UN
FURTO POSCRITICO. SUL PLATONE DI CAVARERO
di Natascia Tosel
Chi per professione o per passione è avvezzo alla frequentazione della
teoria critica sarà inciampato in più di un’occasione su quel turbinio di
etichette con cui si è usi catalogare qualsivoglia prodotto del pensiero. Una
pratica corrente assai diffusa pare essere quella del copia e incolla:
si prende una reboante categoria del passato critico e ci si appiccica un
prefisso, così che in un sol colpo ci si procura un’eredità e un marchio di
giovinezza. Non sorprende allora se gli studi neo-materialisti, post-umani,
eco-femministi – solo per citare i tag più succulenti sul
mercato – sembrano godere di ottima salute. Ciò che spesso accomuna tali
tentativi di pensare il nuovo incipriando il naso a già consolidati ismi,
è una ventata di radicalità: il compito che ci si prefigge è quello di spingere
la critica sempre più in là, farla avanzare di qualche metro, radicalizzarla
più e meglio di quanto si è fatto finora. Non si vuol certo qui negare che gli
esiti di tali scalate siano stati in molti casi più che felici; ciò che preme
sottolineare è piuttosto che l’ascesa alle vette della critica preclude sovente
altri sentieri dall’aria meno rarefatta. La questione, insomma, è se val la
pena continuare a perseverare ad ogni costo verso la cima, oppure se sia
possibile qualche volta tentare un cambio di direzione, o l’apertura di una
nuova via. Tali sperimentazioni – troppo rischiose per le ascese in solitaria –
sono più adatte alle passeggiate in compagnia a bassa quota, là dove si può
scongiurare la vertigine del precipizio. Sono passeggiate che, facendo propria
a nostra volta l’arte del copia e incolla, potremmo definire postcritiche:
si tratta pur sempre di portare a spasso il pensiero, ma percorrendo sentieri
piani (il che – si badi bene – non significa lineari), dove è lecito
incamminarsi con equipaggiamento leggero e star sicuri che si incontreranno
altri sulla via.
Così, per quella che per la lettrice e il lettore potrebbe essere
presumibilmente la prima passeggiata postcritica, scegliamo di partire con lo
zaino sgonfio, portandoci a mo’ di guida un libretto apparentemente sottile, il
cui titolo già di per sé descrive un sentiero che non intende condurci né verso
vette metafisiche, né verso scalate sull’iperuranio. Il testo in questione
è Nonostante Platone di
Adriana Cavarero: un libro che ha già compiuto più di trent’anni e a
cui sembrerà perciò oltraggioso appiccicare qualunque prefisso, neo- o post- che
sia. Eppur tuttavia la sua recentissima ristampa per l’editore Castelvecchi –
che si colloca all’interno di una più vasta operazione di ripubblicazione di
tutte le opere di Cavarero, offre se non altro l’occasione per riprendere a
dialogare con un testo che, se da un lato può essere considerato a ragione un
caposaldo della critica femminista alla logica patriarcale che
impernia il pensiero filosofico d’Occidente, dall’altro lato fa sfoggio di una
postura tutt’altro che rivolta alle scalate in solitaria. Pertanto, invece che
riproporre le argomentazioni critiche attraverso cui Cavarero denuncia
l’universale maschile in cui è venuta a declinarsi la parola filosofica –
compito, del resto, che non potrebbe trovare spazio in queste poche righe –,
ciò che preme qui è piuttosto rinvenire le movenze di un
incedere filosofico che pare particolarmente adatto alle nostre passeggiate
postcritiche. Insomma, per dirla esplicitamente, quel che si sta cercando di
fare in questa sede è rubare il testo di Cavarero alla critica per darlo alla
postcritica, o perlomeno per tentare di procurare a quest’ultima elementi utili
allo sviluppo della propria andatura.
Tale furto, a scanso di equivoci, non è che un atto di emulazione
della strategia di rapina messa in atto dall’autrice stessa.
