05 giugno 2023

PLATONE FRAINTESO DALLA FILOSOFIA FEMMINISTA

 




UN FURTO POSCRITICO. SUL PLATONE DI CAVARERO

di Natascia Tosel

 

Chi per professione o per passione è avvezzo alla frequentazione della teoria critica sarà inciampato in più di un’occasione su quel turbinio di etichette con cui si è usi catalogare qualsivoglia prodotto del pensiero. Una pratica corrente assai diffusa pare essere quella del copia e incolla: si prende una reboante categoria del passato critico e ci si appiccica un prefisso, così che in un sol colpo ci si procura un’eredità e un marchio di giovinezza. Non sorprende allora se gli studi neo-materialisti, post-umani, eco-femministi – solo per citare i tag più succulenti sul mercato – sembrano godere di ottima salute. Ciò che spesso accomuna tali tentativi di pensare il nuovo incipriando il naso a già consolidati ismi, è una ventata di radicalità: il compito che ci si prefigge è quello di spingere la critica sempre più in là, farla avanzare di qualche metro, radicalizzarla più e meglio di quanto si è fatto finora. Non si vuol certo qui negare che gli esiti di tali scalate siano stati in molti casi più che felici; ciò che preme sottolineare è piuttosto che l’ascesa alle vette della critica preclude sovente altri sentieri dall’aria meno rarefatta. La questione, insomma, è se val la pena continuare a perseverare ad ogni costo verso la cima, oppure se sia possibile qualche volta tentare un cambio di direzione, o l’apertura di una nuova via. Tali sperimentazioni – troppo rischiose per le ascese in solitaria – sono più adatte alle passeggiate in compagnia a bassa quota, là dove si può scongiurare la vertigine del precipizio. Sono passeggiate che, facendo propria a nostra volta l’arte del copia e incolla, potremmo definire postcritiche: si tratta pur sempre di portare a spasso il pensiero, ma percorrendo sentieri piani (il che – si badi bene – non significa lineari), dove è lecito incamminarsi con equipaggiamento leggero e star sicuri che si incontreranno altri sulla via.

 

Così, per quella che per la lettrice e il lettore potrebbe essere presumibilmente la prima passeggiata postcritica, scegliamo di partire con lo zaino sgonfio, portandoci a mo’ di guida un libretto apparentemente sottile, il cui titolo già di per sé descrive un sentiero che non intende condurci né verso vette metafisiche, né verso scalate sull’iperuranio. Il testo in questione è Nonostante Platone di Adriana Cavarero: un libro che ha già compiuto più di trent’anni e a cui sembrerà perciò oltraggioso appiccicare qualunque prefisso, neo- o post- che sia. Eppur tuttavia la sua recentissima ristampa per l’editore Castelvecchi – che si colloca all’interno di una più vasta operazione di ripubblicazione di tutte le opere di Cavarero, offre se non altro l’occasione per riprendere a dialogare con un testo che, se da un lato può essere considerato a ragione un caposaldo della critica femminista alla logica patriarcale che impernia il pensiero filosofico d’Occidente, dall’altro lato fa sfoggio di una postura tutt’altro che rivolta alle scalate in solitaria. Pertanto, invece che riproporre le argomentazioni critiche attraverso cui Cavarero denuncia l’universale maschile in cui è venuta a declinarsi la parola filosofica – compito, del resto, che non potrebbe trovare spazio in queste poche righe –, ciò che preme qui è piuttosto rinvenire le movenze di un incedere filosofico che pare particolarmente adatto alle nostre passeggiate postcritiche. Insomma, per dirla esplicitamente, quel che si sta cercando di fare in questa sede è rubare il testo di Cavarero alla critica per darlo alla postcritica, o perlomeno per tentare di procurare a quest’ultima elementi utili allo sviluppo della propria andatura.

 

