata da questo punto di vista di quella primo ottocentesca, ci offre l’occasione di vedere come evolvono le preoccupazioni teoriche manzoniane di tener distinti storia e finzione e di mostrare come il mutare di questo rapporto sia un indicatore di una trasformazione culturale che investe i modi di concepire la letteratura, la conoscenza che quella consente, e la visione della storia che si vuole trasmettere.
Di necessità si è dovuto compiere un viaggio a ritroso che arrivasse a scandagliare i decenni preunitari, durante i quali, all’ombra di Foscolo e Manzoni, ci si andava ancora confrontando con quei modelli alla ricerca di una nuova letteratura più rispondente ai tempi. Dopo la “sconfessione” a cui era approdato Manzoni nel Saggio sul romanzo storico, si apre infatti una nuova fase che va sperimentando, con una produzione di varia natura e qualità, proprio il superamento di quell’impasse con cui, in genere, si considera chiuso quell’antico dibattito, ma fortunatamente non la fortuna del componimento misto di storia e finzione.
Nievo con le Confessioni, intercettando esigenze diffuse, compie una vera “svolta”, incubata e maturata all’ombra di altre figure di scrittori e critici che appartengono già ad un altro orizzonte culturale. Ricostruire il panorama letterario e il contesto critico che immediatamente precede l’esperienza nieviana, consente di collocarla all’interno delle incertezze, dei fallimenti, ma anche degli stimoli che quel panorama offriva: operazione d’obbligo per un’opera come Le Confessioni che funge utilmente da “traino” nella scoperta di quell’importante e interessante fase rappresentata dalla cultura preunitaria a cui Nievo appartiene organicamente (Casini 2014). Solo ricostruendo i fili che legano il romanzo al suo tempo e alle aspettative di quello, è possibile cogliere la nervatura che, come in una filigrana, lo attraversa e riconoscere il valore dell’operazione che Nievo realizza con il suo romanzo.
Il capitolo di apertura è dedicato quindi a ricostruire le posizioni estetiche manzoniane, attraverso le riflessioni intorno al rapporto storia/letteratura, che precedono, accompagnano e chiudono il suo tentativo di legittimare il “genere proscritto”, di cui si offre una lettura che tende a valorizzarne la modernità. Il suo impegno teorico sottopone, infatti, questioni interessanti e attuali, che sembrano anticipare il dibattito contemporaneo, laddove perfino nel saggio-sconfessione del 1850, in continuità con le sue prime riflessioni, insieme alla denuncia della pericolosa commistione di finzione e realtà, si intravede il bisogno di individuare la natura della conoscenza estetica e di giustificare il valore etico della scrittura, unico a dare ragione dello sforzo compiuto col suo romanzo di far convivere nella finzione il vero e il verosimile. Il travagliato percorso redazionale delle due parti di cui si compongono i Promessi Sposi, comprensivi nell’ultima redazione del ’40 della Colonna Infame, testimonia infatti, da un lato la difficoltà di liberarsi della sua tensione al vero, dall’altro quella di sfuggire al potere della fascinazione romanzesca. Mentre nella Colonna si possono cogliere spie di una finzionalità soppressa, ma mai del tutto eliminata, nei Promessi sposi la polarità verità/finzione si coglie nella riscrittura di alcuni episodi storici realmente accaduti, presenti sottotraccia nel romanzo, che rivelano la funzione trasfiguratrice della scrittura letteraria e la capacità di proporre esperienze “possibili”, tutt’altro da condannare eticamente.
Nel secondo capitolo, invece, si offre la ricostruzione di quel cinquantennio (in cui si colloca pure la risposta manzoniana) durante il quale altri scrittori e critici si sono confrontati col romanzo e le sue insidie. In un ampio panorama vengono indicate le strade percorse dal romanzo e il dibattito da quello suscitato, dopo che sia Foscolo che Manzoni sembrano sconfessare le loro opere di successo indicando la necessità di altre soluzioni. All’interno di questo quadro si è fatto cenno agli orientamenti della produzione romanzesca che, seppur con intenti diversi, ha fatto ricorso, con vario dosaggio, alla ricetta del componimento misto di storia e invenzione. Dalla moda del romanzo storico alla sperimentazione di moduli incentrati più sulla storia recente, dall’orizzonte familiare a quello autobiografico e di formazione, fino a quello storico politico, emerge che, prima delle Confessioni, la tendenza degli scrittori fosse quella di emanciparsi da quei due modelli e di superare la sterile contrapposizione facendo spazio all’attualità e alle risorse della finzione per riprodurre il reale, a volte con soluzioni interessanti anche se ancora acerbe.