Cavarero, infatti, si propone nel libro di rubare le figure femminili presenti
nei dialoghi platonici – sempre relegate al ruolo di comparse – al fine di
rimetterle al centro della scena, rendendole pioniere di nuovi sentieri, le
apripista di vie differenti rispetto a quelle, tutte in salita, a cui ci ha
abituato la filosofia antica. Rubare tale strategia di furto, per quanto
ossimorico ciò possa apparire, significa allenarsi all’acquisizione di una qual
certa agilità: l’andatura deve farsi rapida, il passo veloce, la
postura sempre più inclinata, prima in avanti – verso il recupero
del bottino – e poi all’indietro – per controllare che nessuno ci segua, certo
mai eretta o protesa verso l’alto. Abbiamo ragione di credere che lettori e
lettrici si staranno a questo punto lamentando: si era promesso loro una
tranquilla passeggiata in compagnia a bassa quota, e ora ci ritroviamo a
correre, balzare, fuggire. A nostra discolpa, possiamo dire che ci eravamo
impegnati ad evitare qualunque pericolo mortale di caduta,
così come la vertigine dell’abisso; non abbiamo mai garantito una totale
assenza di rischi. Inoltre, l’insidia in cui si incorre in questo esercizio di
agilità non è quello – ben noto ai più arditi atletismi del pensiero critico –
della morte, del salto nel vuoto, dell’angoscia della fine. Il rischio perlopiù
è quello dell’imprevisto, dell’incontro inatteso con altri a cui capiti di
passare per la via, dell’evento inaspettato che potrebbe costringerci a
cambiare direzione. Non la fine, dunque, ma la nascita –
intesa qui, per ora, come evento generativo di nuovi possibili scenari – è
l’incertezza propria di questa strategia di rapina, che non ha altro scopo se
non quello di gettar nuova luce sugli ostaggi, guardarli più da vicino,
sentirne la voce e non soltanto l’eco. Rapirli, perciò, non per farli
prigionieri e rinchiuderli in una caverna, bensì per far cambiare loro aria: è
quello che fa anche Cavarero sottraendo al testo platonico Penelope, la
servetta di Tracia, Demetra e Diotima. Cambia loro scena, e perciò stesso anche
copione.
Tra queste figure femminili, è la prima – Penelope – ad offrirci un altro
spunto utile per allenare la nostra andatura: un esercizio di agilità, la cui
destrezza questa volta coinvolge gli arti superiori. Chi è uso ai sentieri di
montagna sa bene, del resto, quanto sia importante in alcune situazioni anche
saper “mettere le mani”. Penelope di manualità se ne intende e, com’è noto,
passa le giornate a tessere e le notti a disfare il frutto del suo lavoro
diurno. Ciò che fa problema a Platone, come Cavarero mette brillantemente in
mostra, non è né il paradosso di un lavoro senza fine (d’altro canto, la
filosofia non è essa stessa un compito impossibile?), né il fatto che la donna
trascorra le notti a disfare quanto tessuto in precedenza. Stando
all’argomentazione platonica del Fedone, l’atto del disfare si
confà perfettamente al pensiero critico, e ne costituisce anzi la
caratteristica propria: separare, dividere, distinguere, non sono che l’essenza
del movimento diairetico, quello che conduce il pensiero verso la verità o,
perlomeno, ai piani alti abitati dalle idee. La filosofia platonica non fa
altro che disfare: sfilaccia la realtà per distinguerla dall’apparenza,
sfrangia l’essere per separarlo dal nulla, sbrindella il corpo per dividerlo
dall’anima. Problematico semmai, per Platone e per buona parte del canone
filosofico occidentale, è il movimento opposto: tessere, comporre, mettere
assieme. Un lavorio che non ha nulla a che vedere con le sintesi dialettiche;
non c’è niente da negare o da superare qui, c’è semmai da muovere le mani,
intrecciare i fili, farli confluire in una trama e in un ordito. Questo fa chi
sa generare qualcosa di nuovo: tessere, raggruppare, mettere
in relazione, poiché la nascita non è mai fuoriuscita dal nulla, ma frutto di
intricate combinazioni, così come, del resto, la vita non è mera attesa della
fine, bensì il nostro continuo piegarci e dispiegarci nel qui e ora.
Val la pena di notare che quest’ars combinatoria è incarnata da
Penelope attraverso un’attività di tessitura che diviene un rituale condiviso.
La sala del telaio è il luogo d’incontro delle donne, lo spazio dove il
femminile può vivere senza essere schiacciato dallo sguardo critico patriarcale
(sulla questione dello sguardo si dovrà poi tornare). Ci si potrebbe immaginare
questo luogo come una sorta di rifugio privato, oppure come la sede di una “società
di straniere” à la Virginia Woolf: uno spazio in cui si pratica il rifiuto
dell’ordine costituito, magari gettando furibonde insulti e diffamazioni contro
il nemico. Invece Cavarero – e questo ci pare altro elemento prezioso per
allenare la nostra postura postcritica – immagina la stanza del telaio
affollata di donne che tessono e ridono. Il riso, dunque, lo
stesso che contraddistingue la celeberrima servetta di Tracia – figura
incontrata da ciascuna e ciascuno di noi nel manuale del liceo e destinata a
divenire il simbolo di un senso comune che non riesce a raggiungere le vette
filosofiche – , diviene parte integrante del nostro incedere a bassa quota. La
risata è certo sinonimo di leggerezza, di una certa felicità e, soprattutto, di
condivisione. Penelope non ride da sola, nel suo cantuccio privato, bensì nella
sala del telaio, con le compagne; anche la servetta di Tracia ride di gusto,
all’aria aperta, nella superficie dello spazio pubblico piuttosto che nel fondo
della sua stanza.
