POTERI
PUBBLICI E VIOLENZE INTERIORI
di Francesco Melchiorri
Un sontuoso ritorno al dramma storico in costume: Marco Bellocchio resta
nel solco della storia d’Italia attraversandola con gli occhi di personaggi
sociopolitici realmente esistiti che a loro modo ne sono stati protagonisti,
caratteristica costante delle ultime pellicole del regista di Bobbio. Per fare
ciò decide però nel suo ultimo lavoro di compiere un ulteriore passo indietro,
fino al tardo Risorgimento e agli anni immediatamente precedenti e successivi
all’unità d’Italia: dramma storico, si è detto, ma che pesca consapevolmente
nei meandri della grande storia, spesso dimenticati quando non nascosti, alla
ricerca di quegli ingranaggi celati che sembrano originare i meccanismi di
potere manifesti. Potere è la parola chiave di Rapito, che verrebbe
da declinare più propriamente al plurale: di poteri è infatti condita, dai
poteri è del tutto governata, manovrata l’intera narrazione, liberamente
ispirata al caso Edgardo Mortara e al libro di Daniele Scalise Il caso
Mortara. La vera storia del bambino ebreo rapito dal papa, uscito per
iMondadori nel 1996 e in fresca ristampa sulla scia del film bellocchiano.
Moritz Daniel
Oppenheim, “Il rapimento di Edgardo Mortara” (1862)
I poteri che Bellocchio scandaglia si attorcigliano attorno a uno dei suoi
blocchi tematici più ricorrenti, quando non costanti: la religione osservata
dal punto di vista degli apparati terreni, storici, umani. Edgardo Mortara è un
bambino appartenente ad una famiglia borghese ebraica, residente a Bologna. Una
sera del giugno 1858, quando il bambino ha quasi sette anni e la città è ancora
sotto il controllo dello Stato Pontificio, si presentano in casa il maresciallo
locale e un manipolo di poliziotti per portare via il sesto figlio di Salomone
“Momolo” Mortara e di sua moglie Marianna Padovani: secondo le leggi vigenti,
poiché il bambino risulta battezzato, in quanto non cristiani essi non hanno
più il diritto di crescerlo, perdendo di fatto la patria potestà. Dopo una
proroga di ventiquattro ore il bambino viene portato via di forza, e trasferito
direttamente a Roma presso la Casa dei Catecumeni, al fine di essere
“rieducato” alla sua fede insieme ad altri bambini di famiglia ebraica ma, come
lui, battezzati e allontanati. La famiglia farà di tutto per opporsi a questo
rapimento istituzionalizzato e per avere frequenti contatti col bambino, sempre
visitato in presenza di un religioso; l’attenzione internazionale che porterà
il caso nell’occhio del ciclone però, così come la volontà della famiglia
Mortara di continuare a professare la fede ebraica trasmettendola per quanto
possibile anche ad Edgardo, portano in breve tempo a una separazione completa
del bambino dai familiari. Col tempo egli sarà catechizzato e (ri)battezzato
alla presenza del Papa Pio IX, che lo accoglierà quasi come un figlio prezioso
nella famiglia vaticana. Dopo un’ellissi temporale di dieci anni, scopriamo che
Edgardo è ormai seminarista e apparentemente convinto cattolico, ancora legato
da uno stretto legame di sudditanza con il pontefice e sempre più lontano dalla
famiglia d’origine. Intanto il Risorgimento ha unito la penisola e sta per annettere
al Regno d’Italia la futura capitale Roma: il fratello di Edgardo è uno dei
partecipanti alla breccia di Porta Pia, dove riesce a ritrovarsi faccia a
faccia con lui, il quale lo scaccia riconoscendovi un usurpatore politico.
Qualche tempo dopo un Edgardo sacerdote viene a sapere dell’imminente morte
della madre e si reca in casa con l’intento di battezzarla sul letto di morte.
Il film si conclude nell’incomunicabilità tra madre e figlio, tra il rifiuto
della madre di convertirsi, la sua morte mentre recita per un’ultima volta lo
Shemà e l’indignazione dei fratelli nei confronti di Edgardo, il quale solo e
apparentemente turbato ripensa alla sera del rapimento, quando recitò per
l’ultima volta lo Shemà insieme alla madre.