Questo l’orientamento che emerge anche dalle posizioni di due degli intellettuali più interessanti della cultura preunitaria, il cui impegno critico meriterebbe maggiore attenzione: Mazzini e Tenca. Questi, con la loro critica “militante”, offrono analisi sulla letteratura contemporanea e propongono prospettive di sviluppo, in particolare per il romanzo, che certamente hanno finito per orientare molti giovani scrittori, i quali hanno visto in loro due opinion leaders cui ispirarsi per rinnovare la nostra letteratura. Ricostruendo le loro posizioni, attraverso una lettura puntuale della produzione critica, si coglie chiaramente come entrambi, rivisitando i modelli di Foscolo e Manzoni, hanno indicato ciò che occorreva salvare e ciò che occorreva respingere ed entrambi, essendo orientati verso un realismo che non impedisse l’espressione di prospettive ideali, hanno contribuito a far sentire meno necessario il patto di fedeltà con la storia e ad autorizzare il romanzo a quell’intreccio di vero e verosimile che solo una letteratura rinata alla sua funzione di creare mondi possibili può consentire.
I capitoli su Nievo, invece, da un lato cercano di ricostruire, attraverso una ricerca indiziaria che rintraccia la sua poetica in lettere, scritti giornalistici, recensioni e saggi, le sue posizioni sul romanzo e i suoi caratteri, le sue considerazioni sul rapporto con la storia, sulla relazione col lettore, dall’altro indagano i due livelli del testo, quello narratologico degli espedienti retorico-romanzeschi, e quello semantico, delle idee e della conoscenza storica, mossi dalla convinzione che il secondo si serve abilmente del primo per riuscire a coinvolgere il lettore nel suo orizzonte valoriale. Il complesso messaggio intravisto nel romanzo di Nievo, infatti, viene attivato, ancora oggi, grazie al ricorso a quei dispositivi retorici del discorso narrativo che rendono possibile una comunicazione che suscita, a seconda dei casi, una varietà di emozioni: dalla simpatia, all’immedesimazione, al distacco critico. Riconoscere questi elementi consente di emancipare il romanzo di Nievo da una connotazione eccessivamente ideologica e da quel valore storico-documentario legato appunto all’oggetto del racconto, quel secolo di storia così importante per le sorti della nazione, ma anche di restituirlo alla sua dimensione specificatamente romanzesca.
Grazie agli strumenti offerti dalla riflessione teorica bachtiniana, dalla narratologia angloamericana e francese, fino agli studi più recenti sull’universo della finzione, si sono potuti cogliere molti di quei caratteri specifici della fiction, quegli espedienti che attestano la piena inclusione di questa pesudoautobiografia nell’orizzonte finzionale e consentono di riconoscere al romanzo nieviano i caratteri di una modernità romanzesca ormai di affermazione europea. Considerando infine che la dimensione finzionale investe anche l’ambito semantico della narrazione, non solo quello morfologico, perché gli elementi di finzionalità sono solo degli ”effetti, la cui causa è il carattere fittizio del racconto, ovvero il carattere immaginario dei personaggi” (Genette 1994, p. 62), cioè l’universo costruito, si è voluto indagare anche la sostanza della finzione, il piano dei contenuti, il livello informativo del testo, visto il suo rapporto con il dato storico e l’intenzione conoscitiva che lo muove.
Nel caso delle Confessioni, sebbene il romanzo narri fatti realmente avvenuti, rimandi cioè ad un referente esterno, l’elemento storico in esso presente non fa che dissimulare la natura “mediata” della finzione romanzesca, il filtro autoriale che inevitabilmente interviene su ciò che viene raccontato, a volte lo manipola, e trasforma anche un dato storico in qualcos’altro. Grazie alla forte intenzione etica che muove la sua scrittura, grazie ad un orizzonte diverso rispetto a quello manzoniano, Nievo si preoccupa meno di ostentare il rispetto dell’autorità storiografica e ricorre più esplicitamente agli strumenti della finzione romanzesca. Le Confessioni, in sostanza, pongono al centro quel rapporto ambiguo con le fonti storiografiche che inaugura una lunga tradizione di infedeltà che il romanzo storico seguirà fino a quella dichiarata confusione di fiction e non-fiction che sembra investire la narrativa e il dibattito critico contemporaneo (Castellana 2021b), ma che è appunto alle origini del romanzo moderno.