Tale furto, a scanso di equivoci, non è che un atto di emulazione della strategia di rapina messa in atto dall’autrice stessa. Cavarero, infatti, si propone nel libro di rubare le figure femminili presenti nei dialoghi platonici – sempre relegate al ruolo di comparse – al fine di rimetterle al centro della scena, rendendole pioniere di nuovi sentieri, le apripista di vie differenti rispetto a quelle, tutte in salita, a cui ci ha abituato la filosofia antica. Rubare tale strategia di furto, per quanto ossimorico ciò possa apparire, significa allenarsi all’acquisizione di una qual certa agilità: l’andatura deve farsi rapida, il passo veloce, la postura sempre più inclinata, prima in avanti – verso il recupero del bottino – e poi all’indietro – per controllare che nessuno ci segua, certo mai eretta o protesa verso l’alto. Abbiamo ragione di credere che lettori e lettrici si staranno a questo punto lamentando: si era promesso loro una tranquilla passeggiata in compagnia a bassa quota, e ora ci ritroviamo a correre, balzare, fuggire. A nostra discolpa, possiamo dire che ci eravamo impegnati ad evitare qualunque pericolo mortale di caduta, così come la vertigine dell’abisso; non abbiamo mai garantito una totale assenza di rischi. Inoltre, l’insidia in cui si incorre in questo esercizio di agilità non è quello – ben noto ai più arditi atletismi del pensiero critico – della morte, del salto nel vuoto, dell’angoscia della fine. Il rischio perlopiù è quello dell’imprevisto, dell’incontro inatteso con altri a cui capiti di passare per la via, dell’evento inaspettato che potrebbe costringerci a cambiare direzione. Non la fine, dunque, ma la nascita – intesa qui, per ora, come evento generativo di nuovi possibili scenari – è l’incertezza propria di questa strategia di rapina, che non ha altro scopo se non quello di gettar nuova luce sugli ostaggi, guardarli più da vicino, sentirne la voce e non soltanto l’eco. Rapirli, perciò, non per farli prigionieri e rinchiuderli in una caverna, bensì per far cambiare loro aria: è quello che fa anche Cavarero sottraendo al testo platonico Penelope, la servetta di Tracia, Demetra e Diotima. Cambia loro scena, e perciò stesso anche copione.

 

Tra queste figure femminili, è la prima – Penelope – ad offrirci un altro spunto utile per allenare la nostra andatura: un esercizio di agilità, la cui destrezza questa volta coinvolge gli arti superiori. Chi è uso ai sentieri di montagna sa bene, del resto, quanto sia importante in alcune situazioni anche saper “mettere le mani”. Penelope di manualità se ne intende e, com’è noto, passa le giornate a tessere e le notti a disfare il frutto del suo lavoro diurno. Ciò che fa problema a Platone, come Cavarero mette brillantemente in mostra, non è né il paradosso di un lavoro senza fine (d’altro canto, la filosofia non è essa stessa un compito impossibile?), né il fatto che la donna trascorra le notti a disfare quanto tessuto in precedenza. Stando all’argomentazione platonica del Fedone, l’atto del disfare si confà perfettamente al pensiero critico, e ne costituisce anzi la caratteristica propria: separare, dividere, distinguere, non sono che l’essenza del movimento diairetico, quello che conduce il pensiero verso la verità o, perlomeno, ai piani alti abitati dalle idee. La filosofia platonica non fa altro che disfare: sfilaccia la realtà per distinguerla dall’apparenza, sfrangia l’essere per separarlo dal nulla, sbrindella il corpo per dividerlo dall’anima. Problematico semmai, per Platone e per buona parte del canone filosofico occidentale, è il movimento opposto: tessere, comporre, mettere assieme. Un lavorio che non ha nulla a che vedere con le sintesi dialettiche; non c’è niente da negare o da superare qui, c’è semmai da muovere le mani, intrecciare i fili, farli confluire in una trama e in un ordito. Questo fa chi sa generare qualcosa di nuovo: tessere, raggruppare, mettere in relazione, poiché la nascita non è mai fuoriuscita dal nulla, ma frutto di intricate combinazioni, così come, del resto, la vita non è mera attesa della fine, bensì il nostro continuo piegarci e dispiegarci nel qui e ora.

 

Val la pena di notare che quest’ars combinatoria è incarnata da Penelope attraverso un’attività di tessitura che diviene un rituale condiviso. La sala del telaio è il luogo d’incontro delle donne, lo spazio dove il femminile può vivere senza essere schiacciato dallo sguardo critico patriarcale (sulla questione dello sguardo si dovrà poi tornare). Ci si potrebbe immaginare questo luogo come una sorta di rifugio privato, oppure come la sede di una “società di straniere” à la Virginia Woolf: uno spazio in cui si pratica il rifiuto dell’ordine costituito, magari gettando furibonde insulti e diffamazioni contro il nemico. Invece Cavarero – e questo ci pare altro elemento prezioso per allenare la nostra postura postcritica – immagina la stanza del telaio affollata di donne che tessono ridono. Il riso, dunque, lo stesso che contraddistingue la celeberrima servetta di Tracia – figura incontrata da ciascuna e ciascuno di noi nel manuale del liceo e destinata a divenire il simbolo di un senso comune che non riesce a raggiungere le vette filosofiche – , diviene parte integrante del nostro incedere a bassa quota. La risata è certo sinonimo di leggerezza, di una certa felicità e, soprattutto, di condivisione. Penelope non ride da sola, nel suo cantuccio privato, bensì nella sala del telaio, con le compagne; anche la servetta di Tracia ride di gusto, all’aria aperta, nella superficie dello spazio pubblico piuttosto che nel fondo della sua stanza.