Tuttavia, non si tratta solo di guadagnare un’andatura leggera,
spensierata, allegra; vi è qui in gioco un legame tra la risata e la sua asignificanza,
che opera una sorta di boicottaggio del linguaggio come unico strumento del
pensiero. La risata è emissione corporea di un suono, impossibile da astrarre
dalla materialità che la emana: una vendetta contro il logocentrismo della
critica, che rigurgita parole e concetti senza saperli mai ascrivere ai corpi
che li pronunciano, li pensano, li vocalizzano e li incarnano. In quest’atto di
astrazione – in cui si identifica il canone filosofico occidentale – si pongono
le basi per la scalata metafisica verso le vette dell’universale, là dove
l’aria si fa così rarefatta che nessuno e nessuna sembra poter trovare lassù le
proprie condizioni ottimali di vita. Il modello universale si impone come unica
parola possibile, una parola – è vero – sempre declinata al maschile, ma che fa
problema non solo per l’ovvia esclusione di una fetta del mondo, quella
femminile, bensì anche e soprattutto in quanto parola che non nomina nessuno.
Il genere maschile diviene neutro nel senso letterale del
termine: neutralizza, astrae, disfa (ancora una volta) ogni differenza. Il
soggetto del logos è evanescente, asessuato, indistinto,
incorporeo: un soggetto impossibile da incontrare e proprio per questo
collocato ad altitudini proibitive, ove i corpi – quelli umani – riuscirebbero
a mala pena a sopravvivere.
Chi di noi intenda continuare a passeggiare in compagnia, dovrà evitare
qualsiasi percorso di tal tipo, poco importa se lo si trova segnalato sulla via
con nomi altisonanti e piacevoli alla pronuncia, magari anche popolari ma non
per questo meno “derealizzanti”. Si pensi, ad esempio, alla tanto blasonata via
dell’inclusione: non rischia forse anch’essa, in alcune sue derive, di
divenire l’imposizione di un modello unico e soprattutto neutro, capace di
dissolvere di nuovo le nostre corporeità nel logos? Non sarà forse meglio
moltiplicare le differenze – e allenarsi a vederle, riconoscerle e certo anche
nominarle – piuttosto che disfarsene, affidandoci ad un genere neutro che
pretende di appellare tutti senza davvero chiamare in causa nessuno? Quello che
qui è in questione – ed è l’ultimo elemento che intendiamo rubare al testo di
Cavarero per completare la nostra postura – è un certo modo di guardare e
perciò stesso di fare teoria. La theoria greca, legata fin
dall’inizio all’area semantica del vedere e dell’osservare, viene descritta da
Cavarero come un atto contemplativo che distoglie lo sguardo dalla madre, da
ciò che ci radica nel mondo e nel corpo, che si distrae per andare a posarsi in
alto, in avanti, o comunque là dove l’occhio fatica a percepire le differenze e
per questo si arroga il diritto di definirsi uno sguardo neutro. Al contrario,
la nostra andatura postcritica, sottratta all’affanno della salita, dovrebbe
consentire alla vista più agevoli cambi di direzione: un guardare che non è mai
unicamente diretto verso la cima – meta agognata, ma anche sempre già decisa in
partenza, pianificata ancor prima di muovere il primo passo – , bensì un
voltarsi là dove colori, voci, risate, profumi, suoni lo richiedono. Un attenzione
ai dettagli, quelli che ci rendono capaci non solo di distinguere, riconoscere,
differenziare, ma di immaginare poi anche possibili combinazioni, nuove trame
da tessere e da percorrere.
Non serve, in altre parole, equipaggiarsi di bombole d’ossigeno e di
abbigliamento termico per avventurarsi in una passeggiata postcritica. Ciò che
è richiesto, semmai – le lettrici e i lettori che si sono spinti fin qui lo
avranno ormai compreso – è allenarsi all’acquisizione di una certa agilità
(quella necessaria per operare furti e rapine), di una buona dose di manualità
che ci permetta all’occorrenza di tessere e ordire, di quella leggerezza
propensa alla risata e, infine, di uno sguardo orizzontale, poco incline alle
atmosfere rarefatte. Queste le caratteristiche della nostra andatura che –
l’autrice ci scuserà – abbiamo rubato ad un testo che meritava ben più alte
considerazioni. Ci pare, tuttavia, che passeggiare a bassa quota, in tempi
asfittici come quelli in cui ci troviamo ad abitare, possa perlomeno consentirci
un respiro meno affannato.
[Immagine: Busto di Diotima di Mantinea].
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