Una lettura dunque, quella che si propone, che addita nelle Confessioni una prova importante con la quale, dopo l’esperienza manzoniana, sembra avviarsi una concreta accelerazione nel percorso di affermazione del romanzo all’interno della nostra tradizione, dove anche la storia può essere in parte tradita, riscritta, “finzionalizzata”, per dire il vero immaginato dal romanziere, la sua visione della storia, il suo orizzonte di valori, nonostante una “strategia denegativa” con la sua “retorica dell’autentico” sopravviverà a lungo nella nostra tradizione a conforto del lettore (Bertoni 2007, pp. 143-145). Nievo, infatti, pur ricorrendo alla diffusa prassi di legittimazione romanzesca, tesa a persuadere della veridicità di quanto raccontato, anche se in modo diverso da Manzoni, da un lato si adegua a quella “ossessione della verità” (ivi, p. 146) che aveva accompagnato l’esperienza del romanzo in Europa e in Italia, dall’altro sfrutta tutte le potenzialità della fascinazione romanzesca per parlare più efficacemente, come dice lui stesso in una pagina del Conte pecorajo, all’ “intelligenza del cuore” del lettore (CP p. 232), anche grazie a personaggi in grado di instaurare con quest’ultimo una relazione complessa, che si avvale di procedimenti di immedesimazione empatica ma anche di distacco critico.
Il maggiore spazio che critici e scrittori della cultura preunitaria concedono alla finzione, al ruolo dei personaggi, alla fascinazione del verosimile, implica la crescente accettazione di una concezione del romanzo come dispositivo capace di ampliare la nostra esperienza e dunque di produrre conoscenza, proprio grazie e attraverso i mezzi offerti dalla retorica e dai meccanismi di funzionamento dei mondi d’invenzione.
Il modo in cui Nievo cerca di “ammodernare” il modello manzoniano, il modo in cui, in un romanzo concepito neanche vent’anni dopo la Quarantana, si intrecciano la realtà della storia e il possibile dell’invenzione, il modo di concepire la letteratura e la sua dimensione finzionale, è qualcosa che nasce in quel clima culturale e grazie ad esso, ma è anche qualcosa che riguarda il futuro del romanzo italiano, in particolare quello di argomento storico. Le Confessioni, infatti, mostrano una straordinaria modernità e attualità, anche alla luce degli sviluppi letterari successivi.
Il loro modello, nonostante il lungo silenzio critico e il misconoscimento caduto su di loro fino a quasi metà Novecento, risulta attivo in una tradizione che arriva fino a noi nella forma del romanzo testimoniale/memoriale, pseudo-autobiografico e pseudo-biografico a sfondo storico. Una tradizione che, se non è responsabile della consapevole ripresa di quello schema narrativo, ne mostra però tutta la sua vitalità.
Un’ipotesi, cui si accenna nel capitolo conclusivo, in cui si indica, in particolare, la persistenza del modello inaugurato da Nievo, e delle medesime esigenze estetiche ed esistenziali di riscrivere la storia offrendone una rilettura critica, in una linea di narrativa con vocazione testimoniale, il cui disegno è tutto da tracciare.
Oltre a prospettare questa ipotesi, nell’ultimo capitolo si tenta una riflessione sulle possibili ragioni del mancato apprezzamento critico di questo modello, sia sul piano etico che su quello narrativo, della sua scarsa fortuna nella nostra tradizione romanzesca, o nella narrazione che se n’è fatta.
L’indagine condotta su questo momento cruciale della nostra storia nazionale e su due modelli di diversa fortuna critica, ma di eguale statura europea, come quello manzoniano e nieviano, ha messo in luce come, al di là del fascino o del rifiuto mostrato nei confronti del potere della finzione, la costante alla base del componimento misto sia l’ambizione di soddisfare un bisogno conoscitivo che si traduce in impegno etico-civile: la comprensione del comportamento umano e del suo agire nella storia, l’espressione di una visione con cui leggere la storia, passata e presente, il desiderio di darne una lettura critica.
Conoscere, e far conoscere, raccontando è esattamente ciò che le strategie persuasorie del romanzo, agendo sul piano dell’esperienza emotiva, permettono (Iotti 2019) e alle quali il genere misto deve la sua tanto discussa fortuna.
La fascinazione della “favola”, respinta solo teoricamente dai più rigidi custodi del vero come Manzoni, è ciò che rende in realtà straordinariamente potente la narrazione romanzesca. Grazie ad essa Nievo sa, e non sembra essere stato solo, che può anche affrancarsi in parte dalla storiografia, avvicinare il lettore e parlargli di un mondo “possibile”, anche se solo intravisto e desiderato tra le righe di un romanzo.
