07 ottobre 2013

QUEL CHE DOBBIAMO AGLI ARABI



Basta leggere Dante per comprendere come la scienza e la filosofia araba illuminarono l'Occidente medievale aiutandolo a recuperare l''eredità di un mondo classico quasi dimenticato. Un libro, appena tradotto, ricostruisce quella straordinaria stagione del pensiero.
 
 
 

Gabriele Beccaria - Prima di Galileo e Newton

Molti manoscritti sono perduti, così come gli imperi che li custodivano si sono sbriciolati. E allora se si vuole ricostruire una storia straordinaria - quella che riporta alla luce Jim Al-Khalili, fisico britannico di origini irachene e autore del saggio «La Casa della Saggezza» - è meglio cominciare dalle cose che resistono meglio ai colpi del tempo, le parole. Per esempio al-kimiya e al-Jebr. Che suonano famigliari, perché ricordano - giustamente - termini come alchimia e algebra. Insieme con tanti altri vocaboli - alcool, alcali, alambicco, amalgama, elisir - che celano la stessa origine. Sono gusci di suoni e significati ereditati dall’arabo molto tempo fa, quando il mondo era - se lo si guarda con i nostri occhi - sottosopra. Mentre l’Occidente languiva nella povertà, oltre che in una tremenda ignoranza, la civiltà scintillava in Medio Oriente e in Asia. Merito degli Omayyadi e degli Abbasidi e della fetta di mondo che plasmarono. Un melting pot che avrebbe unito popoli e culture dalla Spagna all’India. 

Questa storia, che spesso sembra flirtare con esotiche esagerazioni, comincia intorno all’anno 800 e si evolve - tra trionfi, crisi e colpi di scena - fino all’alba del XVI secolo, quando l’Europa si riprende la leadership e ha inizio il Rinascimento. Non a caso è la storia di un’altra «Mille e una notte», parallela a quella di cui tutti hanno sentito parlare. E’ la «Mille e una notte» della matematica, dell’astronomia, della medicina, della geografia (e dell’alchimia e dell’algebra). Insomma di quella che oggi si definisce «scienza araba», ma che all’epoca era scienza tout court. Prima che sul palcoscenico si affacciassero i soliti noti, Kepler, Galileo, Newton.

Sono, invece, tanti ignoti quelli che il professor Al-Khalili evoca (a parte il duo Avicenna-Averroè): tra IX e XIV secolo celebrità assolute, oggi in una bolla d’oblio. Dissolti come la Casa della Saggezza - «la Bayt al-Hikma» - che il califfo al-Mamum innalzò a Baghdad e di cui oggi non resta nulla. Un mega-laboratorio ante-litteram, esempio di «Big Science» con secoli d’anticipo, come la definisce il fisico britannico: un misto di mecenatismo illuminato, infrastrutture d’avanguardia, cervelli cosmopoliti e libertà di ricerca. Lì si concentrano personaggi che - secondo Al-Khalili - cambieranno la storia del pensiero, anche occidentale. I nomi sono difficili da tenere a mente, ma vale la pena elencarne qualcuno.

Al-Khwarizmi, padre dell’algebra, al-Jahith, che abbozzerà una teoria evoluzionistica di stampo lamarckiano, e al-Farghani, protagonista di straordinarie osservazioni astronomiche. Erano le supernovae di un cosmo che espanderà i propri centri di studio, arrivando a Damasco, al Cairo, a Isfahan, a Samarcanda, a Bukhara, coinvolgendo figure da romanzo: Ibn Wahshiyya (studioso dei geroglifici), al Kindi (pioniere della crittografia), Ibn Firnas (un Leonardo da Vinci islamico che tentò il primo test al mondo di volo controllato), al-Razi (inventore della medicina clinica) e al-Haytham (teorico dell’ottica).

A proposito degli ultimi due, Al-Khalili arriva a sostenere che siano approdati alla logica dell’esperimento e della verifica (cioè del metodo scientifico) in straordinario anticipo, bruciando le future pretese di Bacone e Cartesio.  



Professor Al-Khalili, c’è un eccesso di figure eccezionali nel suo libro: non è facile credere che 700 anni fa la lingua franca della scienza fosse l’arabo. Cosa ribatte agli scettici?

«La ragione che mi ha spinto a scrivere è ricordare che tutti condividiamo la stessa eredità culturale, che però abbiamo quasi completamente dimenticato. E infatti, quando ci si sforza di capire qualcosa di più, si pensa subito allo zero e si fa spesso confusione tra arabi e indiani! Eppure basta partire proprio dalle parole - prima tra tutte algoritmo - per ricordare le influenze della civiltà araba e di un impero che era più esteso di quello romano. E’ così che l’arabo diventò l’equivalente dell’inglese di oggi: lo si doveva conoscere, se si voleva entrare nei circuiti del sapere». 

Circuiti che lei descrive come un clamoroso caso di globalizzazione, che dal mondo islamico tracimò fino all’Europa: come fu possibile?

«In effetti parlo di “scienza araba” nell’accezione più ampia e non di “scienza islamica”, dal momento che i personaggi che riporto alla luce comunicavano in arabo, ma non erano necessariamente arabi né devoti del Corano: erano anche persiani, oltre che cristiani ed ebrei».

L’esplosione di scienza (e filosofia) fu graduale: prima le traduzioni dal mondo classico e poi una produzione sempre più originale. Quale fu la causa del «miracolo»?

«Geografi, matematici e astronomi lavoravano insieme. A Baghdad si verificò una collaborazione internazionale di cervelli - per costruire telescopi o tracciare mappe del Pianeta - che non c’era mai stata prima, nemmeno ai tempi di Roma e della Grecia. Fondamentale fu la spinta dello Stato».

L’Occidente «rubò» dati e idee alla scienza araba, ma perché le origini di quel lascito furono rapidamente dimenticate? Nella «Scuola di Atene» di Raffaello c’è un solo «orientale», Ibn Rushd, vale a dire Averroè.

«In realtà antesignani come Fibonacci e Copernico riconobbero il debito con i matematici e gli astronomi arabi, mentre Dante e Colombo ammisero di aver utilizzato le osservazioni di al-Farghani. Poi, però, la rivoluzione scientifica del XVII secolo fu così spettacolare da cancellare di colpo quasi tutto il passato».

Lei elenca molte ragioni per la fine della scienza araba, ricordando che il naufragio si sente ancora oggi: in un anno 17 Paesi arabi hanno prodotto le stesse pubblicazioni di Harvard. Quanto pesò la religione?

«Di certo nel declino del pensiero filosofico, meno in settori come la matematica o l’astronomia. Più importante fu la crisi politica, che bloccò i fondi pubblici, oltre alla mancata diffusione della tecnologia della stampa. Ne derivò uno spirito conservatore che ribaltò l’idea di scienza: non più libera indagine, ma il prodotto pericoloso del presunto ateismo occidentale!».

* Jim Al-Khalili: è professore di fisica teorica all'Università del Surrey


La Stampa TuttoScienze 2.10.13

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