In una trama che intreccia egregiamente storie personali e personaggi della
storiografia, tragedia pubblica e dramma privato, la rete a più livelli dei
poteri rappresentati risulta a tratti quasi inestricabile: il potere temporale
della Chiesa Cattolica, incarnato da un Pio IX bavoso, paranoico e ancora
epilettico – a dispetto dell’agiografia restituita del beato papa liberale e
miracolato – è “solo” il grande contenitore malato in cui si muovono
un’infinità di ulteriori effetti collaterali, manifesti in modo diverso nei
tanti personaggi, a partire da quello di Edgardo. Proprio perché mostrata solo
in minima parte, la violenza psicologica che egli subisce si propaga in ogni
singola inquadratura, arrivando invisibile e potentissima fino al climax
ascendente del finale. Gli stessi prelati cattolici che gravitano attorno al
papa o al bambino, d’altra parte – qui sta il deflagrante tragico realismo di
cui si serve Bellocchio – appaiono del tutto in buonafede nel compiere la loro
missione catechetica: essi compiono o avallano un crimine così efferato nei
confronti di un bambino innocente convinti di fare semplicemente il suo bene.
Ed è proprio questo autoconvincimento ad agire nel bambino e nella sua
crescita, ad impossessarsi della sua personalità turbata e a farlo convincere,
per autodifesa, per sopravvivenza, ad accettare la nuova volontà divina nella
sua storia personale. All’opposto, i suoi genitori che credono in un’altra
verità rivelata si oppongono strenuamente a una violenza giustificata e
prevista dalle leggi degli uomini, cui nulla può opporre la legge del cuore.
Così, la violenza si insinua anche nel rapporto tra moglie e marito:
intossicando anche la relazione alla base della solida famiglia numerosa che
vedevamo all’inizio, mette in dubbio a tratti l’idea di un cammino comune e condiviso,
la forza della coppia così come dei suoi componenti. È un potere che anziché
convertire sovverte, quello rappresentato in Rapito, fino a portare
il figlio maggiore dei Mortara, Riccardo, a rifiutare qualsivoglia religione in
favore dell’impegno politico: ma questa sua apostasia non basterà a convincere
il fratello Edgardo, il quale non sa e non può più scindere tra potere
spirituale e temporale nella sua vita, giunto com’è a una scissione intima che
vede il proprio culmine al capezzale della madre morente, ma che con il
consanguineo è manifestata nella frase simbolo del suo percorso interiore,
sapida di un evangelismo capovolto e contraddittorio: «Ora vattene, fratello
mio».
L’odio in nome dell’amore, il peccato senza cui non può esserci salvezza, la mortificazione personale per la vita eterna: è la grande ideologia cattolica, storicamente riversata anche sugli ebrei, gli uccisori di Cristo, ebreo anch’egli ma venuto a liberare dalla legge i suoi. Giustificazioni ideologiche che perdono il confronto con la ricostruzione storica dei fatti, portando alla luce violenze, soprusi, condizionamenti psicologici, morti sospette, vite represse che arrivano fin dentro la storia più recente (basti pensare, a titolo meramente esemplificativo, alle case Magdalene in Gran Bretagna, o alle tante pseudo-sette ancora tollerate all’interno del cattolicesimo). Anche rimanendo sul piano sociale, però, quello che Bellocchio pare volerci dire è: la nostra rimane una società cattolica e conservatrice. Poco meno di cento anni prima della Liberazione la Chiesa la faceva da padrone sul piano politico, quasi ottant’anni dopo di essa, forse, le cose sono cambiate sulle carte geografiche, ma non troppo nella sostanza, o sicuramente troppo poco sul piano individuale e quindi sociale: il proverbiale ateismo del regista, del resto, non ha mai messo in dubbio – rafforzandola anzi – la sagacia della sua filmografia nel cogliere quanto la cultura cristiana e in particolar modo quella cattolica risultino caratteristiche nel passato italiano e quindi costitutive del presente socioculturale, frutto schizofrenico e confusionario, tra le altre cose, di una prepotenza ideologica reazionaria che ancora condiziona e influenza più o meno inconsciamente le scelte collettive. Per mezzo di meccanismi alla base di molti e condivisi sensi di colpa interiori, il caso Edgardo Mortara sembra quindi assurgere a emblema della condizione psichica contemporanea, ma come il piccolo protagonista a circa metà film crede di poter rimuovere oniricamente il proprio trauma, nella scena più squisitamente autoriale del film il regista ottantatreenne pare suggerirci una soluzione delle sue: invece che venerare nei secoli una figura di morte, sarebbe bastato schiodare quel Cristo dalla croce così come fa Edgardo, permettendogli di scendere da essa, levarsi la corona di spine e passeggiare liberamente come un Aldo Moro in Buongiorno, notte qualunque; possibilità attuabile, se proprio non in ogni forma catartica d’arte, almeno all’interno di un qualunque film di Marco Bellocchio.
Pezzo preso da https://www.leparoleelecose.it/?p=47067
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