La sua esperienza, e la tradizione che ne è seguita, a cui si accenna nelle ultime pagine del libro (nel paragrafo 7.3 (S)fortuna di un modello narrativo), mostra chiaramente come la funzione della letteratura non sia solo quella di integrare la storia, per recuperare ciò che è caduto nell’oblio, come già indicava l’autore dei Promessi Sposi, ma più coraggiosamente di quanto questi dichiarava teoricamente nel suo saggio del ‘50, quella di creare connessioni tra i dati, di rinvenire logiche dove non sembrano esistere, di rappresentare il vero “veduto dalla mente” (per dirla con Manzoni), di fornire insomma, grazie proprio alla fascinazione romanzesca, un’altra forma di conoscenza o “intelligenza della storia” (Dionisotti 1988, p. 347), diversa da quella storiografica, che sebbene finta non per questo è falsa. (pp. 15-21)
(…) Il romanzo storico, infatti, risponde al desiderio di “riscrivere la storia”, darne una propria lettura e per questo ciò che importa osservare è la natura della sua trasformazione, il senso nascosto nella sua riscrittura.
Proprio l’analisi delle posizioni di chi si è cimentato con questo genere, nel doppio aspetto teorico e creativo, sin dagli esordi ottocenteschi, ci induce a riflettere che compito della critica non sia l’individuazione della maggiore o minore distanza dal dato di realtà con cui la scrittura entra in relazione, quanto comprendere il trattamento, la trasformazione che quello subisce e tentare così di cogliere le tracce di quel senso che lo scrittore cerca nell’istituire il suo mondo possibile, la sua sapienza o “autocoscienza letteraria” al di là delle sue “velleità di mimesi cronachistica” (Bertoni 2007, p. 152).
Il mondo possibile costruito dalla fiction di carattere storico, è “uno specchio privilegiato delle passioni comuni, delle mode, delle infatuazioni collettive, delle fobie di massa, dei pregiudizi diffusi, delle superstizioni sociali» (Lanaro, 2004, p. 98), in qualche caso ha la funzione di collegare “la vicenda pubblica e le emozioni interiori, iscrivere il politico nel domestico» (ivi, p. 92). Ma oltre a queste “funzioni integrative o sostitutive rispetto alla storiografia per quanto attiene alla perquisizione del “profondo” e dell’inesprimibile”, è evidente che la fiction “concorre anche a creare gli eventi o ad amplificarne l’eco e a influenzarne l’ubicazione gerarchica nell’economia di un racconto retrospettivo (ivi, p. 90).
Con tale consapevolezza, indagare all’interno dei componimenti misti di storia e finzione, il rapporto stabilito tra queste due dimensioni da chi vi ha fatto ricorso nel corso della storia letteraria, risulta prospettiva utile per far emergere i limiti, la pericolosità, ma anche le potenzialità della narrazione letteraria. Anche nel caso ci sia una dichiarata fedeltà alle fonti storiche, essa non si limita mai a darne “una copia” (seppur “dolorosa” –Promessi sposi XXVIII-), piuttosto offre di quelle realtà (sia nella forma di documenti storici che di esperienze umane riportate) una riscrittura che è interpretazione, tappa di una ricerca conoscitiva che tenta di mettere in ordine accanto a ciò che è accaduto, ciò che verosimilmente sarebbe potuto accadere e che, in un mondo possibile, potrebbe, chissà, ancora accadere. (pp. 29-30).
Bibliografia
GENETTE G. (1994), Finzione e dizione, Pratiche, Parma (ed. or. 1991).
MENGALDO P.V. (2011), Studi su Ippolito Nievo. Lingua e narrazione, Padova, Esedra, 2011
IOTTI G. (a cura di) (2019), Raccontare e conoscere: Paradigmi del sapere nelle forme narrative, Pacini Editore, Pisa.
CASTELLANA R. (a cura di) (2021b), Fiction e non fiction. Storia, teorie e forme, Carocci, Roma.
BERTONI F. (2007), Realismo e letteratura. Una storia possibile, Einaudi, Torino.
LANARO S. (2004), Raccontare la storia, Marsilio, Venezia.
Dionisotti C. (1988), Appunti sui moderni, Il Mulino, Bologna
CASINI S. (2014), Nievo, in S. Casini, G. Gaspari, A. Manganaro, da Manzoni a Verga: il romanzo italiano nel contesto europeo, in B. Alfonsetti, G. Baldassarri, F. Tomasi, (a cura di), I cantieri dell’Italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo, Atti del XVII congresso dell’ADI, Roma, Sapienza, 18-21 settembre 2013 ( https://www.italianisti.it/pubblicazioni/atti-di-congresso/i-cantieri-dellitalianistica-ricerca-didattica-e-organizzazione-agli-inizi-del-xxi-secolo-2014)
CP : Ippolito Nievo, Il Conte Pecorajo, Storia del nostro secolo, a cura si Simone Casini, Venezia, Marsilio, 2010
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