La passeggiata di Totò e Ninetto. Una lettura di “Uccellacci e uccellini”
Federico De Melis
Totò e Ninetto, un padre
e un figlio sottoproletari, camminano per le strade del mondo, le
strade dell'estrema periferia romana degli anni '60. Ai due si unisce
un corvo parlante (la voce querula e dolce è di Francesco Leonetti),
saggio e disilluso, che dice cose giuste sulle sorti dell'umanità ma
è insieme consapevole della loro limitatezza. Questo l'avvio di
Uccellacci e uccellini (1966) di Pier Paolo Pasolini, [...].
La passeggiata di Totò e
Ninetto - passeggiata intesa, in senso romantico, come un andare
senza meta -, che nella sceneggiatura era il terzo di tre episodi
(preziosi spezzoni del primo, L'uomo bianco, tagliato nella
versione definitiva, li mandò in onda Raitre nell'85 nella Magnifica
Ossessione di Enrico Ghezzi) nel film fa da cornice narrativa
alla favola degli uccellacci e degli uccellini che il corvo racconta
ai due (e che era il secondo episodio): San Francesco affida a Frate
Ciccillo (Totò) e a Frate Ninetto il compito di parlare con falchi e
passerotti per conciliarli e consegnarli all'amore.
Nel presente il corvo
continua a incalzare con le sue prediche i due poveri cristi. Candidi
e cinici, infastiditi, Totò e Ninetto lo guardano di sottecchi, e
nella loro mente prende corpo il piano: mangiarselo. La fine e
sollievo e amarezza: il corvo è arrostito e mangiato con appetito
atavico. Mancheranno i suoi discorsi noiosi ma anche la sua saggezza
disincantata, la sua libertà intellettuale. All'origine il corvo
doveva essere «un saggio 'reale' che cerca, attraverso una
scandalosa e anarchica libertà, la realtà empirica non sistematica,
nelle cose». Ma che cosa sono, se non proprio questo, il padre e il
figlio sottoproletari? Pasolini doveva Inventare un corvo che facesse
loro da controcanto, e che dunque non poteva che essere marxista. Ma
siccome il corvo doveva essere simpatico e stravagante nel suo ordine
mentale, amaro ma infine gioioso, non poteva essere un marxista di
vecchio tipo, categorico e settoriale, ma doveva essere piuttosto «un
corvo marxista non del tutto ancora liberato dal corvo anarchico,
indipendente, dolce e veritiero».
Alla fine Totò e Ninetto
divorano l'uccello ma così facendo, suggerisce Pasolini, lo
«assimilano», o meglio assimilano quel poco di utile che può
servire loro per sopravvivere nel mondo degradato. Così, in un certo
senso, i due buoni diavoli, con la loro innocenza irridente e
semplicità sottoproletaria, e il corvo, con il suo marxismo
infondato e scettico, fanno parte della stessa visione del mondo,
dello stesso «sogno di una cosa», come Pasolini e i borgatari degli
anni '60.
Umoristico (un omaggio ai
classici del comico) e triste, leggero e ideologico, «ideocomico»
(come scrisse Pasolini), Uccellacci e uccellini restituisce in
forma di apologo verità orribili ad ascoltarsi. In controluce c'è
il «nero pessimismo» degli anni 70, dell'Abiura alla
Trilogia della vita, e del finale Salò, ma la mimica
di Totò e la risata malandrà o il riso ingenuo di Ninetto hanno
come il sopravvento, la superficie è più vera della verità
sottostante.
Uccellacci e uccellini
è forse il film più sereno di Pasolini, si respira tra gli anfratti
del degrado, tra i casermoni di nuova costruzione degli anni 60 e le
baracche dei borghetti romani, il solicello e l'aria tersa che viene
dalla vicina campagna. E' un mondo mitico che fa da scenario a tutte
le favole possibili, e si vorrebbe che il parlare del corvo, col suo
tono ironico e esopeo, fosse un raccontare infinito, che dalla
sua saggezza scaturisse il racconto del mondo ai di sopra dei
travagli e lutti ideologici.
«L'atroce amarezza
dell'ideologia mi ha impedito di vedere le cose e gli uomini con la
leggerezza del perdono» ha scritto Pasolini. Se nel fondo è vero,
non sembra. Uccellacci e uccellini fa parte di quel grande
capitolo dell'opera pasoliniana votato all'utopia del
paleocristianesimo (il Vangelo secondo Matteo è del '64) al dialogo
con la Chiesa conciliare e giovannea, al confronto serrato e libero
della sua anima marxista e della sua anima anarco-evangelica di due
credi che lottano invano per potersi redimere
nella serenità francescana, nell'obiettività del mondo cosi com'è.
“il manifesto”,
domenica 10 gennaio 1986
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