 

Tuttavia, non si tratta solo di guadagnare un’andatura leggera, spensierata, allegra; vi è qui in gioco un legame tra la risata e la sua asignificanza, che opera una sorta di boicottaggio del linguaggio come unico strumento del pensiero. La risata è emissione corporea di un suono, impossibile da astrarre dalla materialità che la emana: una vendetta contro il logocentrismo della critica, che rigurgita parole e concetti senza saperli mai ascrivere ai corpi che li pronunciano, li pensano, li vocalizzano e li incarnano. In quest’atto di astrazione – in cui si identifica il canone filosofico occidentale – si pongono le basi per la scalata metafisica verso le vette dell’universale, là dove l’aria si fa così rarefatta che nessuno e nessuna sembra poter trovare lassù le proprie condizioni ottimali di vita. Il modello universale si impone come unica parola possibile, una parola – è vero – sempre declinata al maschile, ma che fa problema non solo per l’ovvia esclusione di una fetta del mondo, quella femminile, bensì anche e soprattutto in quanto parola che non nomina nessuno. Il genere maschile diviene neutro nel senso letterale del termine: neutralizza, astrae, disfa (ancora una volta) ogni differenza. Il soggetto del logos è evanescente, asessuato, indistinto, incorporeo: un soggetto impossibile da incontrare e proprio per questo collocato ad altitudini proibitive, ove i corpi – quelli umani – riuscirebbero a mala pena a sopravvivere.

 

Chi di noi intenda continuare a passeggiare in compagnia, dovrà evitare qualsiasi percorso di tal tipo, poco importa se lo si trova segnalato sulla via con nomi altisonanti e piacevoli alla pronuncia, magari anche popolari ma non per questo meno “derealizzanti”. Si pensi, ad esempio, alla tanto blasonata via dell’inclusione: non rischia forse anch’essa, in alcune sue derive, di divenire l’imposizione di un modello unico e soprattutto neutro, capace di dissolvere di nuovo le nostre corporeità nel logos? Non sarà forse meglio moltiplicare le differenze – e allenarsi a vederle, riconoscerle e certo anche nominarle – piuttosto che disfarsene, affidandoci ad un genere neutro che pretende di appellare tutti senza davvero chiamare in causa nessuno? Quello che qui è in questione – ed è l’ultimo elemento che intendiamo rubare al testo di Cavarero per completare la nostra postura – è un certo modo di guardare e perciò stesso di fare teoria. La theoria greca, legata fin dall’inizio all’area semantica del vedere e dell’osservare, viene descritta da Cavarero come un atto contemplativo che distoglie lo sguardo dalla madre, da ciò che ci radica nel mondo e nel corpo, che si distrae per andare a posarsi in alto, in avanti, o comunque là dove l’occhio fatica a percepire le differenze e per questo si arroga il diritto di definirsi uno sguardo neutro. Al contrario, la nostra andatura postcritica, sottratta all’affanno della salita, dovrebbe consentire alla vista più agevoli cambi di direzione: un guardare che non è mai unicamente diretto verso la cima – meta agognata, ma anche sempre già decisa in partenza, pianificata ancor prima di muovere il primo passo – , bensì un voltarsi là dove colori, voci, risate, profumi, suoni lo richiedono. Un attenzione ai dettagli, quelli che ci rendono capaci non solo di distinguere, riconoscere, differenziare, ma di immaginare poi anche possibili combinazioni, nuove trame da tessere e da percorrere.

 

Non serve, in altre parole, equipaggiarsi di bombole d’ossigeno e di abbigliamento termico per avventurarsi in una passeggiata postcritica. Ciò che è richiesto, semmai – le lettrici e i lettori che si sono spinti fin qui lo avranno ormai compreso – è allenarsi all’acquisizione di una certa agilità (quella necessaria per operare furti e rapine), di una buona dose di manualità che ci permetta all’occorrenza di tessere e ordire, di quella leggerezza propensa alla risata e, infine, di uno sguardo orizzontale, poco incline alle atmosfere rarefatte. Queste le caratteristiche della nostra andatura che – l’autrice ci scuserà – abbiamo rubato ad un testo che meritava ben più alte considerazioni. Ci pare, tuttavia, che passeggiare a bassa quota, in tempi asfittici come quelli in cui ci troviamo ad abitare, possa perlomeno consentirci un respiro meno affannato.

 

[Immagine: Busto di Diotima di Mantinea].

 Pezzo ripreso da https://www.leparoleelecose.it/?p=47027



Nessun commento:

Posta un commento